Guardiani del Mar Baltico

I volti e le parole di chi ha deciso di proteggere il Mar Baltico insieme a KARHU e alla John Nurminen Foundation

L’evento ‘Baltic Sea’ organizzato da KARHU e dalla John Nurminen Foundation è stato sinonimo di community. Sensibilità ambientale e running si sono uniti nelle parole e nelle azioni dei tanti partecipanti alla speciale giornata di Helsinki. Questi Guardiani del Mar Baltico sono attivisti e atleti, sono anime connesse alla natura e al proprio mare. Li abbiamo ritratti al termine della simbolica corsa che li ha condotti sulla costa della capitale finlandese, abbiamo ascoltato le loro esperienze e riflessioni, comprendendo il bisogno individuale e collettivo d’incidere positivamente sul mondo contemporaneo e sul suo ecosistema.

ANTON ARO

“Sono cresciuto sul Mar Baltico, ho tantissimi ricordi, da bambino ci nuotavo costantemente. Ora ho una casa affacciata sulla costa, dove trascorro alcune settimane d’estate con i miei parenti. Per questi motivi il Baltico è molto vicino a me. Penso che sia doveroso agire ora per salvaguardarlo. Sono consapevole che non possiamo effettuare cambiamenti enormi o drastici da un giorno all’altro, ma possiamo iniziare questo processo, possiamo puntare su un cambiamento sostenibile e graduale. Siamo qui per una buona causa e credo che momenti come questi siano fondamentali, perché riuniscono persone positive, che possono diffondere questi temi, creare awareness e allargare il numero di attivisti. Sono orgoglioso della running community finlandese. Quando ho iniziato a farne parte, ho subito capito di avere a che fare con delle persone meravigliose. I runner non corrono sul Mar Baltico, è ovvio, ma hanno una spiccata sensibilità ecologica e quelli che conosco evitano sempre d’inquinare”

ELINA TUOMAALA

“Sono nata sul Golfo di Bothnia, nella parte occidentale della Finlandia. Il mio cuore appartiene a quelle coste e ancora oggi, ogni volta che vado a correre, cerco di farlo nei pressi del mare. Quando osservo il suo colore, non posso che preoccuparmi. Non è pulito e quando la temperatura sale è impossibile pensare di nuotare. Lentamente le condizioni del Baltico stanno migliorando, perché tutti stanno prendendo seriamente la cosa: il futuro mi sembra luminoso, ma dobbiamo unirci per renderlo tale. Questo evento è una grande opportunità, permette di creare awareness ed è assolutamente importante anche la parte di fundraising dedicata ai progetti della John Nurminen Foundation. In Finlandia fortunatamente si stanno muovendo in tanti per proteggere il Mar Baltico, e questa giornata lo dimostra”

JARI-PETRI TIANINEN

“Non vivo a contatto con il Mar Baltico, ma arrivo dall’entroterra finlandese, dove sono in costante sinergia con la natura. La natura è parte della mia esistenza. Ascolto e leggo news riguardo il tema ambientale tutti i giorni. Credo sia necessario un percorso individuale e collettivo. Tutti possono fare di meglio, come riciclare ed evitare di gettare compulsivamente ogni cosa. Le persone devono entrare nell’ordine delle idee che tutto porta al mare: anche se vivono distanti dalle coste, i loro rifiuti incidono sulla salute del Baltico. Qui ad Helsinki l’inquinamento è evidente e tutti ne sono consapevoli, ma eventi del genere permettono di aprire ancora più gli occhi. Io lavoro per una grande company internazionale e stiamo portando avanti molte iniziative per l’ambiente. C’è bisogno di brand come KARHU e di questa partecipazione collettiva per rendere le cose migliori. Non succederà domani o dopodomani, ma un giorno le cose torneranno a funzionare, e lo faranno grazie alla conoscenza e alla consapevolezza maturate durante eventi come questo”

TARU PALSA

“I problemi del Mar Baltico sono noti a tante, tantissime persone, ma sono sempre positivi eventi di sensibilizzazione come questo. La rilevanza di queste giornate è enorme, perché runner, attivisti e persone riescono ad ottenere informazioni concrete dalla John Nurminen Foundation e, contemporaneamente, a fare qualcosa collettivamente per cambiare le cose. Spero che vengano organizzate sempre più eventi del genere. Il mare è qui, al nostro fianco, e dobbiamo fare di tutto per salvaguardarlo”

JARKO HAMMAR

“Sono cresciuto a Turku, di fianco al mare, e questo tema mi tocca particolarmente, perché sono legato al Baltico e da qualche tempo ho iniziato ad alternare running e nuoto in acque libere. Penso che la conoscenza delle condizioni del Mar Baltico sia molto cresciuta negli ultimi anni, la gente sta comprendendo la gravità della situazione, è consapevole che ogni rifiuto può mettere a repentaglio la salute del nostro intero ecosistema. Gli eventi legati al running sono importanti, perché tra i runner ho sempre riscontrato una spiccata sensibilità ambientale. Quando corro a Turku vedo tantissimi altri runner che raccolgono plastica lungo i rispettivi tragitti, e lo stesso avviene qui ad Helsinki. Lo sport aiuta a sensibilizzare e comprendere. Fa estremamente piacere che tanti runner, pur non essendo nuotatori, abbiano a cuore il Mar Baltico”

RIIKKA HEINONEN

“Il Mar Baltico è nella mia vita quotidiana. Vivo ad Helsinki, affacciata sulle sue acque. Nuoto durante tutto l’anno, sia d’estate che d’inverno, anche quando vado a correre cerco di prendere strade che passino nei pressi della costa. Per questo sono molto preoccupata, perché posso osservare le condizioni del Baltico ogni giorno. Ho due figlie giovani e spesso devo spiegare loro che non possono entrare in acqua, perché il colore è eccessivamente verde… Fa paura. Quando parliamo di cambiamento climatico possiamo solo idealizzarlo, ma in questo caso possiamo vederlo, è tutto tangibile. Oggi per esempio abbiamo fermato la nostra corsa su una baia dove l’acqua era totalmente marrone. Contemporaneamente so che l’impegno delle persone sta portando a dei progressi che si possono riscontrare in altre zone marittime di Helsinki. Questo è un sollievo, ma dobbiamo continuare ad agire”


A guardia del Mar Baltico insieme a KARHU e JNF

Sensibilizzazione e corsa nel cuore di Helsinki, in una giornata dedicata alla salvaguardia marina

“Vedere runner e persone che tengono al Mar Baltico è estremamente gratificante. ‘Baltic Sea’ è un evento nuovo per la John Nurminen Foundation, è la prima volta che colleghiamo le nostre azioni e i nostri progetti al running. Siamo felici di essere qui grazie a KARHU. Il fatto che tutte queste persone abbiano dedicato tempo ed energie al nostro mare è emozionante. La cosa più bella dell’evento è proprio questa, la connessione tra tutti i partecipanti, tra tante persone che non si conoscevano prima di oggi, ma che condividono le stesse volontà”. L’evento ‘Baltic Sea’ è racchiuso nelle parole del rappresentante della John Nurminen Foundation Erkki Salo e nella presenza attiva dei moltissimi partecipanti ad una giornata di sensibilizzazione marina, prodotta dalla virtuosa sinergia tra KARHU e la JNF.

Il Karhu Store del centro di Helsinki ha accolto runner e persone preoccupate per le condizioni di un mare che deve essere protetto e preservato, soprattutto alla luce di dannosi processi in atto come l’eutrofizzazione, la perdita di biodiversità e i disastrosi livelli d’inquinamento raggiunti negli ultimi tempi. “In Finlandia e in tutta la Scandinavia non possiamo nuotare dopo la metà di luglio, perché il Baltico si riempie di cianobatteri”, continua Salo, “la visibilità è nulla e l’acqua ha un odore forte. Questi sono segnali chiari: il Mar Baltico non sta bene, ma se riduciamo l’inquinamento e aumentiamo la nostra attenzione potrà recuperare da solo, potrà curarsi da solo”.

La speranza è il tema fulcro di una giornata dedicata alla salvaguardia marina, strutturata tra speech di approfondimento della Fondazione e una corsa simbolica che ha toccato la costa di Helsinki, oltre che gli occhi dei suoi abitanti. “L’attenzione di KARHU a questo tema è molto importante”, conclude Salo, “Attraverso eventi del genere riusciamo a dare voce alla natura e al mare. In questo momento storico stiamo lottando per il nostro mare, ma anche per la sopravvivenza del pianeta. KARHU è un brand molto amato in Finlandia, fa parte della storia del nostro Paese, ma raggiunge anche tantissime persone in tutto il mondo. Grazie al suo impegno e alle sue piattaforme in tantissimi verranno raggiunti da questi messaggi”.

Le nostre immagini aiutano il racconto di questo fondamentale evento. Ecco una galleria dei Guardiani del Mar Baltico che hanno colorato le strade di Helsinki con i loro corpi e i loro ideali.


Left A Boy And Returned A Viking: The Story Of Kelechi ‘Kelz’ Dyke

From Austria to the UK, from American Football to Netflix, life for Kelz means challenge and growth

My whole life has always revolved around the concept of growth. My mom was born into a wealthy Nigerian family, her father died when she was only 17, so things changed very quickly. She met my father, who was living in Austria, they got married and divorced when I was 4 years old. Suddenly my mom found herself alone, without knowing how to speak German, and we struggled a lot. Life continued to be difficult even after we moved to England: in the early days we lived in a one-bedroom apartment…. That is why I always wanted to achieve more and push myself as far as I could.”

Ancient epic poems tell of journeys and heroes. They define figures, fighters carved in stone, sketch their invulnerability and vulnerability, their muscular superficiality and inner depth. They are athletic feats and metaphors for life. They are obstacles and opportunities. They are centuries-old notions reflected in a digital, swirling present: the present of American football player and fitness benchmark Kelechi Dyke.

Austria meant challenges. Nigeria gave me body, genetics, culture and behavior. While Austria was chaos for me, Nigeria was structure. Growing up I was always alone; I was the only black child in my Viennese school. There are many positive sides to Austria, I think for example of the health care system or nature school trips, but in this nation, I also learned to understand some forms of racism…. No one spoke to me and I remember many small, strange negative incidents. That’s why I focused only on grades and academic successMy mom pushed me toward American football; before that I simply played European football. I love contact sports, I enjoy a challenge, and I liked the idea of making a sport that was virtually unknown in Europe more popular. I still remember when they handed me the book with all the rules, I studied it day and night…. I still remember when they handed me the book with all the rules, I studied it day and night…”

Kelechi does not mention any reference points or sporting idols. When he thinks about his own ascent in Old World American football, which began in Vienna, passed through London, and is now back in the city that was once the capital of the glorious Austro-Hungarian Empire, this monumental athlete over six feet tall does not talk about NFL stars, but about values. The same values he tries daily to share on his social channels, showing the effects of healthy living on body and mind. The same values that have accompanied him on a playful experience away from the football field, in Netflix’s ‘Too Hot to Handle’ format.

“When you come out of nowhere, the only thing you can have are your values: kindness and respect are key. After my experiences in Austria, I could never have become a bully. I never had sports icons because I always had to deal with real life problems. And I never had the luxury of focusing only on sports: while my mom was working, I had to keep an eye on my brothers, I couldn’t go to the park and have fun…. Without money it is not easy to play sports. For me it was and still is important to face and overcome daily obstacles, which is why I always appreciated Arnold Schwarzenegger not just as a sportsman, but as a man. Even during ‘Too Hot To Handle’ I tried to stay true to myself, to the idea that you don’t have to be a dickhead: that doesn’t mean being a leader and it doesn’t mean influencing in the right way. You have to understand people, be honest and create connections through your ideas. It is difficult, but I firmly believe in this purpose.”

After being viewed by millions and radically increasing the number of followers, the current Vienna Vikings player has not lost his distance from reality and the significant past. He has preferred meditation, reading and rigorous care of an almost endless muscular archipelago to easy success. That’s why his videos don’t sprout cigars, champagne and dolce vita, but resonate the echoes of pure passions like football and basketball, the desire to dominate every yard and the urge to consciously inspire. Like one of the heroes described in ancient epic poems, like a Super Saiyan from the much-loved Dragon Ball universe. Because right there, at the intersection of reality and imagination, past and present, Kelechi Dyke’s mindset and personality find fertile ground, projected into a future that wants to be both individual and collective.

I am coming back to Vienna after many years in London to close a circle and to succeed in a country that I still feel connected to me. Now I want to continue to improve in everything. Lately I have discovered meditation and it is helping me a lot. I have realized that it is essential to be in the present, and I try to share this concept with those who follow me. I want to become the best version of myself and allow others to join in this individual process, avoiding fiction and false positivity. The mind is playing a central role in my life. For example, I used to be just a sprinter, but now I love to train for long distances: I struggled tremendously, but I discovered incredible feelings when I ran 5 miles for the first time. Long distances allow me to think clearer, to better process things. I also want to establish myself in American football, but mostly I want to be a good person and take care of my family. I’ve always read anime because they theorize paths that somewhat resemble mine: they teach that even heroes can fail and that they have to work hard to achieve success. Goku is constantly improving because he has to fight for his life. That’s why I will never stop seeing myself in his character.”

Photo Credits: Kelz images

Photo: Dave Imms @daveimms
Athlete Representation: Forte

Text by: Gianmarco Pacione


Safiya Alsayegh, il ciclismo ha bisogno di eroine

Giovane pioniera, giovane rivoluzionaria, intervista al volto-simbolo del UAE Team ADQ

“Mi sono sempre vista sulla bici, l’immagine delle mie prime pedalate con due rotelle stabilizzatrici è ancora impressa nella mia mente. Avevo meno di 4 anni e il ciclismo non era molto popolare negli Emirati Arabi Uniti… A dire il vero il ciclismo femminile era praticamente pari a zero”. Comincia con questa romantica diapositiva la storia di Safiya Alsayegh: la storia di una pioniera, o meglio, di una giovane pioniera contemporanea.

Dal deserto ciclistico degli Emirati Arabi Uniti 21 anni fa è sbocciata un’inattesa rivoluzionaria, una ragazza capace di far germogliare una primavera sportiva, di segnare e cambiare indelebilmente il rapporto tra una nazione e le due ruote. È l’atipico cammino di Safiya Alsayegh, l’attuale volto-manifesto del UAE Team ADQ. È la forza dirompente della passione, in grado di modificare paradigmi e costumi, tradizioni e passato, stereotipi e tabù.

Tutto cominciò casualmente, grazie ad una vecchia bicicletta e al profondo legame paterno. Tutto continua a ruotare attorno alle sensazioni delle due ruote, in una carriera da pro che sotto l’arido sole di Abu Dhabi sembrava una missione impossibile, quasi utopica, ma che negli ultimi sette anni si è invece concretizzata in un’ascesa tinta di medaglie continentali e corse internazionali, in una legacy in costruzione.

“Da giovane ho provato quasi tutti gli sport. Ero particolarmente brava nel nuoto, ho anche raggiunto risultati rilevanti a livello nazionale, ma ho dovuto abbandonare le vasche a causa dell’assenza di competizioni. Sono passata all’atletica e, grazie ad un mio compagno di squadra, ho scoperto il ciclismo. Ho chiesto subito a mio padre una bici e mi sono ritrovata a pedalare con una city bike di seconda mano al suo fianco. Era la seconda bici della mia vita. In principio ho vissuto il ciclismo come un modo per connettermi a mio padre e per alimentare il nostro legame: facevamo giri di una decina di chilometri attorno al quartiere e parlavamo di tutto. Poi ho notato sui social che una mia amica si stava allenando con la squadra nazionale, l’unico team femminile di tutto il Paese, e ho deciso di unirmi a lei. All’epoca sapevo pochissimo di questo sport, pensate che volevo partecipare alla prima gara con la bicicletta che mi aveva regalato mio padre… Per fortuna non è andata così”

La narrazione di Safiya riesce ad essere contemporaneamente leggera e matura, coraggiosa e timida, evidenziando una personalità strutturata alla perfezione, in costante equilibrio tra dolcezza, forza e consapevolezza. Perché non è facile essere Safiya, non è facile essere un’innovatrice. È in questi casi che entra in gioco un fattore determinante, ci rivela quest’atleta già campionessa nazionale, medaglia d’oro dei Paesi Arabi e bronzo nei Campionati Asiatici: il fattore familiare. E il sostegno paterno e materno può portare ad uno sviluppo individuale e generazionale, ad un processo cosmopolita di empowerment femminile, al pesante, eppure fondamentale status d’icona.

“Mio padre ha giocato nella Nazionale di calcio degli Emirati Arabi Uniti e da grande sportivo ha sempre supportato il mio sogno. L’unica sua preoccupazione erano i miei risultati scolastici che, fortunatamente, sono addirittura migliorati dopo l’inizio del mio rapporto con il ciclismo. Mi ha sempre detto: se questo sport è la tua passione, combatti e vai avanti. Lui è una quotidiana fonte d’ispirazione, mentre mia madre tende a stare dietro le quinte, si mostra poco, ma non mi ha mai fatto mancare sostegno e affetto. Non pensavo di poter ispirare a mia volta qualcuno, ora però molte ragazze mi ammirano e voglio mostrare loro la migliore versione di me stessa. Voglio comunicare messaggi virtuosi. È una strana condizione, mi sento privilegiata e, in qualche modo, benedetta, ma anche sotto pressione e con grandi responsabilità. La bici non smette di essere un piacere, più passa il tempo, però, più mi rendo conto di avere un ruolo rilevante, di rappresentare il mio Paese e la sua evoluzione in corso, di segnare una nuova strada per tante bambine che potranno diventare atlete. Molte volte mi sento il volto del UAE Team ADQ: sono fiera di poter portare queste lettere in giro per il mondo, di mostrare i variegati colori della mia terra, così come di diffondere il verbo del ciclismo femminile. Sono convinta che il nostro sport abbia bisogno di eroine”

Safiya sorride affacciata sul Golfo Persico, elencando gli inimmaginabili luoghi che è riuscita ad esplorare grazie alle proprie gambe e alla propria abnegazione. Dal panorama pianeggiante del suo Paese alle epiche vette d’Europa, dai rapidi giri nei dintorni di casa alle gare dell’ultima stagione in dieci diverse nazioni… Questa studentessa di Graphic Design dà l’impressione di essere contemporaneamente allieva e maestra della vita, mettendo in rima nei suoi ragionamenti movimento sportivo e situazione sociale, falsi stereotipi e progressi femminili, fornendo un identikit inatteso dei suoi Emirati Arabi Uniti.

“Il pensiero occidentale è spesso figlio di preconcetti, è il prodotto di paradigmi cognitivi che ormai sono obsoleti. Il mio Paese è cambiato e sta continuando a cambiare. È diventato aperto e tollerante. Ecco perché è fondamentale quello che stiamo facendo con il UAE Team ADQ: riusciamo a mostrare al mondo un punto di vista differente e reale sullo stato del nostro Paese. Se volete uno spaccato diverso da quello mainstream, riflettete sul fatto che il 50% dei nostri rappresentanti governativi è obbligatoriamente di sesso femminile, e tantissime donne ricoprono importanti ruoli istituzionali anche a livello sportivo. Anno dopo anno stanno aumentando le opportunità sotto ogni punto di vista. Una delle poche cose che non amo del mio Paese è l’assenza di montagne… Non sono abituata alle leggendarie salite del grande ciclismo: ecco perché ho faticato e sofferto tantissimo nell’ultimo Mondiale, ma in futuro andrà meglio… Mi sto allenando molto sul suolo europeo”

E il futuro di Safiya sarà impegnativo e affascinante, sarà la prosecuzione di un viaggio che non vuol essere solo sportivo, ma anche culturale, sarà la somma dello sviluppo personale e di quello collettivo, plasmato dalle sue parole e dalle sue gesta. “Se vedo persone interessate alla mia vita, mi piace entrare in contatto con loro e condividere esperienze e pensieri”,conclude questa saggia ventunenne, “Il UAE Team ADQ è la piattaforma perfetta per me e per le idee che voglio diffondere. Ora voglio migliorare i miei risultati: i miei obiettivi più grandi sono una partecipazione olimpica e la vittoria di una stage race. Nel mentre continuerò ad incontrare nuove persone, nuove culture e nuovi panorami, a creare progetti di graphic design dedicati al ciclismo e a segnare una nuova via per le donne che amano questo sport e per il mio Paese”.


It’s a Layered World

Heritage e funzionalità, innovazione e iconicità: Woolrich e GORE-TEX proseguono il loro storico legame nella nuova SS23

Tutto ciò che ci circonda è stratificato. Tutto ciò che ci abita è stratificato. Elementi e storie, esseri umani e sensazioni, natura e ispirazione. È un mondo stratificato, popolato da percezioni interiori e necessità esteriori, da panorami che traducono pensieri in materia, volontà in forme, storia in contemporaneità.

È un mondo impegnato nel costante valzer tra performance e stile, tra comfort e utilità, che si esprime nei capi della collezione SS23 di Woolrich, alcuni dei quali sviluppati e concettualizzati attorno ad un materiale-manifesto dell’universo outdoor, del suo immaginario e delle sue necessità: il GORE-TEX INFINIUM™. L’High Tech Waterproof Jacket completamente nastrata e integralmente impermeabile, il Long Hooded Parka traspirante e resistente al vento, la Shirt Jacket della collezione Outdoor Label Designed in Japan, ideale per attività all’aria aperta e foderata con uno speciale tessuto in rete che assorbe il sudore: in ogni prodotto può essere racchiusa una volontà, una vision e una storia, insegna Woolrich. In ogni cappuccio, in ogni tasca, in ogni zip può stratificarsi il DNA di un brand che mai ha smesso di essere tradizione e dettaglio, versatilità e iconicità, spirito estetico e senso pratico.

Mai ha smesso di esserlo dal lontano 1830, dalla genesi della filosofia ‘doing it right’, dall’intuizione di vestire azioni che definiscono persone e persone che definiscono azioni. Tutto cominciò ruotando intorno ai concetti di funzionalità e utilità, dalla comprensione e dallo studio di una parte della società che abbracciava simbioticamente la natura, affrontandone pericoli e temperature. Hard Wearing per Hard Workers, per persone che vivevano ogni strato indossato come un’estensione della propria pelle, come un razionale involucro da scartare e ricomporre in base alle proprie necessità, spinti dall’unico, pragmatico obiettivo della sopravvivenza.

Al crocevia della grande rivoluzione industriale si scoprì che in fondo anche l’essere umano era una macchina, una macchina energetica, e che la sua protezione e la sua salvezza potevano dipendere dalla consapevole regolazione di vestiti e materiali, dal layering. Basta un cappello per evitare l’ipotermia, insegnavano. Basta una giacca per consentire una corretta omeostasi, riflettevano, riferendosi al processo di autoregolamentazione della temperatura corporea. È in questo progresso che si annida l’heritage Woolrich, in evoluzioni scientifiche e stratificazioni cognitive che, seguendo il naturale corso delle cose, sono arrivate a coinvolgere anche coloro che del mondo outdoor hanno fatto il proprio tempio.

Dagli sciatori della domenica agli scalatori capaci di conquistare vette monumentali, come la prima spedizione sul Dhaulagiri nel 1973 e quella sull’invincibile K2 a due anni di distanza, dai backpacker agli scalatori su due ruote: la più antica azienda americana di abbigliamento outdoor ha sublimato lì, dove l’aria diventa rarefatta e il sangue si trasforma in ghiaccio, dove il cuore pulsa e il fiato diventa corto, una tecnologia eterogenea, capace di migliorare l’eccezionalità, così come la normalità della vita di tutti i giorni. Un’eccezionalità che nel moderno flusso creativo si è presto è tradotta in design, consapevolezza estetica e awareness.

Solo la conoscenza produce iconicità e solo la contaminazione produce l’eccellenza. È racchiusa in questa frase-manifesto la sinergia tra Woolrich e GORE-TEX, plasmata lungo gli anni ’70 con un prodotto divenuto simbolo, la Mountain Jacket. I micro pori scoperti dall’estro scientifico di Bob Gore da quel momento non hanno smesso di intrecciarsi con la visione outdoor di Woolrich, rafforzandone ciclicamente, collezione dopo collezione, l’identità. A quasi mezzo secolo di distanza, questo connubio di maestria non ha smesso di proteggere escursionisti ed esploratori del mondo, divisi e coincidenti in una contemporaneità che ha smesso di essere a compartimenti stagni, approcciando il vorticoso panorama metropolitano come un sentiero d’alta quota, e viceversa.

Tutto ciò che ci circonda è stratificato. Tutto ciò che ci abita è stratificato. E il rapporto tra Woolrich e GORE-TEX continua a tramandare queste idee nella SS23, vestendo, tra remote cave e scorci urbani, strade asfaltate e sentieri terrosi, coloro che decidono d’impugnarla e sostenerla. È un mondo stratificato, lo è sempre stato, sempre lo sarà. E ogni strato continuerà a tradurre pensieri in materia, volontà in forme, storia in contemporaneità.

Text by: Gianmarco Pacione
Photo Credits:@Alex Webb

Woolrich archive
Woolrich.com


Una meta fondamentale per le ragazze malawiane

Il nuovo progetto di Africathletics interamente dedicato al rugby femminile e ai suoi riflessi sociali

Africathletics prosegue il suo impegno in Malawi, sviluppando ulteriormente le sue attività sportive, educative e sociali. In questo caso non parliamo di pista e velocità, ma del nuovo progetto dedicato al rugby femminile: un coraggioso salto nel vuoto, che ha coinvolto moltissime ragazze e che, fortunatamente, è stato accolto con estremo entusiasmo dalle comunità locali. Ce ne parla Luigi Vescovi, rugbista e anello di congiunzione tra Africathletics e l’universo della palla ovale. La sua testimonianza ci permette di scoprire come, ancora una volta, attraverso lo sport si possano raggiungere risultati umani e sociali inimmaginabili.

“Non avrei mai pensato di vedere una squadra di rugby formata da 21 bambine malawiane. È emozionante. A dire il vero è stato emozionante fin dal principio. Sapevamo che non sarebbe stato facile, ma dopo aver parlato con tutti i capi villaggio e le istituzioni, siamo riusciti a coinvolgere molte scuole, tantissime bambine e maestri che vogliamo formare come allenatori. Lo spirito di Africathletics prevede che l’attività sportiva sia un mezzo per diffondere consapevolezza alimentare, per aumentare il livello di scolarizzazione e per cambiare vite. In questo caso specifico abbiamo a che fare con ragazze giovani e lo sport per loro è un qualcosa di essenziale. Basti pensare al fenomeno delle mamme-bambine, all’impossibilità di scegliere cosa fare delle proprie vite. Noi abbiamo creato uno spazio sicuro, una comunità eccitata per questa disciplina, e i risultati si vedono anche nelle attività parallele, come la scuola. Questo progetto ha fatto subentrare un meccanismo di costanza che è tutt’altro che scontato in Malawi, pensate che, per esempio, il tasso di presenza agli allenamenti di queste bambine si aggira intorno al 100%… Io e altri volontari, tutti uniti da un passato e un presente rugbistico, abbiamo posto le basi per un progetto che ha portato risultati enormi: le bambine ora hanno la possibilità di rimanere più tempo a scuola, curano nuovi aspetti educativi e maneggiano temi con la gender equality. Negli scorsi mesi abbiamo ammirato l’evoluzione di queste atlete e ci siamo stupiti di fronte alle prime mete complesse. La scorsa settimana hanno anche giocato la prima amichevole… Ora la nostra vision è proiettata verso i Giochi della Gioventù dell’Africa Meridionale, che si terranno nel 2025 in Namibia. La Rugby Union Malawi si è interessata al progetto e la nostra speranza è quella di vedere convocate alcune delle ragazze che stiamo allenando: è un sogno, ma un sogno concreto”

Per conoscere più approfonditamente e sostenere il progetto Africathletics, clicca qui.

Testo a cura di: Gianmarco Pacione
Photo Credits: @Africathletics


Stella Rossa Venezia, senza calcio non c’è vita in Laguna

Il calcio amatoriale è stato sfrattato da Venezia, ma tra i canali la resistenza sociale e sportiva è ancora viva

Venezia non è Disneyland, denuncia un’ormai celebre pagina social. Venezia non può essere calcio popolare, conferma il triste presente della Stella Rossa, squadra amatoriale costretta dalla propria Federazione di riferimento a giocare solo e unicamente su terraferma. Non c’è calcio sull’isola e non c’è isola per il calcio, questo il messaggio che le istituzioni hanno voluto riservare ad una polisportiva impegnata da oltre dieci anni a tenere saldo il capitale umano e sociale di una città sempre più turistica e artificiale. Un divieto che sa di sradicamento e svuotamento cittadino. Una decisione che finiscono per pagare gli indigeni, come si definiscono ironicamente, della Stella Rossa: uomini e donne che rappresentano gli ultimi bastioni della resistenza popolare lagunare, atleti e tifosi che nella propria entità sportiva vedono un polo di aggregazione e uno strumento di sensibilizzazione, un grido di denuncia e una minuscola, quasi impercettibile, fiammella di speranza.

“Oggi gli abitanti del centro storico sono più o meno 49mila, quando sono nato io erano il doppio”Enrico Quieto, calciatore e attivista della Stella, inquadra con poche, asciutte parole la paradossale e drammatica condizione di una delle città più belle del mondo: una gemma galleggiante colpevole proprio della troppa bellezza, e della conseguente volontà di trasformare sestieri e canali in un museo a cielo aperto, in un parco divertimenti da destinare ad abnormi flussi turistici e schizofrenico consumismo. “Il tessuto sociale è colpito e rovinato da queste misure”, prosegue Ignacio Contreras, antropologo cileno, ma calciatore veneziano d’adozione, “Se si toglie il calcio a Venezia, si commette un enorme errore. Questa è una città culturale, mi pare ovvio, ma il calcio è estremamente importante per tutti i suoi abitanti e non solo, come dimostra la presenza nella nostra rosa e tra i nostri tifosi di persone che vivono in terra ferma e che, continuamente, arrivano qui per allenarsi e sostenere la visione di questa società”.

L’importanza del calcio insulare echeggia anche nelle parole del centrocampista e lanciacori Antonio Fantinelli. Antonio ragiona tra battimani, tifando per i suoi amici-attivisti impegnati in un’amichevole notturna contro il Salsedine, una delle pochissime squadre ‘di terra’ a supportare le richieste e gli ideali della Stella. Questi ideali non riguardano solo lo sport, sono principalmente legati a un fattore cruciale per Venezia, il fattore sociale. Non è bello vivere Venezia da veneziano, il presente è veramente triste. Il calcio, ma anche il basket e la pallavolo sono diventati strumenti essenziali per tenere unita la comunità. I veneziani non hanno opportunità concrete, non hanno un futuro. Certo, il calcio o la Stella Rossa non saranno i motivi che spingeranno le nuove generazioni a rimanere qui, ma sicuramente aiuteranno loro a capire che la Venezia popolare è ancora attiva e partecipe, che l’equazione ‘meno veneziani = meno problemi’ non è accettata da tutti”.

“I problemi non sono nostri, sono loro”, evidenziano gli avversari della Stella ai margini di un’amichevole bagnata da bancali di Moretti e glaciale umidità. Sul romantico campo di Sant’Alvise, direttamente affacciato sulla laguna, uno dei rarissimi impianti calcistici veneziani, i membri del Salsedine portano a galla un ulteriore paradosso legato al divieto in corso: “Questa decisione non ha senso, perché le squadre di terraferma, come noi, dovrebbero venire a giocare sull’isola una, forse due volte all’anno. Sono i giocatori della Stella che devono affrontare un intero campionato viaggiando praticamente ogni settimana. Noi dovremmo fare pochissimi sacrifici in confronto a questi ragazzi e agli altri sportivi dell’isola. Fare sport a Venezia è difficilissimo da un punto di vista logistico: districarsi tra le calli, prendere vaporetti, trasportare il materiale tecnico, trovare un campo disponibile per gli allenamenti… Sono tutte problematiche che la Stella Rossa deve affrontare quotidianamente. Se a questa situazione, poi, si somma l’assurdità di questa decisione, l’esito non può che essere il declino del calcio popolare locale e l’annichilimento della sua forza sociale”.

Grandi navi e seconde o terze case, quartieri fantasma e souvenir kitsch. All’ombra del ponte di Rialto il battito cardiaco cittadino pare sempre più in fase di estinzione, come conferma difensore Nicola Calenda davanti ad una spuma di baccalà. La nostra volontà è quella di passare una prospettiva cittadina alle generazioni future, ma il margine d’azione sta continuando a diminuire. Il progetto Stella Rossa è nato da un gruppo di amici dodici anni fa, nel tempo si è ramificato e ha coinvolto moltissime persone, amici che ci hanno permesso di proiettare i nostri pensieri in attività sportive e culturali, nei processi d’integrazione e di lotta al razzismo. Qui non si gioca a calcio, a basket o a pallavolo, si fa molto di più. Intavoliamo discorsi e affrontiamo tematiche cittadine, proviamo a combattere piccole battaglie, a contrastare una parabola che sembra ineluttabile. L’impossibilità di giocare nel centro storico è solo un riflesso di ciò che sta accadendo a tutta la città. Com’è noto soprattutto da queste parti, si colpiscono prima i più piccoli e deboli per modificare incontrovertibilmente ciò che ci circonda. Ma noi continueremo a resistere”.

E l’indomita, irrazionale resistenza sociale passa e passerà anche da simboli come Sócrates Brasileiro Sampaio de Souza Vieira de Oliveira, per tutti semplicemente il ‘Dottore del Calcio’. Sulle divise pop della Stella Rossa compare proprio il profilo del calciatore-filosofo, giunto in Italia a metà anni ’80 per studiare Gramsci e divulgare il verbo della bellezza calcistica. Il teorizzatore della ‘Democracia Corinthiana’ per questo collettivo veneziano funge da vero e proprio spirito guida, muovendo parole, pensieri e azioni che escono dal prato verde, provando a scavare nella coscienza cittadina. “Il calcio è uno sport collettivo e non serve che tutti corrano. Ci sono quelli che corrono e quelli che pensano”, diceva l’elegante centrocampista. E nel buio di un freddo lunedì sera veneziano c’è chi ancora corre, c’è chi ancora pensa, “C’è ancora chi porta avanti progetti vitali per migliorare, o meglio, risollevare le sorti di questa città e di chi la abita”, conclude con un’intensa vena poetica Enrico Quieto, “Penso che questo debba essere l’obiettivo di chiunque: provare a rendere migliore la nostra condizione, quella dei nostri figli e dei futuri veneziani”.

Text by: Gianmarco Pacione
Photo Credits: @Rise Up Duo


‘Baltic Sea’ KARHU e JNF si uniscono per la tutela del Mar Baltico

Athleta Magazine sarà Media Partner dell’evento che assocerà running e sostenibilità marina

Il 25 marzo ad Helsinki prenderà forma una giornata di corsa e sensibilizzazione dedicata al Mar Baltico.

KARHU e la John Nurminen Foundation, due eccellenze accomunate da una radicata identità finlandese, hanno deciso di unire le forze per fronteggiare le sempre più preoccupanti condizioni di questa preziosa gemma acquatica, organizzando in sinergia l’evento ‘Baltic Sea’. L’eutrofizzazione, la perdita di biodiversità e il tragico livello d’inquinamento raggiunto da questo mare negli ultimi decenni sono i motivi alla base di questa speciale giornata connessa alla sostenibilità marina e sono i fondamentali temi attorno a cui ruoterà l’intero programma ‘Baltic Sea’.

I partecipanti all’evento si riuniranno presso il KARHU store nel centro di Helsinki, dove potranno ascoltare uno speech divulgativo tenuto da rappresentanti della John Nurminen Foundation, e poi saranno attivamente impegnati in una simbolica corsa/camminata che arriverà a toccare le coste affacciate sul Mar Baltico. Il virtuoso messaggio di questa giornata si rifletterà in una speciale T-shirt, disegnata da KARHU e prodotta dall’azienda finlandese pioniera nell’ambito della sostenibilità Pure Waste, il cui ricavato verrà devoluto ai progetti di salvaguardia marina della John Nurminen Foundation. KARHU introdurrà inoltre una nuova collezione di scarpe running ispirate ai ricchi colori del Mar Baltico, raccolte all’interno dello speciale pack ‘Baltic Sea’.

Athleta Magazine sarà Media Partner dell’evento, nelle prossime settimane entreremo in contatto, ritrarremo e ascolteremo le voci di coloro che sono spinti dalla volontà di risollevare le condizioni del Mar Baltico: runner, attivisti o semplici cittadini che ritengono la salvezza del proprio mare una priorità assoluta e che, per questo motivo, sosterranno con le loro azioni concrete gli ideali alla base di ‘Baltic Sea’.

Photo Credits: @KARHU


Facce da Marmöl

La filosofia Marmöl Gravel nelle parole dei suoi protagonisti

Le facce da Marmöl hanno sudore e colori, smorfie e sorrisi, sospiri e suoni. Sono bocche che comunicano e occhi che ammirano. Sono gambe che spingono e mani che fluttuano. Carnevale o Capodanno, in fondo non c’è differenza, perché le vibrazioni che genera questo evento ricordano quelle di una festa a lungo attesa, di una giornata atipica e speciale, capace di sprigionare scintille emotive e di creare ricordi indelebili. Il ciclismo tra le cave di Botticino trova la propria essenza e la sparge tra credenti arrivati da ogni dove, pronti ad esplorare sensazioni che riescono ad essere individuali e collettive. Perché Marmöl è l’esplorazione. L’esplorazione del territorio. L’esplorazione di sé stessi. L’esplorazione della community gravel.

Rider o artisti, fotografi o anestesisti, lungo la Via del Marmo perde di senso ogni tipo di categorizzazione o status, perché il ciclismo si sublima in una pasta e fasoi, in una birra, in una canzone delle Spice Girls. Questa è Marmöl, queste sono le sue facce e queste sono alcune delle loro testimonianze.

Mattia De Marchi (rider – enough cycling collective)

“In Italia, quando pedaliamo, tendiamo a banalizzare ciò che ci circonda, perché tutti i giorni possiamo ammirare luoghi stupendi. Eventi come la Marmöl servono a questo, ci consentono di scoprire scenari come la Via del Marmo che, probabilmente, avremmo fatto fatica a esplorare da soli. Mi piace essere agonista e spingere, ma in queste situazioni, tra queste cave, riesco a godermi realmente la bici e le persone che la circondano. Ho bisogno di queste giornate, di questi momenti di festa che non dimenticherò: mi daranno forza quando mi ritroverò a pedalare senza nessuno attorno in qualche parte del mondo… Un tempo la bici per me era solo agonismo. Oggi le cose sono cambiate e, paradossalmente, vado più forte di prima, perché riesco a godermela. Mi sento fortunato e sono felice che quasi tutti i membri di Enough, il collettivo di cui faccio parte, siano qui. In queste giornate ognuno ha il suo ruolo durante e, soprattutto, dopo la pedalata”

Emanuele Molari (bikepacker)

“Il ciclismo è sinonimo di divertimento, anche se spesso non è un’equazione scontata. Il tempo e il ritmo non contano quando hai la possibilità di vedere posti incredibili. Il divertimento è la reale vittoria, questo è il mio pensiero. Io sono bresciano, ma non conoscevo bene la zona di Botticino. Quando riesci a penetrare questo territorio e a pedalare tra queste cave, vieni travolto dalla bellezza e dalla grandezza di questi luoghi pazzeschi. E pensare che sono dietro casa mia… Viaggio tanto sulle due ruote, ma preferisco farlo in compagnia. Se viaggio da solo mi stanco nel giro di due, tre settimane: ho bisogno di una birra e di una chiacchierata, non fa differenza se con uno sconosciuto incontrato per strada o con un amico. E Marmöl è il posto perfetto per vivere queste sensazioni”

Cento Canesio (writer / painter / cyclist)

“Ho un rapporto quotidiano con la bici. La uso per andare ad appuntamenti di lavoro, per fare la spesa, quest’estate la userò per arrivare in Croazia… Ho sempre il cambio nella borsa. Come artista sento che le due ruote in qualche modo sono connesse alla mia ispirazione. D’altronde la bici ti permette di stare bene mentalmente e di osservare un’infinità di cose. Non ero mai stato in queste zone, grazie a Marmöl ho avuto la possibilità di scoprire un territorio che non conoscevo e di osservare queste valli. In una sezione della traccia tutto diventava improvvisamente giallo, le cave mi circondavano, mi sembrava di aver cambiato occhiali… Una vera e propria esplosione di colori. Al di là del territorio, non sono nuovo al fattore-community, perché ho un background nel Bike polo. Mi sembra quasi ovvia questa filosofia, ma il fatto che si crei una community trasversale attorno ad un movimento come il gravel è fighissimo”

Chiara Redaschi (rider and photographer – enough cycling collective)

“È la mia prima volta qui e sto rimpiangendo il fatto di non avere con me la macchina fotografica… Mi sarei fermata ad ogni metro. Oggi però sono venuta per pedalare e per ho deciso di godermi l’evento completamente, lasciando stare la lente. Marmöl è la base del ciclismo contemporaneo, ha un importanza vitale, riesce a trasmettere i valori più preziosi delle due ruote. Tanti miei amici vanno solo su strada, pensano sempre e solo all’allenamento e al tempo, ma il ciclismo è molto più di questo. Oggi il nostro collettivo ha avuto tantissimi problemi meccanici e molte forature, ma eravamo insieme, abbiamo affrontato tutto ridendo e scherzando. Inoltre mi fa piacere vedere una nutrita rappresentanza femminile, sono sinceramente contenta, perché tante di queste ragazze hanno incontrato da poco l’universo gravel e anche grazie ad eventi del genere continueranno a pedalare”

Federico Damiani (rider and Team Manager – enough cycling collective)

“Conosciamo Niccolò e l’organizzazione Marmöl da tempo. Ci piace andare in bici insieme, abbiamo la stessa filosofia. Di solito siamo impegnati in eventi competitivi, ma giornate come questa fanno capire quanto sia limitante la gara fine a sé stessa. Se viviamo la bici solo attraverso la lente della competizione, questo sport finisce inevitabilmente per perdere di valore. Credo che la bici sia un mezzo per potenziare le capacità umane e per scoprire nuovi territori. È uno strumento culturale. Per questa ragione il nostro collettivo organizza un evento in Veneto sulle tracce della Prima Guerra Mondiale… È fantastico quando il ciclismo diventa un modo per scoprire qualcosa di diverso e per stare insieme. Il gravel poi si sta sempre più evolvendo, molte istituzioni come l’UCI si stanno interessando al suo progresso. Sta a noi presenziare a più eventi possibili: solo così daremo la giusta direzione a questo movimento”

Steve Ude (professional MTB instructor / former pro MTB rider)

“Ho un passato e un presente nella MTB. Nonostante le due ruote siano uguali, la situazione qui è completamente diversa. Il mondo gravel ha uno spiccato lato di community, che un evento come Marmöl riesce a manifestare e sprigionare alla perfezione. Ho chiacchierato tutta la giornata, mi sono goduto scenari bellissimi e ho scattato un milione di foto… Certo, spesso mi sono sentito sotto ritmo, ma durante il giro non ho mai pensato alla performance personale. Ho sempre trovato persone con cui parlare, scambiare opinioni e ammirare le cave. Il tema centrale della bici è l’esplorazione, è la sua essenza. Qui sono stato abbagliato da cambi di luce pazzeschi, sono passato dal bosco a ipnotiche cave rosse: ho vissuto un’esperienza. E credo sia sempre più necessario vivere le due ruote così, per me come per tutti coloro che le stanno imparando a conoscere in questo momento storico. Spero che anche l’universo MTB lo capisca”

Photo Credits: @Riccardo Romani
Text by: Gianmarco Pacione