Behind the Lights – Louis Bever

Il fotografo inglese che, nei suoi ritratti, unisce meraviglia calcistica e identità umana

“La scelta delle maglie calcistiche nei miei ritratti non è casuale. Dipende dai ragazzi e dalle ragazze che posano davanti alla mia lente. Dipende dal colore dei loro capelli, dai loro occhi, della loro pelle. Dipende dalla loro personalità. Voglio che i kit riflettano le identità delle persone che ritraggo e che combacino cromaticamente con loro. Amo i ritratti, amo i colori, e amo il calcio. Mi sembra logico che mi piaccia unire queste cose. Amo anche i dipinti classici, ecco perché faccio riferimenti a quadri di Jan Vermeer, Eugène Delacroix, Caspar Friedrich e tanti altri… Attingo dalla loro forza drammatica e romantica, dai loro colori, che riescono ad essere vibranti senza realmente esserlo. Spero, almeno un po’, che le mie fotografie appaiano come questi dipinti”

Il romanticismo che asseconda il calcio. Colori che coniugano sponsor e personalità, loghi e identità. La galleria ritrattistica di Louis Bever è un unicum, è un flusso di raffinatezza calcistica e delicatezza umana, di emotività individuale sublimata e potenziata da kit iconici. Dall’Inter al Saint Etienne, dal PSG all’amato e tifato Arsenal, per questo fotografo londinese i talismani in tessuto prodotti per il ‘Beautiful Game’ non sono semplici e pratiche divise, sono parte fondamentale di un processo artistico e narrativo: un processo plasmato da una vecchia Pentax, dalle parate di una leggenda dei ‘Gunners’, Jens Lehmann, e da una maturazione itinerante.

“Ho incontrato la fotografia grazie a mio nonno, che da bambino mi diede una Pentax K1000. Nonostante i primi rullini fossero un disastro, mi sono innamorato istantaneamente di questa forma d’arte. Mi sono detto: perché devo spiegare qualcosa a voce o scriverlo, quando posso fotografarlo? Da quel momento la fotografia è diventata un’ossessione positiva che mi ha accompagnato per tutta la vita, anche durante il mio percorso universitario in legge. Potevo diventare un avvocato, ma non sarei stato felice. Così, dopo un master alla Manchester School of Art e una serie di lavori saltuari, in piena pandemia ho deciso di scommettere sulla mia passione e di diventare un fotografo freelance full-time. Anche il calcio mi ha sempre accompagnato. Mio padre lavorava nell’esercito inglese e la mia famiglia si è spostata in tutta Europa. Abbiamo vissuto a lungo anche in Francia e Italia… E se sei inglese e sei costretto a stare in un altro Paese, diventi inevitabilmente più orgoglioso delle tue radici, del tuo calcio. Ho scelto di essere tifoso dell’Arsenal, come mia madre, e sono cresciuto ammirando i voli del mio giocatore preferito, il portiere tedesco Jens Lehmann. Quando penso al suo Arsenal divento nostalgico…”

Nostalgia. È impossibile evitare di associare questo termine a chiunque sia nato negli anni ’90 e abbia gustato la Premier League a cavallo del nuovo millennio, il suo gioco in equilibrio tra antica virilità e progresso cosmopolita, la sua estetica divisa tra design classico, modelli oversize e intuizioni grafiche. E la nostalgia ha portato Louis ad essere un collezionista, ma soprattutto a costruire rapporti simbiotici tra simulacri calcistici e giovani contemporanei, ricercando costantemente la combinazione, o meglio, il ‘match’ perfetto tra maglia e protagonista dello scatto.

“Quando devo scegliere una maglia e associarla a una persona, valuto un ampio ventaglio di fattori. In primis quelli morfologici e cromatici: per esempio se hai gli occhi azzurri è più probabile che ti faccia indossare una divisa dell’Islanda… Ma la scelta generalmente è dovuta anche a tante altre componenti intangibili, come il carattere o il legame di un individuo con una particolare squadra. Gli sponsor stampati sulle maglie sono un’altra cosa che mi ha sempre affascinato e che ispira le mie scelte. Non a caso, se devo pensare alle maglie che più hanno stuzzicato la mia immaginazione, mi vengono subito in mente i kit del Wolverhampton e del Fulham dei primi anni 2000. Lo sponsor dei ‘Wolves’ era Doritos, quello dei ‘Cottagers’ era Pizza Hut: sponsor divertenti e insoliti, che sprigionavano la mia ironia. Allo stesso tempo alcuni kit vengono elevati dallo sponsor. Un esempio eclatante? La maglia SEGA indossata dall’Arsenal nella stagione 1999-2000. Detto questo, penso semplicemente che sia bello utilizzare questi oggetti e creare un rapporto intimo tra ogni maglia e chi la indossa. Recentemente ho avuto la possibilità di collaborare con la community Take More Photo e ho girato tutta Londra per ritrarre tifosi di ogni tipo. L’obiettivo era quello di celebrare i Mondiali di Qatar… È stato fantastico, alla fine si tratta di incontrare persone, di parlare con loro, di capirle e provare a vestirle nel modo più corretto e rappresentativo”

Il rapporto tra calcio e moda. Negli ultimi tempi questo trend sta crescendo in maniera esponenziale, sospinto da un vortice di collaborazioni, capsule collection e influenze reciproche. Streetwear e high fashion, brand e maison, tutti gli attori protagonisti di questo universo paiono attirati dalla potenza circolare e trasversale del pallone. Le visioni di Louis si inseriscono in questo sovrappopolato dualismo, bypassando hype e coolness. Lo fanno e lo continueranno a fare senza polemizzare con complesse logiche di mercato, spinte dalla primaria necessità di diffondere bellezza.

“Se osserviamo i brand che si stanno legando al calcio, pur non avendo nulla in comune con questo sport, notiamo che molti tra loro sono inglesi. C’è poco da fare o da dire. Noi abbiamo inventato il calcio, è nel nostro DNA, e tanti creativi del mio Paese non possono che prendere spunto dal prato verde e da chi lo popola. Non credo sia una questione di trend o mercato, brand come Aries o Palace avranno sicuramente al loro interno professionisti che amano il calcio e le collaborazioni sono la naturale conseguenza di questo amore totalizzante. In fondo vale lo stesso discorso per le mie opere. Il calcio non è diventato cool: lo è sempre stato, perché piace alla gente. Io continuerò con questa serie ritrattistica e unirò nuove maglie con nuovi protagonisti. Concluderò il progetto solo quando smetterò di divertirmi. È un qualcosa di personale, che esula dai miei lavori commerciali, e mi fa sentire bene. Al momento non ha un significato o un’evoluzione precisa, non so dove mi porterà, ma sono sicuro che un giorno lo capirò”

Photo Credits: Lou Bever
Text by: Gianmarco Pacione


Werner Bronkhorst, il mondo è una tela

Il pittore sudafricano ispirato da materia e ideali, miniature ed echi sportivi

“I miei lavori, soprattutto quelli di dimensioni più grandi, da distante sembrano opere astratte. Se l’osservatore si avvicina e si approccia ai quadri, però, scopre le mie miniature. Questa esplorazione intima delle opere regala dei significati nascosti. E credo formi un forte parallelismo con la nostra esistenza. In fondo se guardiamo il mondo dall’alto tutti noi siamo miniature”

Tutto il mondo è una tela e noi camminiamo all’interno di essa. Basta guardare dall’alto. È racchiusa in questo concetto-manifesto la filosofia artistica di Werner Bronkhorst, ventunenne sudafricano che ha stanziato il proprio estro sulle coste australiane. Werner è un autodidatta con una vasta sapienza artigiana e le sue tele parlano proprio di questo, del rapporto con la materia, ma anche del rapporto tra dimensioni e colori, tra surf e sci. I suoi microuniversi (spesso sportivi) nascono dall’utilizzo di materiali pesanti che diventano set iperattivi, scenari naturali popolati da protagonisti di minuscole dimensioni.

“Ho iniziato a dipingere nel 2018, perché mia sorella l’ha sempre fatto e mi ha inevitabilmente influenzato. Un’altra grande fonte d’ispirazione è stata la pittrice sudafricana Lorraine Loots, i suoi dipinti sono famosi per essere grandi quanto monete: grazie a lei ho subito il fascino delle miniature e ho cominciato a produrle. Il vero ‘eureka moment’ è arrivato dipingendo dei pezzi di legno. Sono anche un artigiano di mobili e per caso ho cominciato a dipingere di bianco o di giallo degli ‘sfondi’ corposi composti da materiali di scarto, materiali che in teoria hanno poco a che fare con l’arte. Queste particolari tele mi sono immediatamente sembrate dei paesaggi. La prima volta mi sembrava di avere di fronte delle montagne innevate, così ho deciso di dipingerci sopra una serie di sciatori. Poi alle montagne si sono aggiunte le spiagge, gli sport acquatici, i surfisti… Ho deciso anche di filmare i processi di creazione delle varie opere, condividendoli sui social: la gente ha cominciato in questo modo ad apprezzare e seguire il mio lavoro”

E i social sono risultati mezzi fondamentali per l’esplosione di questo giovane artista. Instagram e TikTok sono diventate le gallerie digitali dove esporre e, contemporaneamente, spiegare le personali creazioni: strumenti essenziali per costruire forti legami con il pubblico del presente e del futuro, ma anche per permettere a chiunque di valutare e acquistare opere che non vogliono essere elitarie. Perché l’arte, ci spiega Werner, sotto questo punto di vista può e deve coincidere con lo sport e con la sua ideale apertura a tutti, indipendentemente dal conto in banca.

“I social rendono tutto accessibile e voglio che le mie opere siano accessibili, come lo sport. Voglio che siano democratiche. Arte e sport sono due attività che non attengono alla sopravvivenza dell’essere umano. Non sono obbligo, sono piacere. Hanno tantissimo in comune. Desidero che tutti possano dipingere o comprare un quadro, ecco perché non mi sono legato a gallerie specifiche: non voglio rapporti esclusivi che renderebbero le mie opere irraggiungibili per tante persone. Parlando di sport, qui ho incontrato il surf e ho subito iniziato a dipingerlo. Quando surfi ti senti in un posto speciale, dove tantissimi esseri umani entrano in relazione grazie alla passione per le onde. Lo stesso vale per lo sci, anche se non ho mai sciato. È ironico, lo so, dipingo sciatori eppure non sono ancora riuscito a toccare la neve…”

L’Australia non sarà culla di sport invernali, ma è sicuramente uno degli epicentri della scena artistica contemporanea. E Werner Bronkhorst vuole irradiare da questo Paese la propria fresca, ragionata concezione creativa. Vuole evolvere la sua vitalità pittorica ed esplorare nuovi orizzonti, nuove piattaforme, nuove opzioni virtuali che possano permettergli, da un lato, di proseguire un percorso già chiaro, dall’altro di testare strumenti sconosciuti, alla ricerca di un altro ‘eureka moment’.

“Sono in Australia da tre anni ormai, ero arrivato qui dal Sudafrica per un periodo sabbatico e oggi riesco a mantenermi grazie ad arte e lavoro artigianale, è incredibile e mi fa emozionare. Il prossimo obiettivo è muoversi dal mondo reale al mondo virtuale. Non ho mai fatto opere digitali o NFT, ma le cose cambiano velocemente e sono curioso d’interfacciarmi con questo campo innovativo. Odio replicare una cosa all’infinito e voglio che sempre più gente abbia miei pezzi unici, per questo sono sicuro che ci saranno molti cambiamenti in futuro… Vorrei riuscire a creare la stessa sensazione di una tela nel panorama virtuale: non ho ancora una risposta precisa a questa ricerca artistica, ma presto la scoprirete!”

Photo Credits: Werner Bronkhorst
Text by: Gianmarco Pacione


Hassan Azim, la boxe è un dono da condividere

Legami di sangue e religione, gaming e solidarietà, ‘Hitman’ è il nuovo volto virtuoso dei ring britannici

“Ero piuttosto giovane quando ho messo i guantoni per la prima volta. Mio fratello minore Adam ha iniziato a 4 anni e per lungo tempo mi sono limitato a guardarlo. Poi a circa 12 anni mi sono lanciato. Ricordo di aver pregato mio padre e l’allenatore, e dal nulla mi sono ritrovato a fare sparring… Tutti sono rimasti scioccati, perché prima di quel momento non avevo mai boxato, eppure riuscivo a replicare perfettamente quanto avevo visto in quegli anni: merito del processo di visualizzazione. La boxe è diventata istantaneamente il mio tutto”

Il ring è un polo catalizzatore. Dentro le quattro corde si possono concentrare i fattori più disparati. Legami di sangue e religione, gaming e solidarietà, medaglie olimpiche e heritage culturale: questo è il kaleidoscopico mosaico che compone l’identità pugilistica e umana di Hassan Azim. ‘Hitman’ è il suo soprannome, 5-0-0 è il suo record da professionista dopo una lunga e vincente trafila amatoriale, culminata in un bronzo olimpico giovanile. A 22 anni Hassan sta entrando nella grande boxe. Lo sta facendo con il giusto mix di spavalderia e consapevolezza, soprattutto lo sta facendo senza dimenticare le proprie radici, divise tra il Pakistan e la cittadina inglese di Slough. Perché i ko, precisa immediatamente questo giovane interprete della nobile arte, non hanno senso se non riescono ad ispirare, se non riescono a restituire qualcosa alla comunità, o meglio, all’umanità.

“Sono nato in Pakistan e sono arrivato in Inghilterra dopo pochi mesi. Slough è la mia città, è dove sono cresciuto circondato da tantissime culture differenti. Ha una comunità stupenda, tutti sostengono me e mio fratello, tutti ci guardano con rispetto e ammirazione. Mi onora avere una nutrita fan base sia nel mio Paese natale, sia in terra inglese. Ho sempre coltivato i rapporti umani, perché mi hanno aiutato e continuano ad aiutarmi: hanno definito l’uomo che ero, definiscono l’uomo che sono e definiranno l’uomo che sarò. Allo stesso tempo mi piace aiutare. I miei genitori mi hanno sempre chiesto cosa volessi fare della vita e ho sempre avuto una chiara idea in testa: voglio dare il giusto contributo per plasmare un mondo migliore, il mondo del futuro. La mia religione, l’Islam, insegna che il vero premio, la vera medaglia è il ricordo positivo del tuo nome, la tua legacy legata a iniziative virtuose. Ora ho una piattaforma e un network che mi permettono di lanciare eventi, comunicare e promuovere l’operato dell’organizzazione no-profit che ho fondato insieme a mio fratello. Sono fortunato e devo condividere questa fortuna”

La Team Azim Trust è più di un’organizzazione no-profit, è la sublimazione di un legame che trascende il semplice concetto di famiglia: il legame tra Hassan e suo fratello Adam. Entrambi allevati dalla boxe, entrambi fenomeni in ascesa, entrambi role model in costruzione. Questi fratelli condividono praticamente tutto: allenamenti, sacrifici, successi e, soprattutto, ideali. E dalla condivisione, come sempre, nasce il miglioramento, il progresso.

Non si tratta di soldi e fama. Si tratta di qualcosa di più importante. Con il Team Azim Trust vogliamo aiutare i giovani in difficoltà e le loro famiglie. Io e Adam siamo sempre disponibili a condividere le nostre testimonianze e le nostre idee con chi vuole ascoltare. Pochi giorni fa, per esempio, abbiamo tenuto uno speech riguardo la qualità della vita davanti a centinaia di abitanti di Slough. Collaboriamo anche con la polizia cittadina, gli abbiamo recentemente proposto delle idee per limitare l’utilizzo di pistole e coltelli tra le nuove generazioni. La nostra famiglia ha lavorato duramente per permetterci di arrivare qui. Abbiamo superato momenti duri insieme. Adam è al mio fianco dal primo giorno, è il mio migliore amico, il mio sangue, il mio partner sul ring. Il nostro legame non si è mai rotto e mai si romperà. Ci siamo sempre motivati e aiutati a vicenda, ora vogliamo farlo anche con gli altri”

Solo tu puoi lavorare per i tuoi obiettivi, solo tu puoi svegliarti ogni mattina per allenarti. Questo è il mantra di Hassin. Questo è l’insegnamento impartitogli da Anthony Joshua, una delle principali fonti d’ispirazione del peso welter anglo-pakistano. Hassin ci racconta di un fondamentale incontro adolescenziale con il due volte campione del mondo e di un dialogo che non ha più smesso di scandire la sua quotidianità. Da Joshua ad Amir Khan, passando per Thomas Hearns e le letture religiose: le illustri citazioni di questo 22enne sono tasselli della sua personalità, parlano una lingua coerente, la lingua della dedizione.

Khan è stata la mia prima ispirazione, ricordo quando lo guardavo in tv… Ha guidato me e mio fratello sulla giusta strada grazie alla sua esperienza e alle sue parole. In generale cerco di farmi influenzare da tutti coloro che ritengo role model: il primo punto di riferimento è sicuramente Muhammad Ali. L’incontro con Joshua è stato incredibile, ero un adolescente e mi sono ritrovato a fare stretching al suo fianco, gli ho chiesto consigli su come rimanere sempre focalizzato e quella sua risposta risuona ancora oggi nella mia testa, nelle mie azioni. ‘Tommy’ Hearns è invece l’ex pugile con cui condivido il soprannome ‘Hitman’. Ho uno stile di combattimento molto simile al suo e penso che ‘Hitman’ calzi a pennello con la mia attitudine, il mio abbigliamento e il mio stile dentro e fuori dal ring: lo sento cucito su misura. Ma ho solo 22 anni e so che devo rimanere con i piedi per terra, devo continuare a rispettare la boxe e accrescere le mie conoscenze. So anche che Dio mi ha dato un dono e non voglio sprecarlo. Io e Adam non avevamo nulla e siamo stati benedetti. Ecco perché prima e dopo ogni incontro mi fermo a pregare, ecco perché resto umile e lavoro duramente, ecco perché nessuno deve portarmi via tutto questo”

E il duro lavoro avviene anche lontano dal ring. Hassan trova in un mondo estremamente contemporaneo, il mondo del gaming, il perfetto alleato per allenare la propria mente nei momenti di pausa fisica. Se per George Foreman la boxe era una tipologia di jazz, per questo talento del Berkshire il ring è un razionale campo di battaglia, dove strategie e decisioni rapide, magari maturate con un joystick in mano, possono essere armi essenziali per piegare le gambe di ogni avversario.

“Il gaming per me è sinonimo di meditazione. Gioco da quando ero bambino. Non sono una persona da feste o serate, preferisco molto di più passare del tempo con amici e risolvere giochi che stimolino le nostre menti. Per questo motivo amo anche gli scacchi. Quando gioco ho la sensazione di allenarmi: il mio corpo è fermo, ma la mia mente ruota vorticosamente attorno a strategie e tattiche. Credo che questa passione mi aiuti sul ring e mi permetta di prendere decisioni rapide ed efficaci. Anche Call of Duty può essere uno strumento fondamentale per la boxe, pensate alla coordinazione occhio-mano…”

Dopo un ragionato e solido approccio al professionismo, Hassan ora può permettersi di sognare in grande. Il suo sogno ha i tratti di un titolo mondiale: vetta che vuole raggiungere senza fretta, passo dopo passo, round dopo round, cominciando dal prossimo match fissato il 11 febbraio alla OVO Wembley Arena di Londra. Il 2023 sarà il primo di una serie di anni decisivi per questo pugile dal cuore antico e della boxe moderna: anni che affronterà con le certezze di un consistente passato e con le incognite di un futuro pianificato meticolosamente.

“Quando sono entrato sul ring per combattere il mio primo match da professionista non avevo paura, sapevo chi fossi. Avevo vinto più di 80 incontri amatoriali e avevo vissuto l’emozione più grande della mia vita, la medaglia di bronzo alle Olimpiadi giovanili. È impossibile dimenticare il momento in cui ho ricevuto la convocazione per quei Giochi, ero così orgoglio di rappresentare la Gran Bretagna e avevo combattuto così tanto per guadagnarmi quella telefonata… Ho mandato ko il miglior pugile dell’intera area asiatica per ottenere la medaglia. Volevo salire su quel podio, sapevo che ci sarei riuscito. A questo punto della mia carriera non voglio correre, quest’anno spero di conquistare un primo titolo e poi, seguendo il giusto percorso e senza forzare i tempi, voglio stringermi una cintura mondiale alla vita. È incredibile essere in questa posizione a soli 22 anni, so di essere un privilegiato e non voglio sprecare quest’opportunità. Non voglio sprecarla per me e non voglio sprecarla per gli altri”

Photo Credits:@Dave Imms
@Hassan Azim
Text by: Gianmarco Pacione


‘Finding Space’, trovare il proprio spazio con il ciclismo

Le immagini di Jack Flynn e Bullfrog, insieme alle parole del testimonial Rapha Duke Agyapong, ci spiegano l’importanza delle due ruote

Il ciclismo può parlare di oppressione e libertà, di depressione e sollievo, di ansia e vie di fuga. Il ciclismo può essere uno strumento per logorare, così come per evolvere l’essere umano. In fondo parliamo dello sport narrativo per eccellenza. Perché ogni uscita sulle due ruote, specie se solitaria, è un racconto da formulare e divulgare interiormente ed esteriormente. Tra colline, pianure e pendenze, le pedalate finiscono per plasmare riflessioni, analisi, paure e soddisfazioni personali. Alcune di esse possono essere controllate, così come si possono controllare tempi e frequenze. Altre sono più complesse, più profonde, sono domande senza apparente senza risposta, sono fratture che paiono insanabili, vissute a ruota del destino, della sfera emotiva, delle proprie vibrazioni.

Jack Flynn e Bullfrog Studios hanno dedicato uno shortfilm a queste sfumature umane e ciclistiche, dirigendo il poeta, ciclista e attivista Duke Agyapong. Questo rider londinese, testimonial Rapha, è assurto a punto di riferimento internazionale per quanto riguarda il rapporto tra equilibrio mentale e ciclismo. Le sue testimonianze sono in grado d’ispirare, di spalancare nuove prospettive, di superare confini, di aprire nuove, introspettive vie d’accesso a chiunque ne senta la necessità, soprattutto alzandosi sui pedali. Il film è stato presentato in occasione di uno speciale evento Rapha dedicato al rapporto tra sport e salute mentale. Buona visione.

Directed by : @jackisflynn
Creative Production : @bullfrogstudios
Featuring Duke Agyapong
www.jackflynn.co.uk
www.bullfrog-digital.co.uk
Text by : Gianmarco Pacione