Jamal Sterrett, danzare per comunicare
L’intreccio tra Bruk Up dance e Sindrome di Asperger raccontato dalle parole di questo performer inglese e dalla meravigliosa produzione visuale di Fred MacGregor
La danza è una potentissima forma di comunicazione. Può permettere di entrare in contatto con sé stessi. Può permettere di costruire solidi ponti relazionali e connessioni con chi ci circonda. La danza per Jamal Sterrett, giovane visual artist e ballerino di Nottingham, è tutto questo, amplificato esponenzialmente. Perché Jamal nello stile Bruk Up ha trovato un modo per esprimere le proprie vibrazioni, le proprie energie e il proprio punto di vista, plasmato dal rapporto quotidiano con la Sindrome di Asperger.
Grazie alla produzione visuale di Fred MacGregor, divisa tra una serie fotografica e un meraviglioso shortfilm, e alla testimonianza diretta di Jamal, possiamo comprendere il significato e l’importanza di questa forma artistica, la sua duplice valenza individuale e collettiva, possiamo percepire la connessione totalizzante tra il corpo di questo performer, la sua interiorità e il ritmo.





Com’è stato il tuo primo incontro con la danza?
È successo nel 2013. All’epoca stavo studiando Graphic Design al college e Jay Z rilasciò un video che mi incantò. Controllai tutti i credits del video per scoprire chi fossero gli incredibili ballerini coinvolti e scoprii la community della Bruk Up dance. Istantaneamente mi innamorai di questa forma d’arte e decisi di apprenderla. Da quell’epifania ho continuato senza sosta a provare nelle strade, ad informarmi, a fare quello che facevano quei ballerini e a pensare come loro. A distanza di tempo sono anche riuscito ad entrare in contatto con alcuni di quei performer. Quest’anno, per esempio, il celebre Ghost è venuto qui a Nottingham da New York e abbiamo girato un film insieme. Uno dei miei eroi ha dormito sul mio sofà, è stata un’esperienza assurda, resa possibile dalle persone che mi hanno circondato lungo il percorso.



Ci potresti definire lo stile Bruk Up?
Originariamente era il tipico dancehall style mixato con elementi del popping (stile di danza funk e hip hop basato sulla tecnica della rapida contrazione e successivo rilassamento dei muscoli ndr). È nato in Giamaica negli anni ’90, il primo grande esponente è stato George Adams, che poi si è spostato a New York e ha iniziato a popolare video musicali, come quelli di Busta Rhymes. Il Bruk Up è uno stile che si è affermato nella povertà dei block newyorchesi, spinto da persone che volevano elevarsi e migliorare il loro mindset. Mi hanno affascinato la basi ideologiche di questa danza, i suoi elementi spirituali: non si tratta di un semplice pratica di strada, è una forma d’arte più alta, che riguarda il proprio corpo, la propria individualità, la propria filosofia.


Parli di individualità, ma la danza è anche comunicazione. Cosa significa per te questa dualità e che tipo di sensazioni provi durante le tue performance?
La danza è il mezzo che mi fa connettere con il mondo. Le parole creano connessioni, ma allo stesso tempo possono plasmare pregiudizi e barriere. Il movimento del tuo corpo, invece, è un qualcosa di solido e concreto, tutti si possono relazionare senza sovrastrutture al movimento: è la verità, è uno stato estremamente profondo, privo di filtri, che mi permette di presentarmi al mondo. Credo che la danza sia un qualcosa di insito nel nostro DNA, è naturalmente presente in ognuno di noi. Quando danzo si uniscono spiritualità, heritage, memorie, sensazioni ancestrali: è come se entrassi ‘in the pocket’, in uno stato di esplorazione, di presenza e assenza che mi fa fare cose non programmate. Ogni giorno mi sveglio in modo differente e il mio stato d’animo influenza i miei movimenti. Penso di essere passato e di continuare a passare attraverso differenti fasi, è una cosa che accomuna un po’ tutti gli artisti. All’inizio per esempio tutto era pura passione ed euforia, ora invece mi sento più uno scienziato che prova a studiare e perfezionare le proprie nozioni e possibilità.

Nella tua quotidianità che tipo di rapporto c’è tra la Sindrome di Asperger e la danza?
La danza cura l’Asperger. Ho sempre avuto problemi a parlare con le persone, la socialità è sempre stato un grande dilemma personale. La danza mi ha aiutato a connettermi con il mondo e a definirmi. Quando danzo mi sento calmo, tranquillo e funzionale per la società. La Sindrome di Asperger mi rende ipersensibile e questo ha lati postivi, ma anche lati negativi. La luce, la temperatura, i suoni… Il mio cervello percepisce e processa queste cose in maniera estremamente complessa. Per farvi capire questa complessità, pensate semplicemente a come ragiona una persona con l’Asperger: il lineare A-B-C per me si trasforma in un salto continuo da A a I, da I a B, da B a G e così via, per poi tornare al punto di partenza. Quando osservo un albero fuori dalla finestra mi focalizzo su un’infinità di dettagli e il mio cervello si perde in questa intricata somma di piccole cose. Grazie alla danza riesco ad accedere alle mie emozioni e al mio mondo interiore, riesco ad esprimere tutto questo flusso di sensazioni attraverso il mio volto. Mentre danzo non riesco a fingere o ad essere in controllo, è tutto pura autenticità, è tutto puro me stesso.

Questa tua condizione ti rende innegabilmente un role model. Come gestisci questo status?
È bello essere ispirati da altri, ma credo che le persone non debbano seguire i miei stessi passi. La danza deve essere un’esperienza personale, un cammino che insegna a trovare te stesso, a ragionare su chi sei realmente. Amo i punti di vista differenti, la singola prospettiva è sempre fallace. Qui a Nottingham il 50% della community supporta la mia vision e ciò che faccio, l’altro 50% mi ritiene una persona strana, probabilmente vorrebbe che mi trovassi un lavoro… Ma è un qualcosa che ogni artista deve affrontare. Non ho accettato l’Asperger fino a poco tempo fa, volevo che la gente mi giudicasse solo per l’allenamento, il duro lavoro e la creatività. È fondamentale controllare la propria narrativa, soprattutto quando si tratta di temi delicati, perché c’è sempre il rischio di perdere qualcosa lungo la traduzione dei tuoi pensieri. Ho sempre voluto che ogni mia evoluzione artistica fosse più vera possibile, poi ho capito che la performance artistica richiede l’autenticità del performer, e ho preso la decisione di parlare della Sindrome di Asperger.
Quali sono i tuoi progetti futuri?
Nel futuro spero che la danza mi faccia viaggiare in Paesi e città sconosciute. Vorrei esibirmi in uno show personale e trovare sempre nuove opportunità. Qui in Gran Bretagna non ci sono molte piattaforme o strade per il talento individuale, la danza è molto istituzionalizzata. Spero di aiutare un cambiamento di paradigma, perché la danza deve partire da una necessità e da uno stile personale. Bastano alcuni fondamentali e poi l’espressione personale deve passare attraverso la libertà.
Credits: Jamal Sterrett
Photo Credits: @freddie_macgregor
fredmacgregor.com
Testi di Gianmarco Pacione
Behind the Lights – Brazo de Hierro
Dalle strade di Barcellona alle vette delle Alpi, l’eterogenea lente ciclistica di Albert Gallego
“Da dove nasce la mia passione per la fotografia? Ecco una foto scattata da mio padre circa trent’anni fa a una Simca 1000. Abitavamo in un paese vicino Girona e nella nostra zona organizzavano spesso gare di rally. Mio padre fotografava quegli eventi con una Konica T4, io lo seguivo e vedevo quella macchina fotografica sempre in giro per casa… È un qualcosa che mi è rimasto dentro ed è spuntato anni dopo, quando facevo il writer. Erano i primi anni 2000 e il centro di Barcellona era blindato, quindi ci muovevamo tra le fabbriche abbandonate all’esterno della città. Lì ho cominciato a fotografare le nostre opere, per tenerne traccia, e presto sono passato a fotografare altri mondi che riempivano la mia vita, come l’hip hop, il rap e la breakdance… Almeno fino all’avvento dell’epoca d’oro della scatto fisso a Barcellona”



Le composizioni ciclistiche di Albert Gallego uniscono tumulto sportivo e scenari sublimi, sbalzi emotivi e luci capaci di comunicare, di spiegare, di responsabilizzare ogni istante, inserendolo in un’ispirata galleria di velocità e fatica. Conosciuto come ‘Brazo de Hierro’ a causa di un omero rotto, questo fotografo spagnolo sta definendo l’immaginario ciclistico contemporaneo, specialmente quello urbano, legandosi a brand iconici come Dosnoventa e facendo danzare la sua lente tra scatto fisso e ciclismo professionale. La sua è una ricerca cominciata senza freni e proseguita tra pro team come CANYON/SRAM, NESTA e EF Education: una ricerca che assume sempre i connotati delle due ruote.




“A Barcellona c’è stato un grande boom della fixie a cavallo del XXI secolo. Io mi sono subito innamorato e unito ad altri rider, così ho cominciato a girare per tutta Barcellona e la Catalogna. Poi mi sono informato, ho studiato e scoperto il concetto di bike messenger, l’heritage e il significato di questo lavoro che è diventato anche il mio per qualche tempo. Durante la crisi del 2008, però, sono stato licenziato e così mi sono concentrato totalmente sulla fotografia, alternando concerti e cover musicali a velodromi, criterium e ciclismo urbano. E il ciclismo urbano è sinonimo di Dosnoventa. Sono connesso a quest’azienda ormai da molto tempo, mi rendo conto di come sia sempre più conosciuta e celebrata in ogni dove. Se hai una bici Dosnoventa hai uno status preciso. Che tu sia a Madrid o Copenaghen, le persone riconoscono questo marchio e i rider ad esso collegati. Recentemente, per esempio, ho fotografato l’iconico rider fixie Duke Agyapong a Londra, per una collab tra Dosnoventa e il brand d’abbigliamento MAHARISHI. Sono fenomenali nel costruire un immaginario distintivo attorno ai loro prodotti e sono molto fiero di far parte di questo processo”
E l’immaginario creato da ‘Brazo de Hierro’ è un’emozionante piano sequenza ciclistico in grado di unire macro e micro, dettagli come la pelle d’oca di uno scalatore e enormi set naturali come le verdeggianti colline spagnole. Ogni scatto nella sua produzione riesce ad essere sineddoche dell’universo a due ruote e dei suoi infiniti riflessi. Fashion, World Tour, strade metropolitane, Alpi… La lente di Albert riesce ad unire scenari distantissimi tra loro: un’operazione resa possibile dalla spiccata sensibilità estetica e, ovviamente, ciclistica.




“Voglio stimolare gli osservatori a visitare un luogo, voglio ispirarli ad esplorare con le loro bici gli scenari naturali che ritraggo e che io stesso affronto pedalando. Penso per esempio ai Pirenei o alle Alpi francesi, dove ho sviluppato il progetto ‘Among the Giants’. In mezzo a quei giganti ti senti su un altro pianeta, dove nulla è facile ma tutto è meraviglioso. Allo stesso tempo voglio mostrare l’enorme alternanza di emozioni e reazioni di ogni ciclista. Il linguaggio del corpo, la posizione sulla sella… Tutto rivela la sofferenza, la gioia, lo stato d’animo di un atleta sulle due ruote. Ho iniziato da poco a seguire dei team professionistici, sia maschili che femminili, e ho deciso di mostrare, con rispetto, la normalità di quelli che molti ritengono superumani e di focalizzarmi su quegli istanti delle loro performance che vengono spesso snobbati dai fotografi più canonici. Non sapevo come me le sarei cavata nell’universo racing, perché non mi ritengo un fotografo sportivo, ma mi sta piacendo e sto ricevendo ottimi feedback, che mi spingono a proseguire su questa strada. Nel panorama fixie, invece, tutto è molto più vicino al fashion e se nelle gare devo essere bravo a muovermi e a farmi trovare nel posto giusto al momento giusto, negli shooting fixie devo stare attento ad ogni dettaglio: a volte i brand mi chiedono di scattare dei modelli che non sanno andare realmente in bicicletta o, viceversa, rider che non sanno stare di fronte ad una macchina fotografica… Devi fronteggiare problemi di questo tipo per raggiungere un risultato condiviso con i brand”



La sinergia estetica tra ciclismo urban e professionale è un nuovo trend globale che, innegabilmente, trova nella lente di ‘Brazo de Hierro’ uno degli interpreti più prolifici e convincenti: sinergia che si spalma su vari livelli, come ci conferma lo stesso Albert, raccontandoci di moltissimi membri fondatori della community fixie globale che, oggi, si ritrovano a dirigere i piani alti delle maggiori company ciclistiche. Nella sua testimonianza si mescolano nostalgia per eventi caleidoscopici come il Red Hook Crit e realismo legato ad un presente che necessita del suo occhio per continuare l’opera di fusione tra stile metropolitano e Grandi Classiche, ma anche per narrare situazioni molto più grandi rispetto a gare e ride, come la recente pandemia.




“Ricordo con un po’ di nostalgia eventi incredibili come il Red Hook Crit. Era il momento più bello dell’anno, mi permetteva di conoscere ed entrare in contatto con amanti della scatto fisso, di andare ai party con loro… Sono grato di aver vissuto appieno manifestazioni come quella. Tanti di quei partecipanti ora sono entrati nella cycling industry e ricoprono i ruoli più disparati: per quanto mi riguarda sono una boccata d’aria fresca. Questi creativi legati alla community fixie stanno aiutando molto un’evoluzione generale ed è sempre bello constatare come tutti i legami che avevamo costituito in passato tornino a galla ciclicamente per progetti e idee condivise. Sono felice perché il mio lavoro mi permette di essere costantemente in contatto con un qualcosa che amo e di cui mi sento parte attiva, perché anch’io pedalo molto durante l’anno. Ad oggi il mio progetto più riconosciuto e premiato è stato l’atipico ‘Life Behind Lockdown’, in cui ho funto da direttore della fotografia a distanza: ho contattato dei ciclisti chiusi in casa, gli ho chiesto di posizionare la camera in una certa maniera e di autoscattarsi durante gli allenamenti casalinghi. Ora invece mi sto concentrando sulla stagione del ciclocross, per cui tornerò in Belgio a breve, ma sto anche sviluppando una serie di progetti personali che vedranno la luce nei prossimi mesi”
Photo Credits: @Brazo de Hierro.com
IG @Brazo de Hierro
Testi di Gianmarco Pacione
La danza del kite
Le foto di MT Kosobucki raccontano di uomini che diventano aquiloni, e viceversa
È una danza ascensionale. Colorate correnti su grigi sfondi. Singoli corpi aggrappati a coraggiosi e tecnologici aquiloni. È una danza ascensionale. Le acque s’increspano ad ogni tocco della tavola, divenendo liquidi trampolini, liquide piste d’atterraggio. Tutto è silenzioso in questo anonimo specchio lacustre, tutto è ritmo e ipnosi. Alcuni uomini ballano sospesi a mezz’aria, i loro corpi si contorcono e distendono su note naturali, sprigionando eleganza, forza fisica, artisticità. Le loro vite sono sconosciute. Possono essere musicisti o finanzieri, architetti o funzionari, ma in questo palco interpretano un ruolo ben preciso, quello dei performer. Performer per sé stessi. Performer per le sparute macchine che tirano il freno a mano a pochi metri da riva, pronte ad essere incantate da questa dolce, spontanea coreografia. È una danza ascensionale. Muscoli tesi su pensieri astratti. Evoluzioni e trick che dipingono la plumbea tela invernale. È una danza ascensionale. È la danza del kite.









Photo Credits: MT Kosobucki
Text by: Gianmarco Pacione
Serhij Lebid’, il cross come inizio di tutto
Grazie a Karhu siamo riusciti a parlare con l’ucraino 9 volte campione europeo di cross country
Alcuni esseri umani segnano indelebilmente le proprie discipline sportive. Sono divoratori di medaglie e record, sono atleti capaci di dominare le proprie prestazioni, sono perfezionisti motivati da un’unica necessità, da un unico obiettivo che mai smette di essere fondamentale e primario: la vittoria. Serhij Lebid’, nato nell’ucraina Dnipropetrovs’k il 15 luglio 1975, è una di queste figure mitiche, di questi onnipotenti totem ammirati da ogni avversario, da ogni spettatore. Italiano e verbanese d’adozione, Lebid’ vanta 19 partecipazioni consecutive agli Europei di cross tra il 1994 e il 2012. Per oltre vent’anni ha letteralmente egemonizzato questa manifestazione, arrivando per 12 volte sul podio e conquistando 9 titoli (di cui 5 consecutivi). Grazie a Karhu abbiamo incontrato questo mito sportivo all’interno della Reggia di Venaria, durante gli European Cross Country Championships, durante il suo evento principe. Abbiamo parlato del valore del cross country e del periodo storico del suo Paese. Queste sono le sue parole.




“Il cross country rappresenta tutta la mia vita. È l’inizio di tutto. I bambini cominciano a correre su questi percorsi, anch’io ho iniziato così. Questa è una base imprescindibile per la corsa su strada e su pista. La presenza di un fenomeno come Ingebritsen ad ogni europeo di cross non è causale… Il norvegese partecipa a queste competizioni per preparare le gare che arriveranno nei mesi futuri, perché qui si preparare l’eccellenza del mezzofondo. Quando osservo manifestazioni come gli European Cross Country Championships ho un po’ di nostalgia e sento riaffiorare tantissime immagini, ricordi e momenti che ho vissuto grazie a questo sport. Per competere a questi livelli la mente conta tanto quanto il fisico. Quando corri in pista tutto è uguale, qui invece si alternano continuamente salite e discese: da un lato ti senti meglio, perché sei a contatto con la natura, la respirazione è come se fosse più pura e non rischi mai di annoiarti, dall’altro tracciati del genere costringono il tuo corpo ad enormi fatiche. Ricordo ancora quando vinsi il primo europeo e la settimana successiva partecipai ad una gara nel fango dove arrivai molto indietro in classifica… C’è bisogno di tempo per comprendere il fattore ambientale, per abituare i tuoi muscoli ad emergere dal fango e da terreni complessi. Io sono italiano d’adozione, ma vivo ancora in Ucraina, dove gestisco il mezzofondo per la Federazione del mio Paese. Per me è un periodo molto particolare, perché quando è arrivata la guerra tutto è diventato confuso. Tra sirene e missili non si realizza cosa sta succedendo, per il primo periodo è come se sentissi la guerra distante da te, ma poi capisci e finisci per abituarti ad un qualcosa di così negativo… Spero solo che finisca il prima possibile, stanno morendo tantissime persone”






Photo Credits: Rise Up Duo
Testo a cura di Gianmarco Pacione
Urban Explorers – Tatiana Diakova
Insieme a North Sails andiamo a Barcellona, dove corpi umani e panorami marini si uniscono nelle tele di questa pittrice
L’originalità consiste nel ritorno all’origine, rifletteva Antoni Gaudí immaginando le forme che avrebbero composto la tela urbana di Barcellona. L’originalità è la natura, suggerivano e continuano a suggerire le sue linee fiabesco-catalane incorniciate dalle Ramblas. L’originalità, intesa come danza comune di corpi umani, bellezza, paesaggi naturali e purezza, è anche la tavolozza da cui attinge la pittrice bielorussa, ma barcelonés d’adozione, Tatiana Diakova. “Dipingere è un esercizio spirituale. Non mi sono mai considerata una pittrice, penso semplicemente che la bellezza in sé sia un atto da raccontare. I miei soggetti sono panorami e corpi umani: amo l’idea dell’essere umano che diventa continuazione della natura, e viceversa. L’oceano e il mare per me rappresentano la purezza, così come il corpo umano, e provo a comunicare questi concetti attraverso il minimalismo e la pulizia di colori, forme e composizioni. Sono nata in un Paese che non ha sbocchi sul mare, con la mia famiglia però andavo ogni anno in campeggio sulle coste del Mar Nero. Lì ho imparato a connettermi con la natura e le onde, lì mi sono innamorata dei loro profumi e suoni, della loro bellezza… Lì ho vissuto per la prima volta la sensazione di fondermi con ciò che mi circondava”.




Dopo una rapida carriera da graphic designer, Tatiana ha scelto le luci e le coste di Barcellona per ispirare i propri pennelli. Ai piedi del celebre promontorio del Montjuïc questa raffinata indagatrice della bellezza ora esplora selvaggi litorali con le sue tele e, contemporaneamente, dirige il MAUI Beach CoWork, un’oasi creativa che interseca eclettismo, yoga, SUP e sostenibilità ambientale. “Quando dipingo a riva sento di catturare un qualcosa in costante mutamento e provo a concretizzare questa percezione attraverso il dinamismo delle mie figure. Mi sento così minuscola davanti all’eterna saggezza di questo elemento, ma sento anche di farne parte. È come se fossi le rocce, le luci, le albe e i tramonti che ritraggo, è come se mi connettessi alla fonte dell’universo. Nella natura mi sento più me stessa. Voglio mostrare la purezza di questi luoghi, assorbirla. A Barcellona tutto è vicino al mare, mi bastano pochi minuti per raggiungere le onde e lo faccio spesso insieme agli altri creativi del MAUI Beach CoWork. Settimanalmente ci immergiamo in acqua con le nostre tavole da SUP per ricaricarci e, allo stesso tempo, ci interessiamo delle condizioni di questi luoghi. La costruzione di ville e hotel, l’inquinamento e la disseminazione di chiringuitos sono tendenze estremamente negative, che la Catalogna sta riuscendo a contenere. La nostra community ha diversi appuntamenti annuali dedicati alla raccolta di plastica e sporcizia: sappiamo che non è abbastanza, ma vogliamo cominciare da questo. Credo però che anche l’arte sia uno strumento estremamente potente per promuovere la salvaguardia marina”.






Stando alle delicate parole di quest’artista cresciuta sfogliando ‘Oceano Mare’ di Alessandro Baricco, romanzo dove tale Plasson dipinge instancabilmente ai piedi dell’oceano utilizzandone l’acqua salata, è e sarà la bellezza a cambiare coscienze individuali e collettive, è e sarà la bellezza a fondare un nuovo, sano rapporto con l’ambiente marino. “Attraverso l’arte educo me stessa e provo ad educare gli altri. Sono convinta che l’arte possa educare al contatto con gli elementi naturali. Mentre parlo mi compaiono così tante immagini nella testa: enormi balene, persone che volteggiano nelle profondità marine, fioriture di meduse… Mi pervade un senso di armonia dettato da fotografie, film e quadri che ho avuto modo di ammirare. Poi penso a immagini diametralmente opposte, a spiagge inquinate e rovinate dall’irresponsabilità dell’essere umano, a paradisi perduti. Ogni forma artistica fa sollevare domande e riflessioni, fa agire. E ogni azione virtuosa ha un impatto positivo. La mia filosofia è racchiusa in questo processo, in questo credo: la bellezza è talmente forte da spingere le persone al cambiamento e io voglio continuare a raccontare questa bellezza”.
Credits: @diakova_art
@North Sails
Photo Credits: Rise Up Duo
Text by : Gianmarco Pacione
Franco Arese e Maurizio Damilano, il cross è per sempre
Due leggende dell’atletica italiana spiegano l’importanza degli European Cross Country Championships torinesi
Gli European Cross Country Championships 2022 hanno riunito nell’elegante e accogliente Reggia di Venaria due volti che mai hanno smesso di vivere, incarnare e tramandare la bellezza del sacrificio atletico. Sono Franco Arese e Maurizio Damilano. Sono due professori emeriti dell’universo sportivo italiano. Sono due menti, due corpi, due anime che all’atletica hanno dedicato e continuano a dedicare le loro esistenze.



“Ho cominciato a correre così, nelle campagne cuneesi e nei campionati studenteschi”, confida Arese, prima mezzofondista di livello internazionale e campione europeo sui 1500 metri ad Helsinki ’71, poi imprenditore di successo e oggi chairman del brand Karhu, “Il cross è fondamentale soprattutto per noi mezzofondisti. Correre con il fango fino alle caviglie è qualcosa di diverso, ti insegna a superare momenti di crisi che poi puoi ritrovare in pista. Il cross fortifica la tua mente, perché qui non è tutto bello e pulito, le incognite sono infinite… Pensate per esempio al campione olimpico sui 1500 metri a Tokyo, il norvegese Jakob Ingebritsen. Ha appena vinto su questo tracciato il suo sesto oro europeo consecutivo: questa è la dimostrazione di quanto sia propedeutico questo sport e di quanto aiuti la performance in altri contesti”.



“È una grande palestra di costruzione”, prosegue Damilano, marciatore oro olimpico a Mosca ’80 e due volte campione mondiale sui 20km, ora consigliere di spicco della Federazione Italiana di Atletica Leggera, “I mezzofondisti costruiscono i propri risultati con il cross, ma questo sport serve soprattutto come avviamento per tanti bambini che incontrano l’atletica in gare scolastiche e se ne innamorano. Il cross tocca anche un punto fondamentale per la società attuale, la sostenibilità ambientale. È una disciplina che consente di correre e muoversi nella natura, di sfruttare il territorio nel migliore dei modi”. “Questo luogo è un’ex riserva di caccia e credo sia un contesto fantastico per un evento di questo genere”, gli fa eco Arese osservando lo splendore della Reggia di Venaria, “Solitamente le gare di cross si svolgono in campagna, in zone anonime in cui non è presente questo contorno architettonico e monumentale… Qui invece l’arte umana si fonde con l’ambiente e con la corsa. Ho la sensazione che questo scenario completi la competizione e la renda affascinante in primis per gli atleti, ma anche per le oltre diecimila persone che sono accorse ad ammirare le loro performance”.





Gli occhi di entrambi si illuminano davanti a giovani falcate, innescando un duplice processo d’immedesimazione e desiderio. Perché nella corsa di Ingebritsen e colleghi si riflettono interi decenni di amore viscerale per l’atletica, di allenamenti e successi, così come il desiderio comune di un presente dedicato allo sviluppo di questo nobile, eppure estremamente popolare universo sportivo. “Per me è un onore supportare questo evento”, afferma Arese, “Ed è un onore rappresentare Karhu e la sua storia strettamente connessa a tante leggende dell’atletica, come i Finlandesi Volanti o le 15 medaglie d’oro che questo brand ha vestito ad Helsinki 1952. Qualche anno fa ho deciso di rilanciare Karhu, era una questione di rispetto verso un pezzo di storia sportiva. Allo stesso tempo è fondamentale rilanciare il cross country, e questa cornice di pubblico dimostra che siamo sulla giusta strada”. “Quando partecipo a queste competizioni è come se rivivessi dei momenti della mia carriera”, conclude Damilano, “Gli atleti italiani, i loro risultati e le loro imprese mi riportano indietro nel tempo… Mi fanno pensare all’autostima e alle consapevolezze che ho acquisito raggiungendo risultati come l’oro di Mosca. Ho lasciato le piste da 30 anni, ma non ho lasciato l’atletica. Per questo evento ho assunto il ruolo di CEO del comitato di organizzazione e coordinamento, schierandomi al fianco del presidente Lucchi, e osservare questa cornice straordinaria mi conferma quanto sia sempre più necessario che l’atletica diventi una piattaforma d’inclusione di massa”.
Credits: KARHU
Photo Credits: Rise Up Duo
Text by: Gianmarco Pacione
Urban Explorers – Meloko
Insieme a North Sails ascoltiamo le vibrazioni marsigliesi di questo DJ e producer
Marsiglia è la voce del Mediterraneo. Le sue onde compongono rime poliglotte, versi che, da secoli, plasmano le cattedrali naturali dei Calanchi, come il fluido melting pot del Vieux Port. Meloko è il suono di questa città, del suo vorticoso cosmopolitismo, delle sue luci capaci di fondere cielo e mare, caos urbano e nirvana costiero. Dj e producer, i suoi ritmi sono la colonna sonora dei raffinati tramonti provenzali, sono la trasposizione melodica di brezze, culture e sciabordii. “Sono arrivato a Marsiglia dall’entroterra francese, da una piccola città vicino ad Avignone, e ho avuto un colpo di fulmine. Marsiglia è il suo mare. Il Mediterraneo è il suo elemento chiave, è ciò che la rende unica. Qui tutto riesce ad essere intenso e dinamico, ma allo stesso tempo rilassato. Tutto deriva dall’elemento marino e la mia musica vuole riflettere questa profonda connessione. Ogni giorno per raggiungere il mio studio passeggio sul lungomare, mentre produco le mie finestre si affacciano su questa vasta e luminosa distesa azzurra… Ecco perché il Mediterraneo è dentro la mia musica”.







Anche ‘Azzur’, l’etichetta discografica fondata da Meloko, rappresenta un chiaro riferimento a questa sinergia mediterranea. Le sue ariose vibrazioni house, contaminate da echi africani e arabi, inondano club e spiagge marsigliesi, muovendo i corpi di migliaia di giovani e, contemporaneamente, educandoli alla tutela dell’ambiente marino. “Formo un duo con Konvex Guilhem, ci chiamiamo ‘Palavas’, come un tradizionale paese di pescatori nei pressi di Montpellier. D’estate suono spesso nelle spiagge, soprattutto nel club-stabilimento Le Cabane des Amis. Il proprietario di questo club ha stabilito una linea di zero tolleranza nei confronti dell’inquinamento e sono fiero di supportarla. Chi getta una sigaretta, chi lascia per terra una bottiglia di plastica, chi non rispetta la natura viene immediatamente allontanato dall’evento. Sono molto orgoglioso di questa decisione, perché tengo particolarmente a questo tema. Collaboro con l’associazione ‘Clean my Calanques’, che lavora per tutelare le condizioni dei Calanchi: sono luoghi meravigliosi, sono l’essenza di Marsiglia, ma sono colmi di plastica e spazzatura. La situazione è triste. Penso sia necessario educare e sensibilizzare, io provo a farlo con la musica, e le nuove generazioni stanno recependo questi messaggi. Tantissimi ragazzi fanno parte di ‘Clean my Calanques’, ma tutti dovrebbero ritagliarsi del tempo per aiutare il mare”.





Un tuffo invernale. Una partita di pétanque bagnata di vino rosso e sorrisi condivisi. Un dj-set che traduce in note i colori marsigliesi, avvolgendo gli ascoltatori in lunghe trance contemplative. Meloko ha trovato la propria oasi e la propria musa in questa metropoli costiera, tra gli stretti vicoli dell’antico quartiere di Le Panier si è trasformato da studente di Economia in musicista internazionale, stringendo un legame destinato a durare per sempre. “Non lascerò mai Marsiglia. Ho vissuto in altre metropoli europee per brevi periodi di tempo, ma il clima marsigliese mi mancava incredibilmente. Lontano dalle luci della Provenza, dai ritmi marsigliesi, da queste spiagge, la vita sembra sempre così diversa e grigia… Continuerò a produrre la mia musica facendomi ispirare dal Mediterraneo e da questa città speciale, allo stesso tempo aumenterò il mio impegno nella tutela dell’ambiente marino e delle spiagge locali. Voglio far parte di questo processo virtuoso e condizionarlo positivamente con le mie tracce, i miei eventi, i miei concerti. Infine, spero che ‘Clean my Calanques’ diventi molto più di un’associazione: deve diventare un richiamo, un obiettivo per ogni cittadino”
Credits: @melokomuisc
@North Sails
Photo Credits: Rise Up Duo
Testi di Gianmarco Pacione
La meraviglia podistica degli European Cross Country Championships
Insieme a Karhu abbiamo raggiunto la reggia di Venaria Reale e ammirato l’elite del cross country continentale
“Chi vede Torino e non vede la Venaria, vede la madre e non la figlia”, racconta un antico detto sabaudo. E i migliori interpreti del cross continentale hanno avuto modo non solo di vedere, ma anche di assaporare e fendere con le proprie falcate le vibrazioni di questa reggia patrimonio UNESCO. Perché gli SPAR European Cross Country Championships 2022 sono stati una celebrazione della bellezza, del rapporto tra corsa di altissimo livello e meraviglia architettonico-naturalistica.
In fondo basta una semplice cartolina visiva per descrivere l’unicità di quest’evento: immaginate fulminei corpi che invadono il Castello della Mandria, attraversando la suggestiva Galleria delle Carrozze degli Appartamenti Reali, per poi uscire attraverso il monumentale portone del Cortile d’onore e lanciarsi su rapidissime discese e vertiginosi muri verticali…





Eleganza e fatica. Terra, erba, ghiaccio e tappeti rossi. Tra le diapositive più significative di questa pittoresca ode al cross bisogna menzionare la progressione ritmata e inarrestabile dell’onnipotente norvegese Jakob Ingebrigtsen, sublimata nel sesto oro europeo consecutivo, ma anche la rimonta al cardiopalma di Gaia Sabbatini e l’abbraccio stremato con tutti gli altri membri della staffetta mista italiana (Pietro Arese, Federica Del Buono e Yassin Bouih). Ulteriori emozioni sono arrivate nello sprint finale della gara senior femminile, dove l’altra eccellenza norvegese Karoline Bjerkeli Grøvdal ha bissato il titolo vinto lo scorso anno, piegando le resistenze della tedesca Klosterhalfen, e dalla giovane regina del mezzofondo italiano Nadia Battocletti, capace di esaltare il fiume di tifosi accorso nell’antica residenza sabauda vincendo l’oro Under 23. I britannici Will Barnicoat e Charles Hicks hanno invece lanciato un messaggio per il futuro da oltremanica, conquistando rispettivamente le gare maschili Under 20 e Under 23. Il titolo Under 20 femminile è infine andato alla spagnola Maria Forero.
Grazie a Karhu, sponsor dell’evento, abbiamo catturato questa soleggiata giornata di eccellenza atletica con le nostre lenti. Vi proponiamo solo una parte della galleria fotografica che vi mostreremo in questi giorni: immagini che saranno accompagnate da interviste, testimonianze e focus dedicati alla disciplina più democratica del mondo.









Photo Credits: Rise Up Duo
Testi di Gianmarco Pacione
L’Europa del cross country
Grazie a Karhu ritrarremo la nobile fatica del cross country agli Europei di Torino
“Il cross country è una stupenda emozione di vita e ha significato per me la verità sportiva”. Le parole della due volte campionessa mondiale Paola Pigni racchiudono l’essenza del cross country podistico. Grazie a Karhu avremo la possibilità di ritrarre questo magico universo sportivo: lo faremo a Torino, nel sublime scenario naturale del parco La Mandria, dove questo weekend seguiremo i Campionati Europei 2022. Fango, freddo e fatica accompagneranno testimonianze editoriali e visuali dei migliori atleti continentali di questa disciplina, mostrandoci le più differenti sfumature del cross country e dei suoi protagonisti. Seguite i nostri canali social per scoprire immagini e pensieri connesse ad uno sport che, da secoli, continua a scrivere pagine di mitologia atletica. Perché il cross country non ha mai smesso di essere democratico e affascinante. Perché il cross country non ha mai smesso di rappresentare la nobile verità sportiva.

Testi di Gianmarco Pacione
Urban Explorers – Giovanni Barberis
Onde, pellicole e sensibilità ambientale. Incontriamo questo regista italiano insieme a North Sails
Il suono dell’oceano ha infinite note. Sono note dolci e pacate, contemplative e introspettive. Sono note che placano la frenesia metropolitana, che la alleviano, che riecheggiano dalle vaste distese atlantiche e mediterranee per incanalarsi in luoghi inaspettati, come in un Naviglio incasellato nel tessuto urbano milanese, come nell’ombrosa pancia acquatica della Darsena, come nelle correnti creative del filmmaker e director Giovanni Barberis. ‘Ogni giorno ci penso’ è il suo ultimo progetto tangenziale all’elemento acquatico, seguito alle pluripremiate produzioni ‘Peninsula’, ‘Nausica’ e ‘Onde Nostre’, docufilm dedicati alla scena surfista italiana e prodotti insieme ad un ispirato collettivo di creativi acquatici. ‘Ogni giorno ci penso’ è anche l’involontaria definizione che si può attribuire al manifesto rapporto tra Sbrokked, suo nome d’arte, e l’elemento acquatico. “Ho una connessione estremamente intima con mari e oceani. Quando penso a loro, la prima immagine che riaffiora riguarda me e mia sorella sulle spiagge di Bergeggi, in Liguria, mentre giochiamo e veniamo redarguiti da mia madre. Prima di arrivare a Milano ho vissuto con loro in Piemonte, per anni il mio unico pensiero è stato raggiungere la lineup più vicina e salire sulla tavola da surf. Quasi quotidianamente scendevo sulla costa ligure. Mi è capitato più volte di farlo da solo o, semplicemente, con il mio cane. Fino ai 30 anni ho avuto la preziosa possibilità di viaggiare, la priorità era sempre finire in mezzo alle onde: dalle Hawaii al Marocco, dalla Spagna settentrionale al piccolo comune di Varazze… In acqua ho sempre avuto la sensazione di essere profondamente a mio agio. L’acqua fa diventare tutto mentale, compreso te stesso, plasma il tuo modo di essere, ti spinge a raccontare”.





E il racconto di Giovanni Barberis percorre lo spartito delle proprie pellicole, come quello della propria pelle. Una tavola rotta, segno di un grave infortunio del passato, il profilo di una sogliola, la coda di una balena… Tra i corsi acquatici milanesi, le gambe di questo artista lasciano trapelare tatuaggi tracciati autonomamente. Sono suggestioni, dichiarazioni di una sinergia primordiale e feconda per la sua vita, per la sua professione, per la sua sensibilità. Osservando relitti di plastica depositati appena poche ore prima nelle sfigurate vene acquatiche milanesi, Giovanni lascia sgorgare un fiume carsico di denunce e informazioni, di silenziose iniziative personali e rumorose schegge visuali: tasselli uniti dal fil rouge della salvaguardia marina. “Durante uno dei miei progetti ho avuto la fortuna d’intervistare un oceanografo. Mi ha edotto sulle dinamiche d’inquinamento e di rigenerazione marina, è stato scioccante. Toccando temi come il consumismo collettivo o la disattenzione individuale ho effettivamente realizzato quante colpe abbia l’essere umano in questo vortice di distruzione ambientale. Ho sempre agito nel massimo rispetto della natura marina, anche prima di quest’incontro. Credo sia un tipo di attenzione insita a tutti gli amanti di questo elemento. Mi è capitato milioni di volte di fare lunghe passeggiate sulle spiagge che accoglievano i miei viaggi di lavoro o di piacere, e di raccogliere sacchi su sacchi di plastica gettata da chissà chi. Alle Maldive ho avuto modo di osservare un’isola-discarica, è stato scioccante. Non mi sono mai legato ad associazioni specifiche, ma credo che il mezzo artistico sia fondamentale per alimentare una sensibilità eterogenea su questo tema, specie nelle nuove generazioni. In molte delle mie produzioni il mare è stato e continua ad essere il soggetto centrale e credo che anche solo riprendere il cammino di un’onda per molti secondi, o una tempesta, possa trasmettere un senso di magia e di purezza che deve essere preservato. Spero che queste immagini sensibilizzino l’osservatore e lo facciano riflettere sul concetto di rispetto e di amore per un qualcosa che, nonostante sia così essenziale, continua ad essere messo in grave pericolo. Ho dato spazio anche a tante testimonianze di persone che vivono in simbiosi con la meraviglia oceanica, che hanno deciso di abitarla per tutta la loro esistenza. Le loro parole sono un altro strumento potentissimo per rivoluzionare il pensiero comune”.








La rivoluzione può passare anche da una dolorosa presa di coscienza e da un ancora più doloroso distacco. Perché essere fedeli ai propri valori, ci spiega Giovanni Barberis camminando sul grigio cemento della Milano da bere, è la cosa più significativa che un uomo in perenne ascolto del mare possa fare. Questa è la ragione di una parentesi lavorativa che, almeno per qualche tempo, lo vedrà incrociare le onde quasi unicamente per film personali e abbandonare produzioni più grandi, spesso tese ad una strumentalizzazione dell’arte surfistica e del suo immaginario. “Il surf è la mia passione e, nel tempo, è diventato il mio lavoro. Nonostante sia una necessità, ho deciso momentaneamente di prendermi una pausa da questo universo, perché odiavo l’idea di strumentalizzare un qualcosa che ho sempre percepito come spirituale, ero emotivamente saturo. In futuro riprenderò. Intanto continuerò a vivere questo dualismo tra mare e metropoli: è un equilibrio che riesco a sopportare, perché appena posso scappo in qualche spiaggia. Sto anche coltivando l’idea di trasferirmi in un luogo costiero, è un pensiero che mi accompagna e continuerà ad accompagnare. Prima o poi si concretizzerà”.
Credits: @gio_sbrokked
@North Sails
Photo Credits: Rise Up Duo
Testi di Gianmarco Pacione