GOALS, nuove prospettive sul Qatar

Grazie a GOALS il calcio e la società del Qatar vengono raccontate da chi vive all’interno del Paese

Critiche, dibattiti, atti dimostrativi e conferenze stampa. I Mondiali di Qatar sono tra gli eventi sportivi più chiacchierati della storia, sono diventati un centro catalizzatore per l’opinione pubblica internazionale, impegnata a sviscerare e sezionare contraddizioni sociali, intrecci politici, giochi di potere e lati oscuri del rapporto tra la FIFA e un Paese di cui si conosce ancora troppo poco.

Grazie a GOALS – una collaborazione tra Goal Click, The Sports Creative, Qatar Foundation, e Generation Amazing, abbiamo la possibilità di  ascoltare le parole e osservare le foto scattate da più di 40 contributor provenienti da 20 nazioni diverse, uomini e donne che oggi vivono proprio in Qatar. Il programma di storytelling GOALS unisce studenti, artisti e community capaci di rappresentare il tessuto sociale del Qatar e la sua connessione con il calcio: un progetto che spalanca orizzonti differenti su temi fondamentali come il progresso femminile e che ci permette di avere una visione più articolata e approfondita del Paese affacciato sul Golfo Persico.

Abbiamo chiesto a Matt Barrett, Fondatore del Progetto Goal Click e content partner del progetto, di raccontarne la genesi, i significati e le sfumature. Buona lettura.

Photo by ©Reem Al-Haddad
Photo by ©Reem Al-Haddad

Come nasce il progetto GOALS e come siete riusciti ad entrare in contatto con collaboratori qatarioti?

Il progetto GOALS è stato concepito e realizzato nel 2021 grazie alla collaborazione tra Qatar Foundation, The Sports Creative, Goal Click, Generation Amazing e Salam Stores. GOALS è un programma di sviluppo focalizzato sulle capacità di leadership e di narrazione. GOALS ha preso formalmente il via nel novembre 2021, riunendo più di 40 persone, la maggior parte delle quali donne, in rappresentanza di 20 nazionalità.

Da lavoratori e studenti ad artisti e allenatori della comunità, tutti hanno deciso di raccontare le loro prospettive sul calcio, la comunità, la cultura e la vita del Qatar nell’anno della Coppa del Mondo, attraverso fotografie analogiche e digitali, parole e video. Gli storyteller di GOALS sono stati reperiti principalmente attraverso candidature e persone collegate ai nostri partner.

Photo by ©Joris Laenen
Photo by ©Inamul Hasan Najeem

Cosa volevate mostrare e dimostrare attraverso queste immagini e testimonianze?

Si è scritto e si scrive moltissimo sul Mondiale FIFA in Qatar, ma raramente si sentono le voci di coloro che vivono e lavorano nel Paese. GOALS vuole cambiare questa narrazione e dare a quelle persone la possibilità di esprimersi e una piattaforma globale per condividere opinioni sul calcio, la comunità, la cultura e la vita in questo speciale momento storico. È importante notare che GOALS offre una rappresentazione autentica e diversificata del vero Qatar: donne e uomini di 20 nazionalità diverse hanno condiviso le loro storie.

Lo scopo di Goal Click è quello di ispirare la comprensione reciproca attraverso il linguaggio universale del calcio. In ogni progetto che sosteniamo, speriamo che le persone leggano le storie ed esplorino le immagini dei narratori, maturando una prospettiva più ampia riguardo un particolare gruppo di persone, un Paese o un’iniziativa. GOALS ne è un brillante esempio e il feedback che abbiamo ricevuto finora indica che le persone sono uscite dalla lettura di queste storie con una nuova idea del Qatar, della sua gente e dell’effettivo impatto che sta avendo la Coppa del Mondo.

Photo by ©Haya Al Thani
Photo by ©Inamul Hasan Najeem

Che tipo di rapporto c’è, a vostro avviso, tra Qatar e pallone?

Basta leggere le storie per capire quanta passione ci sia per il calcio e quanto sia stato importante nella vita di molti contributor. Avendo pubblicato oltre 300 storie ed essendo stati attivi in più di 100 Paesi, sappiamo che ogni Paese ha le proprie abitudini calcistiche e il Qatar non è da meno.

Come spiega Abdulrahman, che dal 2011 gioca a futsal per la Nazionale del Qatar: la cultura calcistica del Qatar è unica. Abdulrahman racconta di famiglie che si riuniscono ogni settimana e giocano a calcio per ore e ore, a volte senza scarpe, perché vengono usate per costruire le porte. Mahboobeh Razavi è un’allenatrice di calcio iraniana che si è trasferita in Qatar per conseguire un master in Exercise Science. Descrive una cultura calcistica “così piena di energia” e quando gioca nei tornei vede quanto la gente, e soprattutto le ragazze, amino giocare a calcio.

E non è solo la passione per il gioco ad emergere dalle storie di GOALS, ma anche il fandom, la base di appassionati e tifosi. Khalid Al-Ghanim è un superfan della squadra nazionale e spera che la Coppa del Mondo FIFA in Qatar possa essere un catalizzatore per cambiare visione e percezione della cultura del calcio nel Paese. È fiducioso che i turisti del Mondiale possano incontrare un luogo in grado di dare effettivo valore al gioco. Osserva che: “Non è la stessa cultura dell’Europa o del Sud America, ma è una cultura speciale a modo suo”.

Photo by ©Arham Khalid
Photo by ©Raja Aderdor

Quali sono i dettagli e le storie che vi hanno colpito maggiormente?

L’aspetto più importante è l’evoluzione del calcio femminile nei 12 anni trascorsi da quando il Qatar è stato selezionato come Paese organizzatore del torneo, ma anche i piani già in atto per far crescere lo sport femminile dopo la Coppa del Mondo. Molte delle donne che hanno partecipato a GOALS parlano di questo cambiamento. Dowana Ismail Khalifa, 30 anni, rappresenta la squadra nazionale femminile del Qatar. Parla di un Qatar diverso da quello in cui è cresciuta. Un Qatar dove può giocare a calcio ovunque e dove ci sono academy, tornei e campionati dedicati alle ragazze.

Dal suo punto di vista è incredibile osservare come la mentalità stia cambiando. “Abbiamo così tanto sostegno e sono così orgogliosa di viaggiare e rappresentare il Qatar. La mia esperienza mi fa venire voglia di dare una mano alle ragazze del Qatar, perché sono loro il futuro del calcio”, dice. Anche l’estrema passione e la fiorente cultura calcistica in Qatar e in tutta la regione sono dettagli degni di nota. Non si sapeva che esistesse anche qui, ma è evidente che il calcio, e lo sport in generale, sono assolutamente centrali per lo sviluppo e il progresso del Paese.

Infine, la diversità del Qatar è stata fonte di ispirazione. Abbiamo lavorato con 40 partecipanti che rappresentavano 20 nazionalità diverse. In Qatar sono presenti molte identità e culture nazionali distanti tra loro. Questo Paese rappresenta davvero il mondo in un unico luogo e ognuno porta il sapore della propria terra d’origine. Come sottolinea Joris Laenan, belga, trombettista principale dell’Orchestra Filarmonica del Qatar: “È un crogiolo di idee e le persone convivono pacificamente e nel rispetto reciproco. Apprezzo molto la loro gentilezza e ospitalità”.

Photo by ©Richmond Etse
Photo by ©Haya Al Thani

Cosa rappresenta, a vostro dire, il fatto che la maggior parte dei contributor sia di sesso femminile?

I diritti delle donne e delle ragazze sono stati un tema fondamentale nella preparazione di questo torneo e siamo lieti che oltre la metà degli storyteller siano donne. Leggendo la storia di Reem Al-Haddad, scopriamo che: “Il Qatar ha molte leggi a favore delle donne, le donne prendono le proprie decisioni, molte donne assumono ruoli di leadership e hanno un’istruzione di alta qualità”.

Mahboobeh ci dice che il calcio femminile è fiorente nel Paese e che “c’è un futuro brillante davanti a noi”. Forse non siamo troppo lontani da una candidatura del Qatar alla Coppa del Mondo femminile FIFA. Mehreen Fazal, una donna britannico-pakistana che ha avuto esperienze negative con il razzismo calcistico quando è cresciuta nel Regno Unito alla fine degli anni ’80, si è trasferita in Qatar nel 2020 e ha potuto assistere alla sua prima partita di calcio in assoluto durante la Coppa araba, capace di regalarle un’atmosfera incredibile e “scene di gioia in tutto il Paese”. L’impatto del calcio sulla vita delle donne che partecipano a GOALS è stato indubbiamente positivo.

Photo by ©Adriane de Souza
Photo by ©Adriane de Souza
Photo by ©Iman Soufan

All’interno delle varie testimonianze esce questa forte idea di multiculturalismo. Che tipo di rilevanza ha questo tema nella cultura e nel calcio qatariota?

Il Qatar è un Paese estremamente vario e questo spiega perché tra i partecipanti di GOALS sono rappresentate 20 nazionalità diverse. Molti narratori hanno parlato della diversità del Paese e di come questa stia plasmando la società moderna. Haya Al Thani lavora per Teach For Qatar e si concentra sui cambiamenti culturali in Qatar, su come il Paese contemporaneo sia “diverso nelle persone, nell’architettura e nella cultura” e su come, nel corso delle ultime generazioni, “le persone parlino lingue diverse, abbiano un aspetto diverso”.

Joris si è trasferito in Qatar 14 anni fa. Dice che il Qatar è sempre stato un luogo di incontro tra culture diverse: “Ci sono così tante nazionalità in questo Paese, persone provenienti da ogni angolo del mondo, con religioni, abitudini e background culturali diversi… Credo che il Paese debba essere orgoglioso di questo”.

Dai racconti emerge chiaramente come il calcio abbia svolto un ruolo importante nell’unire questa società diversa e multiculturale. Come spiega Ahmed, un egiziano espatriato: “Grazie al calcio ho conosciuto tanti amici di tante nazionalità. Ho amici dalla Tunisia, dal Ghana, dalla Giordania e, naturalmente, tanti egiziani! Attraverso il calcio si gioca con persone che altrimenti non si incontrerebbero mai. Si incontrano amici provenienti da luoghi e culture diverse. Questo è il potere del calcio”.

È un luogo comune, ma innegabilmente vero, che il calcio sia un linguaggio globale e che lo sport abbia il potere di unire le persone. Fahad, 19 anni, è nato e cresciuto in Qatar da genitori indiani. Era l’unica persona di origine indiana nel complesso abitativo in cui è cresciuto e non parlava arabo. Racconta: “Mi sembrava quasi impossibile avvicinarmi agli altri bambini e fare amicizia con loro. Ma c’era una lingua che parlavamo tutti, una lingua che poteva superare tutti gli ostacoli e le barriere della comunicazione, ed era la lingua del calcio! Il nostro comune amore per lo sport del calcio era sufficiente a superare tutti i confini linguistici. “Il calcio in Qatar ha avuto un ruolo importante durante la mia infanzia e ancora oggi. Per molti residenti e cittadini del Qatar, il calcio è uno stile di vita. Fa parte della nostra cultura ed è centrale nelle nostre vite”.

Stando a queste testimonianze pare chiaro, dunque, come la multiculturalità e la diversità del Qatar giochino un ruolo enorme nel delineare l’identità del Paese, sia in ambito sociale che sportivo.

Photo by ©Sirajul Islam

I diritti umani sono un tema bollente di questo Mondiale. Che idee vi siete fatti a riguardo?

Tutti noi abbiamo un’opinione sui problemi che il Qatar deve affrontare. Ma senza le voci delle persone che vivono nel Paese, la conversazione è incompleta. È chiaro che c’è ancora molto da fare, ma da quello che dicono molti dei testimoni, l’impatto della Coppa del Mondo è stato incredibilmente positivo. Mehreen, ad esempio, che ha visitato il Qatar per la prima volta nel 2007 e vi si è trasferita nel 2020, vi dirà che la trasformazione è stata fenomenale, non solo in termini di infrastrutture, ma anche per quanto riguarda la coesione comunitaria, le riforme del lavoro e le politiche sui diritti umani.

For Mehreen, the tournament has enabled the development of an enduring human rights legacy, which should in turn influence positive social reform in the entire region. Much has been said about the treatment of migrant workers – and clearly there have been (and still remain) issues – but if you ask Richmond Etse, an Electrical Technician working at EMCO, he has felt welcome in Qatar and is able to pursue his dream to buy a home for his family in Ghana, while rediscovering his passion for football. Likewise, Sirajul Islam – a Bangladeshi who moved to Doha in 2015 as a construction labourer – found new opportunities to gain a coaching qualification and is now training a team in the Bengali Community League.

Photo by ©Inamul Hasan Najeem

Dopo questo scambio di informazioni visive e testuali, la vostra percezione di questa Coppa del Mondo è cambiata? Se sì, in che modo?

Credo che Haya, a cui abbiamo fatto riferimento prima, riassuma tutto perfettamente quando dice: “A tutti piace credere che il proprio mondo sia quello corretto; ma chi può dire quale sia il mondo giusto?”.

Questa Coppa del Mondo sarà molto diversa dalle edizioni passate, non solo per il momento, ma soprattutto per la cultura del Paese che la ospita. Da ciò che raccontano i contributor pare chiaro che stia avvenendo un vero cambiamento e che molte opportunità stiano diventando più accessibili. Alcuni cambiamenti sono lenti, ma si stanno facendo progressi. Le donne e le ragazze del Qatar sono spesso alla guida del cambiamento e questo sarà uno dei maggiori lasciti del torneo. La verità è che leggendo la serie GOALS ci si può rendere conto di quanto l’impatto e l’eredità della Coppa del Mondo siano già molto più grandi di quanto molti si rendano conto. In molti dei precedenti Paesi ospitanti, il discorso sull’eredità tende a essere legato alle strutture o alla partecipazione. In Qatar, invece, stiamo parlando di un vero e proprio cambiamento sociale che è stato formalmente riconosciuto da Amnesty, Human Rights Watch e dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro. Si tratta di un dato incredibilmente forte, su cui bisogna riflettere.

Photo by ©Reem Al-Haddad

Creerete anche contenuti o eventi legati all’evento nelle prossime settimane?

Assolutamente sì. La mostra GOALS si terrà dal 16 novembre al 10 dicembre presso la Education City della Virginia Commonwealth University School of the Arts in Qatar. La mostra presenterà 120 immagini, oltre a audio, video, poesie e testi scritti ai tifosi che visiteranno il Qatar durante il torneo, ai media e alle persone che lavorano a tutti i livelli nell’industria dello sport.

Le storie di GOALS continueranno nel 2023 attraverso un programma rivolto allo sviluppo degli allenatori qatarioti. Il programma, della durata di un anno, sarà realizzato da The Sports Creative, che collaborerà con gli allenatori per co-creare attività calcistiche inclusive, supportate dallo storytelling. Attraverso il calcio, i partecipanti esploreranno temi chiave come l’identità, il patrimonio, la parità di genere e la diversità.

Credits: @Goal Click
Testi di Gianmarco Pacione


Another Championship

I campi portoghesi come riflesso del calcio mondiale

Dicono sia la terra del divino Cristiano Ronaldo. Dicono fosse la terra di Eusébio, l’uomo che sul prato verde riusciva ad essere contemporaneamente ‘Pantera’ e ‘Perla Nera’. Dicono. Ma questa terra in realtà non appartiene a uomini o profeti, non appartiene a individui o eroi, appartiene a un’entità superiore che si propaga paese dopo paese, cancha dopo cancha. Appartiene al calcio. Perché in Portogallo tutto ha una forma sferica. Ogni respiro, ogni pensiero, ogni parola, ogni panorama. Non importa se i tuoi occhi incrociano zone desertiche o aspri promontori, strapiombi oceanici o logori quartieri metropolitani: ovunque osserverai la sagoma rettangolare di una porta, ovunque percepirai il verbo della religione più profana e rilevante della società moderna.

Nel più estremo avamposto occidentale d’Europa lo sentirai chiamare ‘futebol’, in questi campi percepirai la presenza di azioni passate, di connessioni presenti, di presenze future. Scoprirai che il Portogallo è un esotico specchio del mondo: un mondo che è pronto ad accogliere, come ogni quattro anni, la più mistica celebrazione del pallone. Sono i Mondiali, sono l’esaltazione dell’elemento più cosmopolita ed eterogeneo della Terra, sono la concretizzazione calcistica di aspirazioni, culture e società, sono la trasposizione elitaria di tutto quello che nasce e cresce in questi piccoli sacrari ritratti dalla lente di Bruno Santos. Siamo in Portogallo, ma siamo ovunque. Siamo semplicemente nel calcio, in quella che Pasolini descriveva come “l’ultima rappresentazione sacra del nostro tempo”.

Credits: BrunoSantos.com
Text by Gianmarco Pacione


Behind the Lights – Alaric Bey

Il fotografo francese per cui non esiste vera fotografia senza comunicazione e contatto umano

“Quando ho lasciato il mio lavoro a Dubai per tornare a Parigi, ho deciso di pianificare un lungo viaggio nella vecchia Unione Sovietica. La mia ragazza è bielorussa, e volevo visitare dei Paesi che mi permettessero di migliorare il mio rapporto con la sua lingua. Ho scelto dei luoghi poco turistici, che mettessero alla prova le mie conoscenze linguistiche, dove pochi o nessuno parlavano inglese. Poi ho fatto lo stesso in America del Sud, dove ho allenato il mio spagnolo. Quando viaggi da solo hai bisogno di trovare una motivazione, un senso più grande. Per me quella motivazione e quel senso derivano dal miglioramento personale e dalla fotografia. In precedenza avevo sempre fatto il turista ‘normale’, osservavo i monumenti e non mi mettevo in gioco… Tutto questo mi faceva sentire in qualche modo incompleto e solo. E ho deciso di mettermi in una posizione completamente diversa, stimolante”

La lingua e la fotografia. Due forme di comunicazione che corrono su binari paralleli, ma che spesso s’intersecano tra loro, plasmando un connubio di rara importanza e bellezza. È il caso, per esempio di Alaric Bey. Le sue composizioni visive parlano ad ogni spettatore, raccontano storie di uomini e momenti, di luoghi dove il tempo pare cristalizzato, di sport millenari e incontaminati terreni rossi. La lingua per entrare in contatto, il dialogo per comprendere e, solo in un secondo tempo, catturare quello che si trasforma in molto più di un semplice scatto, diventando un profondo romanzo visuale popolato da esseri umani. Questo è il processo che accompagna l’opera documentaristica di questo trentenne francese. Nella propria quotidianità Alaric lavora nel mondo dei profumi, ma lo scorso anno ha deciso di abbandonare routine e ufficio per assaporare l’unicità asiatica e sudamericana con la macchina fotografica in mano.

“Ho sempre amato la street photography, mi è sempre piaciuto rubare scatti. Quando tutto è ordinato non mi convince. Devo sentire l’emozione, devo sapere di ritrarre qualcosa che non è replicabile, che immediatamente dopo il click è destinato a svanire per sempre. Ho iniziato a scattare con l’iPhone ed era facile, nessuno mi vedeva, nessuno mi notava. Con la macchina fotografica, però, tutto è diventato diverso: i soggetti non si fidavano, erano reticenti, e la mia Canon era sprovvista di un obiettivo professionale, quindi non potevo fotografare da lontano o in movimento. Così ho deciso di osare. Sono timido di natura, ma la paura non mi ha bloccato e ho iniziato ad avvicinarmi, a parlare, a presentarmi e ad ascoltare storie personali. Improvvisamente la gente ha cominciato ad aprirsi e a consentirmi di scattare. In quel momento ho capito la bellezza del rapporto tra dialogo e fotografia. In Moldavia, per esempio, ho aiutato una madre a trasportare del mais. Viveva in un villaggio disperso nel nulla e abitato solo da anziani, mi ha spiegato che tutti i giovani erano andati all’estero a cercare fortuna e che uno dei suoi figli era riuscito a laurearsi ad Harvard… Era sinceramente felice perché, nonostante il costante decremento demografico, i membri del villaggio sapevano e sanno che un’intera generazione sta trovando una vita migliore in giro per il mondo”

Kirghizistan, Kazakistan, Moldavia… I passi di Alaric nel cuore dell’ex URSS hanno tastato strade e contesti che non sono stati cambiati dal corso del tempo. La sua ricerca, ispirata dalle poesie visuali di Steve McCurry, si è concentrata principalmente su un secolo che sta rapidamente svanendo davanti alla globalizzazione digitale e ai flussi migratori: il Ventesimo. La sua Canon ha catturato testimonianze che presto diventeranno pagine di libri di storia, ma anche giochi tradizionali in grado di resistere a imperi ed evoluzioni tecnologiche, come il Kok-Boru.

“Ho letto di questo gioco per la prima volta nel libro ‘I Cavalieri’ del giornalista e romanziere Joseph Kessel. Lui l’aveva osservato in Afghanistan, io ho avuto la fortuna di ritrovarlo in Kirghizistan. È un antichissimo gioco mongolo, una sorta di football americano giocato con una carcassa di un agnello. I giocatori solitamente riempiono la carcassa con la sabbia, formano due squadre, e hanno come obiettivo quello di portare la carcassa nella meta avversaria (una zona circolare a forma di ruota). Questo sport è rimasto nel dna di molti popoli nomadi delle terre ex sovietiche. Ho chiesto al capo di un villaggio, una scheggia abitativa circondata da montagne, di organizzare una partita. La mia guida mi ha consigliato di stabilire un premio in denaro, in modo da far competere al meglio i giocatori, e ho cominciato a scattare. Questo gioco continua a rimanere uguale da migliaia di anni: è un qualcosa che mi meraviglia. Avrei solo voluto osservare di più la partita e fotografare di meno, era un momento così incredibile…”

E anche lo sport nella filosofia di Alaric diventa un mezzo di comunicazione e condivisione. In un italiano più che fluente, ennesima dimostrazione di un poliglottismo di alto livello, Alaric spiega di sentirsi un privilegiato e, contemporaneamente, ammette di non aver ancora completamente processato la dicotomia viaggio-vita reale a cui è stato recentemente esposto. Citando ‘Il Postino’ di Troisi e ‘La Grande Bellezza’ di Sorrentino, evita di definirsi esploratore, riferendosi a sé stesso semplicemente come a un fotografo che vuole mostrare la grandiosità della bellezza umana. Una bellezza che può essere ritrovata in una nebbiosa giornata degli Emirati Arabi Uniti, così come davanti ad una vecchia televisione di un villaggio mauritano e ad una scolorita partita della Francia. Una bellezza che questo giovane fotografo francese continuerà a cercare anche nella sua prossima fuga artistica, e non solo, in Estremo Oriente.

“La mia filosofia artistica è guidata in particolare da una frase pronunciata ne ‘La Grande Bellezza’: “È tutto sedimentato sotto il chiacchiericcio e il rumore, il silenzio e il sentimento, l’emozione e la paura… Gli sparuti incostanti sprazzi di bellezza”. Credo sia racchiuso tutto qui. E mi sento un privilegiato nell’avere la possibilità e i soldi per osservare questi sparuti incostanti sprazzi di bellezza. Molti di essi vengono prodotti dallo sport e dalle sue valenze sociali. Penso per esempio alle vogatrici inglesi che ho fotografato a Dubai. Spesso c’è molta nebbia in città, tutto diventa bianco. Ho fotografato alcuni dei giganteschi palazzi di centinaia di piani che venivano avvolti, come se fossero delle montagne, da questa coltre. Poi ho camminato per un po’ in mezzo a quell’atmosfera misteriosa e fantastica, e ho scorto quelle ragazze che si allenavano sulla barca… Sono un appassionato di sport, soprattutto di calcio. E il calcio è il miglior mezzo di comunicazione al mondo. Una volta mi trovavo in una zona remota della Mauritania e tutto il villaggio era riunito attorno a una televisione, erano tutti seduti su un tappeto per ammirare i Mondiali e mi hanno subito accolto tra loro. Anche in Oman, nel mezzo del nulla, ho visto persone che giocavano a calcio con vestiti tradizionali… Il calcio è magico. Ora sto organizzando il mio prossimo itinerario: l’anno prossimo andrò in Giappone per la mia luna di miele, non vedo l’ora di scoprire anche quella cultura”

IG: Alaric Bey
Text by: Gianmarco Pacione


Watchlist: The Chosen Few – Captains

Il documentario che mette a confronto 6 capitani, 6 culture e 6 sogni mondiali

È recentemente uscito il documentario ‘The Chosen Few | Captains’, prodotto in collaborazione tra FIFA e Netflix. Pierre-Emerick Aubameyang, Andre Blake, Brian Kaltak, Hassan Maatouk, Luka Modric e Thiago Silva sono i 6 protagonisti di questo viaggio tra spogliatoi, stadi e paesi completamente differenti, uniti dall’unico obiettivo della qualificazioni ai Mondiali qatarioti. C’è poco di superficiale all’interno di questa produzione che ci porta alla scoperta di culture calcistiche e intere società attraverso le testimonianze di questi capitani così differenti per pedigree e status.

Gabon, Giamaica, Isole Vanuatu, Libano, Croazia e Brasile: questa eterogenea selezione di luoghi e personalità ci consente di osservare il percorso mondiale con altri occhi, di comprendere le debolezze, l’orgoglio e le riflessioni che accompagnano questi uomini-simbolo d’intere nazioni. Questi focus, distribuiti su 8 puntate, danno eguale importanza a tutti i protagonisti e utilizzano l’elemento calcistico per descrivere dinamiche molto più ampie: dalla guerra dell’ex Yugoslavia e le tragedie degli ultimi decenni libanesi, alla bellezza di scoprire il mondo attraverso il pallone, partendo da un piccolo stato insulare dell’Oceania, dall’enorme desiderio di rappresentare una nazione africana e di vederla evolvere grazie all’esempio sportivo, all’effetto che i flussi migratori stanno avendo sui ‘Reggae Boyz’.

Ecco perché ‘The Chosen Few | Captains’ entra nella nostra Watchlist. Ecco perché questo prodotto deve essere assolutamente guardato prima del calcio d’inizio di Qatar2022.


Behind the Lights – Marie Pfisterer

La fotografa, creativa e surfista tedesca che nelle onde di Biarritz ha trova il senso di tutto

“Ogni volta che sono sulla tavola, penso sempre a quanto sia incredibile il surf, a quanto sia stato cruciale per la mia vita, per la mia evoluzione. Da quando ho iniziato a surfare tutto è cambiato. Il surf mi ha permesso di costruire connessioni con altri esseri umani, con altri creativi, mi ha permesso di esplorare il mondo, di plasmare il mio rapporto con la fotografia… E tutto questo ha trovato un senso definitivo a Biarritz, la mia attuale casa, la mia California, dove questi tasselli si sono incastrati”

Marie Pfisterer ha trovato nel surf più di una musa ispiratrice. La tavola, lungo il suo percorso artistico e umano, è diventata un strumento di esplorazione introspettiva e comunione collettiva, di serenità individuale e contaminazione reciproca. Nata nella Germania meridionale, a chilometri e chilometri di distanza da spot e tunnel oceanici, questa giovane artista delle onde ha incontrato per la prima volta il surf in Perù, durante un viaggio concepito al termine dell’esperienza scolastica. Quell’epifania l’ha poi portata a vivere in Marocco e Portogallo, a viaggiare alla ricerca dei luoghi perfetti per cavalcare gli specchi marini e a stabilirsi nella nota Biarritz, il paradiso acquatico dei Paesi baschi francesi, là dove creatività, communità e danza della tavola rimano allo stesso modo.

“Non potrei vivere senza surf, dopo qualche giorno d’inattività divento nervosa. Lì fuori, tra le onde, mi sento così libera… Il surf e la fotografia hanno un effetto benefico: in acqua non ci sono distrazioni, nessuno ti può chiamare, puoi disconnetterti dai problemi e dalle pressioni lavorative. Ogni volta che finisco una sessione ho la sensazione di essere una persona nuova. Biarritz e i Paesi baschi mi hanno anche dato la possibilità di scoprire un altro elemento meraviglioso, la montagna. Amo entrambi questi scenari naturali, perché ognuno di essi mi sfida, mi permette di dimostrare qualcosa a me stessa. A volte nell’oceano le correnti e le condizioni possono essere molto dure, lo stesso accade in montagna, quando per esempio devo arrampicare. Le sensazioni che provo sono differenti. In acqua penso poco, mi distraggo e mi sembra di fare una lunga, intensa doccia rigenerante. Quando corro o faccio un’escursione ad alta quota, invece, mi sento ispirata, mi vengono nuove idee, e dialogo profondamente con me stessa. Trovo particolarmente interessante come questi due elementi abbiano due effetti così diversi su di me… In generale penso che il contatto con la natura permetta di sentirsi bene. Stiamo perdendo questa connessione, spesso ce ne dimentichiamo, e mi sento benedetta dalla possibilità di vivere di fianco all’oceano, di essere costantemente circondata da questi contesti naturali…”

Contesti naturali, ma anche persone. Perché il surf vissuto e fotografato da Marie è anche il centro catalizzatore di un nutrito gruppo di creativi che, scatto dopo scatto, video dopo video, sono in grado di plasmare sempre nuovi e vibranti immaginari visuali. ‘Surfers Collective’ è il nome di questo ispirato collettivo e network di base a Biarritz. Le sue diramazioni estetiche, però, non si limitano alle coste della Francia sud-occidentale e, tramite multiformi produzioni, celebrano anche molto altro oltre l’arte della tavola.

“La fotografia può esprimere i tuoi pensieri, le tue emozioni, ciò che senti dentro ma non riesci a descrivere con le parole. Per me è sempre stato fondamentale incontrare persone e amici, comprendere i loro punti di vista, espandere il mio. Ho fondato questa piattaforma perché là fuori ci sono tantissimi artisti e creativi che non sono abbastanza conosciuti: parlo di fotografi, ma anche di registi, scrittori e tanti altri. Tutti si esprimono in modo diverso, proprio come i surfisti, ed è bellissimo farsi ispirare da queste differenze. Senza queste connessioni non mi sarei mai evoluta. E poi subentra quella competizione positiva, che ti spinge sempre a provare cose nuove. ‘Surfers Collective’ è la celebrazione di tutto questo, ed è vicinissimo al mio cuore. A livello personale ora mi sto concentrando maggiormente sulla produzione filmica. Se vuoi ritrarre il surf penso tu debba conoscere a fondo le onde. Un surfista sa bene che in acqua non si ripete mai una routine, sa bene in che posizione mettersi per catturare al meglio un momento specifico e sa come trovare uno spot sconosciuto e incontaminato: ricerca che affronto ogni giorno, soprattutto da quando il surf è diventato molto popolare”

“Fin da quando ero piccola ho avuto la fortuna di viaggiare. Mi hanno sempre attirato i posti sconosciuti, ricordo per esempio una produzione video con il filmmaker Aljaz Babnik girata su un’isola africana in cui eravamo le uniche persone bianche. Ora sono concentrata su questo nuovo progetto che si concretizzerà nei prossimi mesi: una spedizione femminile in Africa sotto forma di viaggio documentaristico. Non ci sono ragazze che viaggiano da sole. Noi vogliamo infrangere questo tabù e diradare paure o incertezze insite nella società contemporanea. Vogliamo mostrare quanto sia bello essere on the road insieme e ritrarre le storie delle persone, dei posti che incontreremo. Sono cresciuta con due fratelli, sono sempre stata abituata ad un mondo maschile. In molti viaggi ero l’unica donna inserita in un gruppo di uomini. Poi a Biarritz ho incontrato una fantastica community femminile e abbiamo pianificato insieme questo progetto. Ci siamo dette che avremmo potuto farlo da sole, spinte dalla nostre connessione, e penso che questo sia un messaggio molto forte. ‘GUTS’, questo il nome del progetto, porterà me e la giornalista italiana Patrizia Waz ad attraversare in tre mesi Marocco, Mauritania, Senegal e Gambia. Visiteremo e scopriremo Mamma Africa, saremo esploratrici offroad alla ricerca di onde, distanza da tutto il resto e, ovviamente, empowerment femminile”

“Ever since I was a child, I have been lucky enough to travel. I have always been attracted to unknown places, I remember for example a special film production trip with the filmmaker Aljaz Babnik to an African island where we were basically the only white people. Now I am focused on this new project that will materialize in the coming months: a women’s expedition to Africa in the form of a documentary trip. In the world there are not many girls traveling alone. We want to break this taboo and dispel fears or uncertainties inherent in contemporary society. We want to show how good it is to be on the road together and portray the stories of the people, the places we encounter. Growing up with two brothers, I was always used to a male world. On many trips I was the only woman included in a group of men. Then in Biarritz I met a fantastic women’s community and it inspired us to plan this project together. We told each other we could do it on our own, driven by our connection, and I think this is a very powerful message. The project is called ‘GUTS – a female expedition through Africa’ and it will be a 45min documentary along with a poetry book and photo journal. The project will be executed by me and my friend Patrizia Waz, a travel moderator and journalist from Italy. We will go three months through Morocco, Western Sahara, Mauritannia, Senegal and Gambia to explore Mama Africa as female offroad explorers – on the search for waves, disconnection and female empowerment.”

IG: Marie Pfisterer
IG:  surferscollective
Testi di Gianmarco Pacione


Montjuïc, il paradiso della pallanuoto

La macchina fotografica di Rich Maciver entra in un luogo mistico per gli sport acquatici

A Barcellona, sul promontorio del Montjuïc, esiste dal 1992 un paradiso degli sport acquatici. È la Piscina Municipale, originariamente creata per le celebri Olimpiadi catalane. Nel corso degli anni, questo specchio d’acqua affacciato sulla ‘città dei Conti’ è divenuto un tempio della pallanuoto mondiale. La macchina fotografica dello scozzese Rich Maciver ci permette di scandagliare questo spazio senza eguali e di entrare in contatto con i 320 atleti che hanno preso recentemente parte alla BIWPA Barcelona Water Polo Cup: una festa della pallanuoto agonistica che ha coinvolto 19 squadre provenienti da 6 Paesi differenti. Volti, dettagli, istanti di gioco e celebrazione si alternano in questo reportage popolato da cuffie, bracciate e panorami gaudiniani.

Credits: Rich Maciver 
IG @richmaciverphoto
Testi di Gianmarco Pacione


7 is more than just a number

Da Best a Ronaldo, e oltre. Manchester United e Adidas celebrano la legacy del numero 7

La numerologia è sempre stata una scienza irrazionale legata al calcio, capace di tratteggiare e definire figure leggendarie e miti senza tempo. Misticismo, identità, responsabilità. Ogni numero ha il suo significato, ogni numero ha la sua tradizione e il suo valore. Ad Old Trafford il numero per eccellenza è e sarà sempre il 7. Ecco perché Manchester United e Adidas hanno deciso di celebrare una legacy introdotta dal mancino tanto benedetto, quanto maledetto di George Best, raggruppando i 7 più iconici dell’immaginario Red Devils passato e contemporaneo.

Intelligence. Consistency. Skill. Speed. Speed of the mind. Score. Top left. Red. It’s got to be Red. 7.

Comincia con questa rapsodica composizione poetica il meraviglioso e intimo video prodotto nel Teatro dei Sogni del football mondiale. Da Bryan Robson a Eric Cantona, da David Beckham a Cristiano Ronaldo, per arrivare ad Ella Toone, prima donna a raccogliere e tramandare la magia del 7… Le testimonianze di queste figure chiave esaltano la potenza e l’influenza di quello che continua ad essere molto più di un semplice numero, descrivendo il suo rapporto con il popolo United, con l’universo calcistico e con la città di Manchester, descritta da ‘The King’ Cantona come luogo per eccellenza dei numeri 7: dove vige la legge della creatività, della libertà e della leggerezza.

Aneddoti e riflessioni. Ricordi e speranze. Gustate il video prodotto dalla sinergia tra lo United e il brand delle tre strisce per penetrare questa legacy destinata all’eternità.

Credits: Manchester United e Adidas
Testo a cura di Gianmarco Pacione


Kristina Schou Madsen, l’extreme running è un viaggio mentale e sensoriale

Dal Kilimangiaro alla foresta amazzonica, dai record alla filosofia, l’atleta danese che nella corsa trova la vita

“Mi sento fortunata, perché il running mi permette di visitare luoghi remoti di tutto il mondo. La componente naturale gioca un grandissimo ruolo in ciò che faccio. Quando corro di fianco all’Everest o nella giungla amazzonica, per esempio, mi sento completamente viva. Non potrei e non vorrei essere in nessun altro posto. Ho la sensazione di essere immersa in questa fantastica, quasi irreale, meraviglia naturale. Il fatto che tutto questo sia connesso con la corsa, con ciò che amo di più, dà un senso a tutto quanto”

Kristina Schou Madsen non è semplicemente una runner professionista, è una pioniera dell’extreme trail contemporaneo. I suoi rapidi e consapevoli passi l’hanno condotta in ogni latitudine del mondo, davanti a sfide impossibili e impensabili per tanti, in alcuni casi tutti, gli esseri umani. Dalla Danimarca ai giganti montuosi o desertici internazionali, passando per record mondiali come le 7 maratone corse in 7 giorni in 7 continenti differenti… Obiettivi utopici, traguardi impensabili. Eppure Kristina da anni sta provano a riscrivere la storia del podismo estremo: una storia che fino al 2008 non conosceva.

“Da piccola ho sempre giocato a calcio, poi ho fatto vent’anni di boxe. Solo nel 2008 ho corso la mia prima mezza maratona. È stata una rivelazione e nel 2013 ho partecipato alla prima extreme race, l’Everest Marathon: sono arrivata seconda e quella è stata la definitiva porta d’ingresso su questo universo sportivo. Un universo che è cambiato tre anni dopo, quando ho vinto la Jungle Ultra, una multiple stage ultra marathon nel mezzo della giungla amazzonica. Dopo quel risultato ho deciso di lasciare il mio lavoro di insegnante sportiva e mi sono completamente concentrata su questo percorso”

E l’epifania del running ha portato Kristina a scoprire e plasmare una nuova filosofia di vita, fatta di calcolo e sacrificio, di interminabili sforzi fisici e mentali, di competizione con gli altri e, prima di tutto, con sé stessa. Dedizione. Questo è il fulcro di uno sport che, nella mente di questa figlia prediletta di una culla di runner (su 10mila danesi, in media, 36 corrono maratone), si è fuso con la quotidiana esistenza.

“Il running è la mia vita. Quando corro mi rilasso, rifletto, partorisco nuove idee e, contemporaneamente, sfido me stessa, diventando fisicamente e mentalmente esausta. La corsa significa così tante cose… Per me è un mindgame continuo, che tocca ambiti diversi come la preparazione, l’alimentazione, la logistica, etc. So di non avere un corpo perfetto per questo sport, so di non essere geneticamente la runner perfetta, ma ho capito che tutti hanno la possibilità di diventare grandi in qualcosa: servono solo la passione, il lavoro duro e la conoscenza, ecco perché leggo un sacco di libri per migliorare come runner. Al momento sono l’unica danese che vive grazie all’extreme running. È un grande privilegio e spero di ispirare tanti giovani, spero di trasmettere loro l’idea che se desideri veramente qualcosa, puoi ottenerla”

Passione, lavoro duro, conoscenza. Per Kristina questi concetti prendono la forma di libri da leggere, della scientifica attenzione al riposo e, strano a dirsi, di momenti di relax familiare. È fondamentale concentrarsi sul momento che si sta vivendo, ci spiega questa atleta capace d’infrangere il record di scalata del Kilimangiaro, aggiungendo che le energie devono essere investite sì sulla performance, ma anche sul relax, evitando la contaminazione reciproca. Una formula magica che può anche sconfiggere il tempo, come dimostra Eliud Kipchoge, grande esempio e spirito guida di questa ultra runner.

“Puoi invecchiare, le tue capacità fisiche possono diminuire, ma atleti come Kipchoge dimostrano come si possa continuare a spingere sempre più in là i propri limiti. L’ultra trail è questione di mente. È la mente ad alzare la tua performance. Correre per me è un grande viaggio personale, dove posso continuare a scoprire chi sono io, la mia vera identità, ti permette di raggiungere una condizione di purezza. Quando sono lontana da tutti, in mezzo al nulla, mi sento risucchiata da questo enorme viaggio introspettivo. Durante una corsa può succedere qualsiasi cosa, l’importante è avere sempre il mindset fissato sul “può sempre andare peggio”. Quando mi sono persa nella giungla ho pensato proprio a questo. Ero prima in classifica e, un secondo dopo, non sapevo più dove mi trovassi… In quei momenti hai bisogno di strategie mentali, e tante di quelle strategie le ho sviluppate grazie alla boxe. Reagire lucidamente sempre, nonostante la gravità della situazione, questo è quello che mi hanno insegnato i guantoni”

Ora Kristina confida di non avere obiettivi a lungo termine, ma sta pianificando una duplice impresa senza eguali. Dal bollente deserto della Namibia al gelo svedese e polare: nei prossimi mesi il running porterà l’atleta danese a vivere quest’antitesi climatica e a partecipare a due gare totalmente opposte tra loro, unite unicamente dalla sfida tra corpo e lunghe, lunghissime distanze. “Non so dove posso arrivare, l’importante è porsi sempre nuovi traguardi”. Kristina ci saluta condividendo questa consapevolezza e svelandoci la volontà di raccontare questo suo infinito viaggio mentale e sensoriale attraverso l’inchiostro. E questo, ne siamo sicuri, sarà un libro da leggere.

Credits: Kristina Schou Madsen
Photo Credits: Jesper Grønnemark
Testo a cura di Gianmarco Pacione