Baseball, Sueños y Gloria

La República Dominicana raccontata dalla lente di Sofía Torres Prida

“Nel tempo mi sono sempre più interessata all’identità dominicana, la mia identità. Ho studiato oltreoceano, all’Università delle Arti di Zurigo e, una volta tornata a casa, ho deciso che avrei provato a studiare e raccontare la cultura del mio Paese e le sue ramificazioni. Ecco perché ho concentrato la mia attenzione soprattutto sul baseball”

Sofía Torres Prida è giovane, ma consapevole. È consapevole delle diramazioni della cultura dominicana, dei suoi capisaldi, della personale volontà di raccontare un popolo e i suoi costumi attraverso la propria lente. La Repubblica Dominicana è il baseball. Il baseball è la Repubblica Dominicana. Questa è l’equazione che Sofía spiega linearmente, introducendo ‘Sueños y Gloria’, ‘Dreams and Glory’, un viaggio fotografico che abbraccia tre generazioni di giocatori di baseball dominicani volati oltre confine, negli USA, per elevarsi sportivamente, ma anche per molte, moltissime altre ragioni.

“Il baseball fa parte della nostra identità. Sono cresciuta andando alle partite ogni settimana: era una sorta d’inconsapevole rito condiviso con amici e parenti, popolato da birre e cibo. Per questo progetto sono entrata in contatto con alcune fondazioni e ho scoperto quanto siano impegnati socialmente i giocatori dominicani che hanno avuto e stanno avendo la fortuna di giocare in MLB. Così ho iniziato a viaggiare e ad incontrarli, provando a capire perché restituiscano così tanto alle loro comunità d’origine. Le storie che ho ascoltato sono tutte molto simili: parlano di sogni, sacrifici, leghe minori e successi milionari. Ma tutte queste parabole sono accomunate da un qualcosa di più grande: il viscerale legame tra il baseball e il mio Paese, e tra coloro che riescono a diventare giocatori MLB e la loro patria”

Sofía delinea, esempio dopo esempio, vite che sono transitate dall’estrema povertà all’estrema ricchezza, grazie ad una mazza e un guantone. Racconta di biografie individuali che diventano biografie collettive, di bambini che diventano uomini sul diamante, restituendo ai luoghi e alle persone della loro infanzia quanto hit e run hanno regalato loro. Ma racconta anche di coloro che non ce l’hanno fatta, di tassisti e barbieri che hanno inseguito a lungo il sogno dei grandi stadi americani, senza mai raggiungerlo.

“In Repubblica Dominicana il baseball rappresenta una via di fuga dalla povertà. Non è solo uno sport, è un modo per cambiare le prospettive di tutta la famiglia. Mi è capitato di incontrare famiglie composte da 5 fratelli e, ad un certo punto della loro vita, tutti e 5 hanno investito tutto nella possibilità di diventare giocatori MLB. Oggi ci sono ragazzi che firmato contratti ultramilionari a 18, 20 anni, tanti ex giocatori mi hanno raccontato di come una volta la situazione fosse completamente differente tra segregazione razziale e contratti da 500 dollari al mese. L’impennata economica che ha subito l’MLB negli anni ’90 è andata di pari passo con la volontà di ogni dominicano di perseguire questa strada. Ora i giocatori non sono più atleti, sono celebrità, e sentono ancora più forte il peso del proprio Paese sulle spalle. Ogni dominicano li guarda. Ogni dominicano si ispira a loro”

Ma la ricerca socio-antropologica di Sofía non si limita al diamante. Prima di conoscere il proprio maestro fotografico Joseph Rodriguez, questa giovane fotografa documentarista ha anche esplorato le prigioni dominicane, così come Uptown Manhattan, Little Dominican Republic, scandagliando, come insegna il suo mentore, ogni manifestazione di una precisa identità, fatta di religione e superstizione, di valori condivisi e barriere linguistiche.

“Si possono trovare tracce della nostra cultura anche in prigione, così come nei playground di Uptown, dove tanti dominicani giocano a streetball. Il baseball è semplicemente la piattaforma più importante in cui i dominicani vengono rappresentati. Tanti di questi atleti mi hanno parlato dei loro primi tempi nelle minor league americane, quando erano costretti a vivere in casa con altri ragazzi, stando a stretto contatto per intere, lunghissime stagioni. Anche in quelle occasioni il modo di essere tipico dei dominicani veniva a galla: chi non sapeva cucinare puliva, e viceversa, ricreando una sorta di grande famiglia. Molti hanno mangiato per mesi e mesi hamburger o cibo messicano, perché nei ristoranti potevano comunicare solo in spagnolo… Sono anche aneddoti come questi che definiscono la cultura del mio Paese. Io continuerò a cercare queste storie e continuerò a raccontare l’identità dominicana”

Credits: Sofia Torres Prida
IG sofiatorresprida
Testo a cura di Gianmarco Pacione


Behind the Lights – Joseph Rodriguez

Il maestro newyorchese della lente che racconta l’umanità in tutte le sue sfaccettature

“Sono cresciuto a South Brooklyn, New York. Negli anni ’60 il quartiere era molto differente, era un piccolo villaggio multiculturale. Portoricani, italiani, ebrei, afroamericani e tanti altri vivevano fianco a fianco con i loro pregi, i loro difetti e le loro contraddizioni. Ho ricevuto un’educazione molto cattolica, non sono mai stato membro di una gang, ma ho comunque avuto problemi nelle strade. Sono finito in prigione a Rikers Island e quando sono uscito ho trovato il mio ‘perfect place’ grazie alla fotografia: un luogo dove potevo esprimere quello che sentivo, dove potevo ritrarre e condividere ciò che mi aveva sempre circondato, l’umanità”

Joseph Rodriguez non dovrebbe avere bisogno di presentazioni. Il suo portfolio è una sconfinata galleria umana capace di racchiudere evoluzioni sociali, intime biografie e indagini antropologiche prive di filtri o retorica. Questa leggenda della lente, oggi vulcanico 71enne dalla parlata lucida e ritmata, ha cominciato il proprio percorso artistico respirando la New York più criptica: una Grande Mela dalle mille sfaccettature, in costante equilibrio tra autodistruzione ed elevazione, hip hop e mafia, oblio e redenzione.

“La fotografia riguarda la cura degli altri. La fotografia è l’arte di ascoltare e non di prendere. Il primo compito che davo ai miei studenti della New York University era quello di scattare foto in metropolitana per una settimana: erano costretti a parlare con la gente, ad ascoltare, a diventare esseri umani migliori e, di conseguenza, fotografi migliori. Adesso tutti possono scattare una foto, tutti possono essere fotografi di strada anche solo con un iPhone. Ma è fondamentale comprendere il senso di ogni storia, dei soggetti e delle realtà che li circondano. Ecco perché quando scatto mi concentro sempre sugli occhi delle persone: c’è la loro anima, ci sono le loro storie, i loro sogni e le loro emozioni. Penso ad esempio a José Garcia, giocatore di baseball dominicano che cercava di farsi strada nelle leghe minori americane. José fa parte del progetto socio-documentario “New Americans”, prodotto in collaborazione con lo scrittore Rubén Martinez e incentrato sul tema dell’immigrazione negli Stati Uniti. Nei giorni trascorsi insieme i suoi occhi mi parlavano sempre di famiglia: i suoi sacrifici sportivi erano interamente dedicati ai parenti e al sogno di un futuro migliore. Anche lontano da casa era riuscito a ricreare una sorta di nucleo familiare, convivendo con altri ragazzi che condividevano le sue stesse speranze”.

Nella vivida testimonianza di Joseph Rodriguez, lo sport assume un ruolo denotativo della condizione umana, diventa un mezzo per scoprire società, culture, individui, e per dialogare con essi. Perché, ci dice, la fotografia è proprio questo, un continuo dialogo: un dialogo che prima Rodriguez ha sperimentato a bordo del suo taxi, atipico e obbligato set della sua serie d’esordio, poi in giro per il globo tra Svezia e Romania, Mauritius e Vietnam, Mozambico e Argentina… Nazioni, luoghi in cui i paradigmi di Brooklyn venivano confermati o smentiti davanti all’inesauribile sete di conoscenza della sua lente.

“Studiavo all’International Center of Photography e non avevo soldi, così ho iniziato a guidare un taxi per pagarmi l’università. Dentro quella macchina ho scattato il mio primo reportage. Poi ho fotografato praticamente ovunque: viaggiare mi ha permesso di aprire gli occhi, le orecchie, la mente e mi ha fatto rendere conto di quanto lo sport nella sua universalità sia un fondamentale strumento rivelatore. Nel bene e nel male. Ricordo per esempio il mio assignment in Argentina, nel 2001. All’epoca c’era un’enorme crisi economica e mi sono ritrovato in mezzo a dei ricchi borghesi che giocavano a polo a Punta del Este, una località turistica uruguaiana, durante il winter break. Poche ore prima avevo visto signore anziane in lacrime nelle strade di Buenos Aires, avevano perso tutto. Nel frattempo questi membri dell’alta società organizzavano feste e si rilassavano bevendo dell’ottimo vino. Al di là di questo aneddoto, penso che lo sport sia preziosissimo per la sua capacità d’infondere un senso di speranza unico e trasversale. A Malmö, in Svezia, ho seguito un bambino palestinese che ogni giorno si allenava metodicamente, sognando di diventare un calciatore come il suo idolo Zlatan Ibrahimović. Anche in questo caso si trattava di una storia su più livelli: questo ragazzo era figlio di immigrati musulmani e il successo calcistico nella sua vita assumeva un significato ben più ampio e complesso. A Portorico ho incontrato invece un giovanissimo pugile che viveva la maggior parte del tempo a contatto con il ring. I suoi genitori percorrevano molti chilometri ogni giorno per portarlo in palestra e vederlo allenare con la massima serietà. Attorno a lui, durante l’allenamento, si potevano vedere tantissime foto di leggende locali, intervallate da bandiere nazionali… Tutto era così carico di tradizione, di orgoglio, d’identità”

Tradizione e identità, ma anche rottura. Spesso le composizioni visuali di Joseph Rodriguez ci parlano di fratture interne al flusso sociale, incontrano le zone più buie e marginali di esso, ritraggono, senza giudicare, armi e droghe, così come rivoluzioni di mode e costumi. Tutto s’intreccia, a New York come nel mondo, ci spiega Rodriguez ricordando i tempi in cui parcheggiava il suo taxi per bere un espresso e godersi le prime battaglie tra B-boys. Citando giganti come Pier Paolo Pasolini, Letizia Battaglia, Federico Fellini e Mario Giacomelli, torna indietro nel tempo, pensando al suo background italiano, plasmato da sigari e bocce, così come dalle potenti famiglie Gallo e Canale, e dalla tragica epidemia dell’eroina.

“Le nonne italiane erano incredibili, controllavano tutto e tutti. Conoscevo le persone che erano legate a certe famiglie, quando ero giovane ci giocavo a basket insieme o lanciavamo i ferri di cavallo, perché non ci era concesso giocare a bocce. Purtroppo l’eroina ha distrutto tutto, ha creato una tensione enorme. Ci ho messo un anno a scattare le mie prime foto in casa di qualcuno. Uscivo ogni mattina alle 6, perché sapevo che i criminali a quell’ora dormivano e allo stesso tempo cercavo di appoggiarmi ai preti locali per entrare in contatto con più famiglie possibili. Era un processo di fiducia, dovevo far capire a queste persone che non era importante la mia vita, ma la loro, dovevo creare un rapporto intimo e profondo. Ci vuole tempo ed empatia per costruire un rapporto con chi vuoi documentare, per questo con i miei allievi cito spesso una battuta di Johnny Depp: “Are you a MexiCan or a MexiCan’t?”. Fortunatamente ho vissuto anche epidemie positive, come quelle dell’hip hop, del rap e delle sneakers. Sono state delle rivoluzioni incredibili, che hanno racchiuso la forza creativa e lo spirito competitivo di NYC. Ho sempre pensato alla mia città come ad una grande arena sportiva: tutti qui combattono per vincere, per realizzare i propri sogni, non per sopravvivere. È come un immenso playground dove devi ‘basketball your way’ per raggiungere l’eccellenza. Il mio sogno era diventare un fotografo e, ancora oggi, quando supero il Brooklyn Bridge, mi sento orgogliosissimo di averlo realizzato”

Joseph Rodriguez potrebbe parlare per giorni, forse settimane delle sue esperienze di vita. La sua testimonianza fiume pare una lezione cattedratica, una meravigliosa autobiografia da cui estrapolare quanti più consigli e strumenti per tradurre la realtà che ci circonda. L’importante è parlare di vita, di come sono gli esseri umani e di come riescono a coesistere. Questo è l’insegnamento più importante che ci dona questo maestro della lente, insieme ad alcune domande dirette che dovrebbero troneggiare sulle pareti di ogni fotoreporter in erba.

“I giovani fotografi devono capire che stanno vivendo nella storia. Devono porsi un semplice quesito: voglio veramente documentare tutto questo? Sono abbastanza affamato per farlo? Devono capire che la fotografia permette di raggiungere le persone, di toccarle. E devono capire che le persone possono cambiare. Almeno coloro a cui è concesso farlo. I detenuti che ho fotografato durante una gara di bodybuilding, per esempio, non possono farlo completamente. Li hanno ‘messi a dormire’, come diciamo qui, non si potranno più svegliare, perché staranno in carcere a vita. Tanti altri a cui vedevo impugnare armi trent’anni fa, invece, oggi sono padri e nonni con una vita normale. Sono autisti di bus e lavoratori, sono una maggioranza che i media evitano sistematicamente di menzionare. Io continuo a seguire queste persone, continuo a documentare le loro vite e a comunicare grazie alle mie piattaforme, continuo a mostrare esseri umani. E questo è ciò che mi ha sempre spinto ad amare la fotografia”

Credits: Joseph Rodriguez
www.josephrodriguezphotography.com
IG: @rollie6x6
Testo a cura di Gianmarco Pacione


Liberate Brittney Griner

Il gioco politico internazionale non può costare 9 anni di prigione ad una delle giocatrici più dominanti della pallacanestro moderna

Sta continuando nel peggiore dei modi il processo che coinvolge la stella del basket femminile Brittney Griner. A poco più di due mesi dalla sentenza di primo grado, la Corte d’Appello di Mosca ha confermato la condanna a 9 anni per una delle giocatrici più influenti del panorama cestistico WNBA e mondiale. Paiono sgretolarsi all’apice la vita e la carriera della texana classe ’90, vincitrice di due ori olimpici, un torneo NCAA, un titolo WNBA, quattro Euroleghe e, surreale a dirsi, 4 campionati russi.

Griner era stata fermata lo scorso 17 febbraio alla dogana dell’aeroporto Sheremetyevo di Mosca con 0,72 grammi di olio di hashish contenuti in alcune cariche liquide per sigarette elettroniche. Il centro di oltre due metri d’altezza stava tornando in Russia per proseguire la tipica annata ‘splittata’ in due stagioni, che vede molte giocatrici professioniste impegnate sia in WNBA, che nei maggiori campionati europei: in questo caso in quello Russo, con la squadra-potenza dell’Ekaterinburg. La difesa sostiene che Griner fosse in possesso di una prescrizione medica per l’utilizzo terapeutico di cannabis.

Figlia di un veterano del Vietnam, afroamericana dichiaratamente omosessuale, attiva sostenitrice dei diritti Lgbtq+ e della presidenza Biden, Griner più che apparire come una criminale, sembra semplicemente essersi trovata nel posto sbagliato al momento sbagliato: ovvero nel mezzo delle tensioni ucraino-russe e di un’apparentemente insanabile frattura socio-politica internazionale. Per questo il suo identikit è risultato da subito sinistramente ideale e funzionale per un’oscura partita a scacchi tra il Cremlino e la Casa Bianca.

Pedina di scambio, perseguitata internazionale, vittima sacrificale… La condizione di Griner è transitata rapidamente da quella di super atleta globale a quella di “ostaggio politico”, come dichiarato dalla moglie Cherelle ai microfoni CBS. Parole confermate dai numerosi contatti che da mesi stanno intercorrendo tra la Casa Bianca e il Cremlino. Sarebbe difatti il trafficante d’armi Viktor Bout, meglio conosciuto come il Mercante della Morte, l’altro pedone che garantirebbe la libertà alla due volte medaglia d’oro olimpica nella complessa scacchiera russo-americana.

“Brittney Griner, dopo un altro processo farsa, continuerà ad essere ingiustamente detenuta sotto circostanze intollerabili”, ha dichiarato il consigliere per la Sicurezza nazionale USA Jake Sullivan. Parole condivise pubblicamente dallo stesso Joe Biden, che ha richiesto il rilascio immediato di Griner e ha affermato che continuerà a lavorare fino a quando questa situazione non verrà risolta.

Inerme e al centro di questo delicato gioco di equilibri politici internazionali, Brittney Griner continua ad essere detenuta nei pressi di Mosca, impossibilitata a comunicare e, almeno per il momento, destinata a vivere i prossimi 9 anni in una colonia penale russa per una condanna che, stando alle parole dell’avvocato difensore Alexander Boykov, “non risulta essere in linea con il diritto penale russo”.

Griner nel frattempo ha trascorso il 32esimo compleanno in prigione ed è intervenuta in videoconferenza durante l’udienza di ieri, scusandosi per la propria ingenuità e dicendosi speranzosa di veder concludere nel migliore dei modi un “processo estremamente stressante e traumatico”speranza che per il momento si è infranta contro il muro invalicabile della cortina di ferro contemporanea.

Credits: Lorie Shaull, commons Wikimedia.
Testo a cura di Gianmarco Pacione


Giorni di fine estate

A Cadice, nella Spagna meridionale, i tuffi sono un rito che resiste al tempo

L’antica città di Cádiz (Cadice) è stata costantemente abitata per 3000 anni, ma nel 2022 sta affrontando un cambiamento significativo. È una città piena di contraddizioni: ha uno dei più alti tassi di disoccupazione di tutta Europa, contemporaneamente è però ritenuta una delle migliori destinazioni del Vecchio Continente, status confermato di recente dal New York Times. Questo luogo pieno di storia, circondato da alte mura difensive e da una costa scintillante, pare in un momento di enorme transizione, dovuta al turismo e a cospicui investimenti che stanno arrivando dopo anni di negligenza istituzionale.

Davanti a questo sfondo cittadino si staglia un’immagine costante. Fin da giovane ho assistito ad un rito annuale, sempre svolto nello stesso luogo. Ogni estate, sulla spiaggia La Caleta, gruppi di adolescenti si lanciano in mare dal ponte Fernando Quiñones, che conduce al Castello di San Sebastian. C’è una ristretta finestra temporale in cui è possibile tuffarsi: quando la marea è abbastanza alta da rendere il volo sicuro e tanto spettacolare da attirare piccole folle di adulti meravigliati. Le acque circostanti sono punteggiate da rocce e la precisione è essenziale per ogni salto.

La scena porta alla mente luoghi come Copacabana o L’Avana. È una suggestione dovuta ad abbronzature, corpi atletici e un panorama esotico, elementi che, però, non sono oltreoceano, ma nel sud della Spagna. Questi giovani non provano a ricreare mondi lontani, sono semplicemente ragazzi alla ricerca di un senso di sfida e libertà.

Negli anni possono essere cambiati costumi e tagli di capelli, avvitamenti e torsioni ora sono ritratti da iPhone di ultima generazione, e il mondo all’esterno di questo ponte si muove ad una velocità ben diversa, eppure quest’esuberanza giovanile, quest’atletismo e senso dell’avventura, questi corpi che penetrano l’acqua cristallina continuano e, speriamo, continueranno ad essere un punto fermo di Cadice. 

Credits: Juan Trujillo Andrades 
IG truli_photo
www.truliphoto.com
Testi di Gianmarco Pacione


Jeremy Okai Davis, l’arte come espansione individuale e collettiva

Il pittore ed ex cestista che, attraverso la serie ‘A Good Sport’, vuole riscoprire e condividere la cultura afroamericana

“Sono cresciuto amando due cose, l’arte e la pallacanestro. Specialmente durante la mia adolescenza questo era un parallelismo costante. All’high school ero sempre a contatto sia con gli atleti, ovvero i miei compagni di squadra, sia con gli ‘atipici’ del dipartimento d’arte. Era difficile combinare questa duplice vocazione, non riuscivo a trovare una completa definizione di me stesso e tenevo separati questi due mondi. Poi al college ho avuto una rivelazione: il basket era diventata una ‘bestia differente’, gli allenamenti erano molto più impegnativi e la mia passione non era abbastanza forte… Così, dipingendo nel mio dormitorio, ho capito che avrei fatto l’artista, il pittore”

I dipinti di Jeremy Okai Davis parlano di ricordi, di figure disperse nel flusso del tempo, spesso dimenticate come le loro gesta, come i loro significati, come le loro conquiste. Sono uomini e donne che hanno segnato indelebilmente la storia afroamericana, sono antichi profili che parlano di passato nel presente, di presente nel passato; sono soprattutto atleti che danno vita alla serie ‘A Good Sport’, attualmente esposta presso l’Elizabeth Leach Gallery di Portland (galleria che lo rappresenta).

Jeremy Okai Davis, Pearl (Walt), 2022, acrylic on canvas, 60 x 60". Courtesy of the artist and Elizabeth Leach Gallery. Image Credit: Mario Gallucci.
Jeremy Okai Davis. [Photo by Brittany Barkdull]
Jeremy Okai Davis, Black Gene (Benson), 2022, acrylic & pumice medium on canvas, 84 x 72". Courtesy of the artist and Elizabeth Leach Gallery. Image Credit: Mario Gallucci.

Per introdurre la filosofia artistica di questo giovane pittore nato in North Carolina e oggi di base a Portland, Oregon, bisogna necessariamente parlare del fortissimo legame con l’immaginario e l’elemento sportivo. Perché Jeremy ha il basket nel sangue. E non è un caso che il Gioco di James Naismith e i suoi protagonisti siano tra le muse più ritratte dai suoi pennelli…

“Sono cresciuto a Charlotte, dove mio padre faceva l’allenatore di basket. Lo seguivo agli allenamenti, vedevo con lui i videotape delle partite, osservavo per casa libri giganti di schemi e appunti… Fin da piccolo ho preso la palla in mano, spinto anche dall’esempio di mio zio Walter Davis (oro olimpico a Montréal ’76 e 6 volte All-Star NBA ndr) e di mio cugino Hubert Davis (ex giocatore NBA e attuale allenatore dei gloriosi Tar Heels di North Carolina ndr). In questo tipo di ambiente avevo la sensazione di dover diventare un atleta. Era scritto nella mia storia”

La storia di Jeremy invece prende una piega diversa, trovando nella tela, e non nel parquet, la vera vocazione. Una vocazione che custodisce per molto tempo nutrendosi di pop art e viaggi introspettivi. Una vocazione che abbraccia pienamente nell’anno da freshman, quando decide di abbandonare i canestri e di convogliare tutte le sue energie sulla tela.

Jeremy Okai Davis, Hawk (Connie Hawkins), 2022, acrylic on canvas, 28 x 20". Courtesy of the artist and Elizabeth Leach Gallery. Image Credit: Mario Gallucci.

“Ho cambiato college e mi sono dedicato unicamente all’arte e al graphic design, che a fine anni ’90 stava esplodendo. La pop art è stata la mia porta d’ingresso. Mi affascinavano i lavori di Warhol e Lichtenstein, di Rosenquist e Hamilton. Loro proponevano un qualcosa di accessibile a tutti, giocando sulla costante dicotomia tra produzione di massa e comunicazione metaforica. Chuck Close è stato un enorme punto di riferimento nella mia maturazione artistica, così come Basquiat, che ho imparato ad apprezzare nel tempo. Ma è stato Kerry James Marshall a ispirare la mia filosofia artistica: per me è fondamentale usare l’arte come strumento per educare, educare me stesso e, contemporaneamente, gli osservatori. È una forma di ‘each one teach one’ che permette un processo di espansione individuale e collettiva”

Jeremy Okai Davis, Untitled (Youth Football), 2022, acrylic on canvas, 36 x 36". Courtesy of the artist and Elizabeth Leach Gallery. Image Credit: Mario Gallucci.
Jeremy Okai Davis, Untitled (Cheer Squad), 2022, acrylic on canvas, 36 x 36". Courtesy of the artist and Elizabeth Leach Gallery. Image Credit: Mario Gallucci.

“Dal 2015 ho iniziato a concentrarmi sull’idea di scoprire ed evidenziare storie di personaggi afroamericani. I protagonisti di ‘A Good Sport’ possono essere atleti, ma anche scrittori, artisti, attivisti… Voglio far capire quanto sia stata multiforme e profonda l’incidenza degli afroamericani sulla società. Sento di avere un grande responsabilità. Uno dei miei quadri, per esempio, è dedicato a Bill Russell. L’ho dipinto prima della sua morte e per me ha un enorme valore: Russell è un’icona sportiva, ma è stato capace di trascendere questa condizione, diventando un’icona sociale. Le sue parole e le sue azioni sono state fondamentali, così come quelle di Jackie Robinson o di personaggi meno celebri, come il fantino Jimmy Winkfield, che ad inizio ‘900 fu costretto a scappare dall’America e a competere in Russia per pesanti problemi razziali

Artisti e atleti possono incidere sulla società in maniera analoga, precisa Jeremy prima di tornare sulle sue tele e su nuovi personaggi da ricercare e ritrarre. Nel caso dell’artista entra però in gioco il tema dell’astrazione, dell’opera che non rappresenta un punto di arrivo, ma un punto di partenza per dialoghi, conversazioni, riflessioni. Per l’arricchimento personale e comunitario. Come nel caso di ‘A Good Sport’.

Credits: Jeremy Okai , Elizabeth Leach Gallery , Mario Gallucci Photo
Testo a cura di Gianmarco Pacione


Edoardo Cartoni, Genova è la mia California

Le onde sono attesa, condivisione e introspezione, ci spiega questo artista del longboard

“Per me surfare equivale a danzare, ogni volta che sono in acqua è come se facessi un ballo con le onde. Odio la narrazione tipica del surf: sulla tavola non si cavalca e non si domina il mare. È lui a dominarti. Te lo fa capire molto chiaramente. La natura trova sempre il modo per sottolineare quanto sia incredibilmente potente…”

Edoardo Cartoni è giovane, giovane come la spensieratezza, giovane come la sensazione della tavola a contatto con l’acqua, giovane come la maturità. Suona strano? Non dovrebbe, perché dalle parole di questo poco più che ventenne traspare molto più di un banale approccio alle onde, di una filosofia vacua, fatta di ribellione standardizzata, insipidi video Instagram e luoghi comuni.

C’è una purezza rara nei ragionamenti di Edoardo, già campione junior italiano di longboard e riconosciuto all-arounder del panorama surfistico nazionale, c’è la purezza della conoscenza, dell’interesse, della pratica che sfocia in altri ambiti: come quello letterario, come quello fotografico, come quello educativo. Diramazioni che hanno trovato humus nella terra più underground e affascinante del surf italiano, nella città che fu ‘Superba’: Genova.

“La cultura del surf nella mia Genova ha radici antiche, si dice che già negli anni ’80 le persone uscissero in mare con le tavole. Leggenda narra che a Bogliasco ci fossero i primi surfisti d’Italia e che, attraverso il passaparola, questa pratica sia arrivata in città. Genova ha imparato a conoscere meglio il surf nell’ultimo periodo, grazie alla scuola Blackwave, la più grossa del Paese. Io faccio il maestro lì e mi rendo sempre più conto di quanto il surf rischi di essere una moda. Per me è sempre stato un qualcosa di estremamente personale, d’introspettivo… Per questo ai ragazzi non presento uno sport schematico e standardizzato, ma un elemento culturale. E quando vedo qualcuno che è realmente interessato, è come se un fuoco si ravvivasse dentro di me”

È un fuoco puro, che guarda di cattivo occhio l’eccessiva sportivizzazione di una forma d’arte nata come viaggio sensoriale e non come sequenza di gesti tecnici da valutare. È, soprattutto, uno stile di vita punteggiato di beach break e pensieri condivisi, di lunghe attese e persone preziose: concetti che rimandano a luoghi esotici e distanti, ma che vengono ricreati quotidianamente sul Mar Ligure, là dove Edoardo ha trovato il proprio tempio formativo e spirituale.

“La nostra è una condizione unica. Siamo sempre alla disperata ricerca delle onde, perché nella nostra zona non si trovano tutti i giorni. Credo sia una cosa molto romantica. Chiaro, all’estero è tutto molto più semplice e, ovviamente, strutturato, ma qui in Italia ho avuto la fortuna di conoscere tante persone che mi hanno ispirato e introdotto a questo mondo. Parlo per esempio di Alessandro Demartini, Matteo Fabbri, Davide Onorato e tanti, tanti altri. Praticamente tutti i miei amici hanno a che fare con il surf, tutta la nostra vita gravita intorno alle onde. Finiamo di studiare o di lavorare e andiamo in spiaggia, anche solo per ascoltare un po’ di musica e parlare tra di noi…”

Studente di Philosophy, International and Economic Studies, Edoardo sogna i cinque cerchi di Los Angeles 2028, dove il longboard sarà introdotto nel programma olimpico per la prima volta. Un obiettivo dettato dalla voglia di realizzazione personale, più che di riconoscimento pubblico.

Nel mentre appunta le sue riflessioni sul portale Tuttologic Surf e dà libero sfogo alla propria creatività insieme al collettivo GELOV, dove skate e surf s’incrociano con la produzione multimediale, regalando una nuova prospettiva sulla scena genovese. Esperienze, queste, che stanno ponendo le basi per un futuro professionale che pare già delineato.

“Se nasci e cresci a Genova devi costruirti degli stimoli. Con la community di GELOV creiamo contenuti in analogico e VHS, ritraendo quella che sentiamo come la nostra California. Tutti siamo da sempre appassionati di cinema e fotografia, così ho deciso di comprare una macchinetta a 10 euro in un mercatino e ho iniziato a scattare. Tommaso Pardini, Fabio Palmerini e Filippo Maffei sono dei punti di riferimento per la qualità delle loro composizioni, mi hanno permesso di capire quanto sia importante il timing nella fotografia-surf. Devo ammettere però che preferisco ancora entrare in acqua con i miei amici, piuttosto che fotografarli… Nei prossimi anni proverò ad allenarmi con più costanza, per puntare alle Olimpiadi di LA. È una sfida con me stesso, che va molto al di là di punti e podi. Si tratterebbe di una soddisfazione personale senza paragoni. Contemporaneamente voglio portare avanti il percorso di studi e le varie esperienze lavorative. In futuro voglio restare dentro il mondo del surf: non so se come scrittore, talent scout, promotore di progetti o chissà cosa… So solo che voglio restare a contatto con le onde”

Credits: Edoardo Cartoni
Testi di Gianmarco Pacione


Mike Rostampour: sostenere le donne iraniane vuol dire sostenere l’umanità

Abbiamo raccolto le parole di denuncia di un volto di spicco del basket e dello sport iraniano

È difficile penetrare la coltre di silenzi e irreperibilità che sta soffocando le maggiori personalità sportive iraniane. Nelle ultime settimane di proteste e sollevazioni popolari abbiamo letto le pesanti parole di Sardar Azmoun, il ‘Messi d’Iran’ che aveva utilizzato i propri canali social per sfogare la propria sofferenza. Oltre alle sue parole, poche testimonianze di atleti di alto livello hanno raggiunto i media internazionali. D’altronde non è facile esporsi, non è facile guidare con l’esempio una (necessaria) rivoluzione sociale che sta creando paura, dolore, sofferenza, morte.

Michael Rostampour ha deciso di farlo. ‘Mike’, nato nel Minnesota ma di chiarissima origine iraniana, è stato per lungo tempo un punto di riferimento della la Nazionale iraniana e un giramondo del basket (ha giocato, per esempio, in Slovacchia, Messico e Canada). Con il ‘Team Melli’, soprannome persiano della sua Nazionale, ha partecipato recentemente alle Olimpiadi di Tokyo e ai Mondiali cinesi del 2019. Ora sta per compiere 31 anni e, dopo aver vinto il primo titolo nazionale nella storia dello Shahrdari Gorgan, squadra dell’omonima città iraniana, ha deciso di lasciare il parquet e chiudere la carriera professionistica.

La sua testimonianza è un fondamentale atto di coraggio, è l’urlo di un uomo di sport conosciuto in tutto il proprio Paese, è una consapevole confessione che abbiamo avuto la fortuna di raccogliere.

Cosa sta succedendo nella società iraniana?

“Il popolo iraniano vuole la libertà. Ascoltate le voci nei video che girano sui vari media, ascoltatele bene e capirete cosa chiedono. Tutto questo è stato sotto la nostra pelle per tanti anni, ma oggi gli iraniani sono disposti a morire per la propria libertà. Non vogliono la fine di sanzioni internazionali, non vogliono un accordo nucleare. Vogliono la libertà. Un basilare diritto umano. Ecco perché ci si può schierare solo da una parte”.

Come mai questo desiderio di rivoluzione sociale è esploso solo nelle ultime settimane?

L’omicidio di Mahsa Amini ha colpito le donne di tutto il Paese. Quasi tutte, se non tutte loro hanno vissuto esperienze negative con la polizia della moralità. Sanno che tutto questo è possibile, lo sanno per esperienza personale. Ora si è creato un effetto a catena in tutto il mondo, non solo all’interno dell’Iran. Ovunque si stanno svolgendo manifestazioni per richiedere il rispetto dei diritti umani di base in Iran”.

Sei nato nel Minnesota, USA, e grazie alla pallacanestro hai avuto l’opportunità di viaggiare ed esplorare molti altri Paesi e culture. Come valuti le condizioni delle donne iraniane?

“Le donne del Medio Oriente hanno per distacco le peggiori condizioni di vita al mondo. Non è una novità. Iran e Afghanistan sono sul fondo di questa classifica. Queste donne desiderano vivere la loro vita come le donne europee o americane. Quanto è triste che gli uomini di questi Paesi permettano che tutto questo accada alle loro madri, sorelle, amiche, cugine e mogli? Dovrebbero provare un grande senso di vergogna. Se non sei a favore dei diritti delle donne, non sei a favore dell’umanità”.

Cosa significa essere un atleta iraniano oggi e rappresentare il Paese a livello internazionale?

“Non ha significato. Ora bisogna concentrarsi unicamente sulla richiesta del popolo iraniano di ottenere dei diritti umani basilari. Se sei un atleta, se rappresenti questo Paese, devi sentirti in dovere di parlare per coloro che sono senza voce. Le persone non sono stupide. Coloro che parleranno e si esporranno saranno ricordati per sempre, quelli che non lo faranno saranno dimenticati”.

Hai avuto modo di osservare la protesta della Nazionale di calcio iraniana e di ascoltare le parole della stella Sardar Azmoun? Cosa ne pensi?

“Come ho detto in precedenza, ci si può schierare solo da una parte: dalla parte dei diritti umani. I diritti che sta reclamando il popolo iraniano. Vestire la maglia del ‘Team Melli’ è il più grande onore che abbia avuto nella mia vita. Il mio coach mi ha sempre detto questa frase: “Noi giochiamo per il nostro popolo”. Oggi migliaia di miei connazionali vengono vessati nelle strade. Ho il dovere di parlare per loro. Rappresentare l’Iran ai Giochi Olimpici per me è stato un sogno. Ora devo fare la mia parte per far sì che il popolo che ho rappresentato abbia la possibilità di realizzare i propri sogni”.

Pensi che ci sarà un futuro migliore per le donne iraniane e che otterranno quello che stanno chiedendo?

“Assolutamente, senza dubbio. Può accadere oggi, domani o chissà quando… Ma la volontà del popolo iraniano alla fine si concretizzerà, come la storia ha sempre dimostrato”.

Credits: Ashkan Mehriar
Testi di Gianmarco Pacione


Il calcio non può più ironizzare sul tema del coming out

I tweet di Iker Casillas e Carles Puyol ci ricordano, ancora una volta, quanto il calcio debba evolversi

Il siparietto tra Iker Casillas e Carles Puyol, due leggende del pallone internazionale, ha riportato a galla un fiume carsico che, negli ultimi tempi, sembrava essersi fortunatamente prosciugato. “Sono gay, rispettatemi”, questo il tweet dell’ex portiere di Porto e, soprattutto, Real Madrid, che ha scoperchiato un autentico vaso di Pandora. Stando a quanto riportato dai media spagnoli, il tweet, immediatamente cancellato da Casillas, avrebbe dovuto e voluto essere una semplice battuta di cattivo gusto: una caustica replica alle voci che lo vorrebbero impegnato in una lunga serie di liaison dopo la separazione con la storica partner Sara Carbonero. L’ex portiere ha poi parlato di un hackeraggio del profilo, scusandosi con la comunità LGBT, ma non è riuscito a diradare la cupa nebbia di dubbi e polemiche scaturita dal destabilizzante statement. Nebbia alimentata goffamente dal compagno di Nazionale e rivale di club Carles Puyol, che ha prontamente replicato a Casillas twittando simpaticamente (almeno a suo avviso) “È il momento di raccontare la nostra storia”.

Questa tragicommedia social alla spagnola è sicuramente frutto di leggerezza e disattenzione, forse di un oscuro agente esterno, forse di una sfortunata serie di eventi. Forse. Eppure ci permette, ancora una volta, di riflettere su un tema che ritenevamo ormai superato. L’uscita “goffa e fuori luogo”, com’è stata descritta dallo stesso Puyol, tasta difatti un polso ancora vivo: quello di un calcio che non riesce ad adeguarsi al progresso e all’accettazione, ma che invece resta popolato da enormi tabù e da un retrogrado senso di repulsione verso l’eterogeneità sessuale.

“Vedere Iker Casillas e Carles Puyol scherzare e ridere sul tema del coming out nel calcio è deludente. È un viaggio difficile che ogni persona LGBTQ+ deve affrontare. Vedere delle leggende ridere di questo va oltre la mancanza di rispetto”, ha commentato il calciatore australiano Joshua Cavallo. L’anno scorso il terzino dell’Adelaide United era diventato l’unico calciatore professionista dichiaratamente omosessuale in attività. Pochi mesi dopo, il suo esempio era stato seguito in un altro continente da Jake Daniels. “I calciatori vogliono essere associati al concetto di mascolinità, di virilità e l’essere gay per molti equivale ad essere debole”, aveva dichiarato il giovanissimo attaccante del Blackpool ai microfoni Sky, divenendo il secondo calciatore omosessuale della storia calcistica britannica. Prima di lui solo Justin Fashanu nel lontano 1990 aveva annunciato oltremanica la propria orientazione sessuale al mondo. Alcuni anni dopo il proprio coming out, Fashanu venne ritrovato morto suicida in un garage londinese, al suo fianco una lettera citava: “Sono fuggito dall’Inghilterra per come mi ha trattato la gente dopo ciò che ho detto. Non voglio imbarazzare ulteriormente la mia famiglia. Spero che qualcuno lassù mi accolga: troverò la pace che non ho avuto in vita”.

Per questi e per molti altri motivi il calcio deve fare un ultimo, decisivo passo in avanti. I suoi protagonisti del passato, del presente e del futuro devono modificare una cultura plasmata da bomber e wags, da una mascolinità totalizzante, fondata sugli ideali di donna oggetto, di predazione seriale e derisione del ‘diverso’, di omologazione obbligata. Lo spogliatoio non può più essere terra d’insicurezze e silenzi, di limitazioni e dolore. I costumi e la mentalità devono cambiare, le consapevolezze devono cambiare. L’intero sistema deve cambiare. Perché ciò avvenga c’è bisogno del coraggio di chi, nel gota del calcio, non vuole aprire la propria condizione a tutti, per paura di vedersi emarginato o abbandonato. “Nelle squadre in cui ho giocato c’erano almeno due omosessuali a stagione. Si aprivano con me privatamente, ma non lo facevano pubblicamente”, ha affermato Patrice Evra di recente.

Ecco perché questa battaglia, questa rivoluzione può essere vinta solo attraverso l’esempio. Un esempio che, ad oggi, sta continuando a latitare nei paradisi del football, spuntando solo in serie minori o leghe poco conosciute e mediatiche. Un esempio che Iker Casillas e Carles Puyol, più o meno volontariamente, hanno evitato di dare.


Watchlist: Human Playground

Netflix ci porta alla scoperta del legame infinito tra l’uomo e il gioco

“Noi umani amiamo giocare, fin dagli albori della nostra esistenza. I nostri campi da gioco sono come specchi che ci aiutano a scrutare noi stessi e il mondo che ci circonda. Lo sport è il modo migliore per conoscere il proprio corpo e la propria mente. E sono gli sport più pericolosi a farci superare i nostri limiti. Sport impegnativi, dolorosi, addirittura letali, ci aiutano a scoprire ciò di cui siamo veramente capaci. Ognuno ha un motivo personale per sottoporsi a queste sfide”

Comincia con questa frase, pronunciata dalla profonda voce di Idris Elba, questo viaggio dedicato all’evoluzione del gioco e dello sport nel mondo. Antiche tradizioni e moderne diramazioni, deserti bollenti e rituali atavici, dolore e redenzione, asfalto e neve. In questa galleria antropologica ideata da Hannelore Vandenbussche e prodotta da Netflix, trovano spazio tutti i significati dell’elemento sportivo, tutti i suoi scenari, tutti i suoi più disparati protagonisti.

La docuserie, girata praticamente in tutto il globo, è una gustosa definizione visiva dell’Homo Ludens huizingiano divisa in 6 episodi. Ci racconta dei tuffatori di Acapulco, pubblicati nella Issue 7 del nostro magazine, come dei wrestler senegalesi, dei falconieri del Kirghizistan come della Parigi-Roubaix femminile, dei motorsport come delle arti del sumo e del kung fu, stilando una vasta enciclopedia del gioco in tutte le sue forme e derive.

Le testimonianze dei vari atleti/giocatori rendono questo prodotto ancora più rilevante e godibile, penetrando l’esperienza soggettiva e facendo comprendere cosa spinga un essere umano a perseverare nella sfida a sé stesso, all’avversario (anche animale) e all’elemento naturale. Per tutti questi motivi ‘Human Playground’ entra con grande merito nella nostra Watch List. Non perdetelo.


Yannick Noah, di tennis, musica e libertà

Dal Roland Garros ’83 al microfono. Grazie a Le Coq Sportif siamo entrati nel magico mondo di un mito del tennis divenuto cantante di successo

“Non si può separare la musica dal tennis. Non si può, perché sono profondamente connessi. C’è sempre ritmo in quello che fai, soprattutto se sei un tennista o, in generale, un atleta di primo livello. C’è ritmo nel modo in cui respiri, nel suono dei tuoi passi quando giochi sulla terra rossa, quando vai a rete. Chiudi gli occhi e prova ad immaginare quei suoni… Sono dei ta-ta-ta, sono le scarpe che scivolano… In campo il ritmo continua ad essere parte di te, a partire dal battito del cuore”

Yannick Noah muove prima delicatamente, poi incisivamente le mani mentre immagina accordi e note vissute sottorete. Pare parlare di spartiti, più che di campi centrali. Pare parlare di chiavi, più che di volée. È ancora alto, sorridente e affusolato, nonostante i 62 anni da poco compiuti. Sul balcone dell’Aspria Harbour Club, alle porte di Milano, propaga folate di Marlboro Gold e mistica gentilezza, lasciando fluire pensieri e associazioni illuminate, spargendole davanti a meravigliati ascoltatori.

Da tempo, ormai, l’intramontabile uomo simbolo e ambasciatore di Le Coq Sportif ha deciso di cambiare impugnatura, dedicando il suo esotico estro al microfono: una transizione epocale, che l’ha inaspettatamente condotto sulle vette di chart internazionali e classifiche Spotify. I suoi brani dalla chiara indole reggae, lanciati nel lontano 1991 con il primo album ‘Black and What!’, parlano di positività e bellezza, di condivisione e umanità, soprattutto di libertà. La stessa libertà teorizzata dal suo spirito guida Bob Marley.

“Ho appena concluso il tredicesimo album. La mia volontà è quella di essere sempre reale, onesto nei miei confronti e nei confronti di chi mi ascolta. Quando ho iniziato a cantare, probabilmente il 99% delle persone ha pensato che fosse una follia. Spesso, però, non si realizza quanto sia importante ascoltare la propria anima, le sue necessità. È successo tutto per caso, a inizio anni ’90, quando mi sono ritrovato dentro uno studio di registrazione e un cantante non si è presentato. Quel giorno ho iniziato a giocare un po’ con le parole e mi hanno subito chiesto di proseguire, poi mi hanno registrato e poche settimane dopo stavo girando il videoclip della mia canzone d’esordio. Dopo il tennis avrei potuto intraprendere una lunga serie di strade canoniche: aprire un negozio specializzato, fare solamente l’allenatore o il commentatore… Ma il mio istinto mi ha spinto a fare un qualcosa che mi avrebbe aiutato come essere umano. E la musica era quel qualcosa”

La musica come voce interiore da ascoltare in loop durante allenamenti e finali, come colonna sonora che, implicitamente, scandisce imprese e fallimenti. La musica come vocazione, come essenza, come centro gravitazionale. Noah ci fa intendere tutte queste sfaccettature, ci fa intendere come le note abbiano sempre fatto parte della sua vita: appigli melodici capaci di mutare nel tempo e nello spazio, di accompagnare prima l’esaltazione, la concentrazione, l’introspezione, poi la personale liberazione. Saltando di capitolo in capitolo, di esperienza in esperienza, il nativo di Sedan sottolinea con trasporto le infinite funzioni di questa forma d’arte, concentrandosi sulla più rilevante: quella terapeutica.

La musica mi ha dato la libertà. Ho lavorato per anni con psicologi che mi hanno instillato i concetti di forza, potenza, aggressività e killer instinct: fattori fondamentali per poter essere un atleta di alto livello. Quando finisci la carriera sportiva, però, questi punti di forza si tramutano in debolezza, in negatività. Durante quella transizione la musica mi ha salvato. Davanti alle note, linee e restrizioni sono magicamente svanite, ho capito immediatamente di poter essere sensibile, debole, di poter esitare e piangere. Quando ero un giocatore la maggior parte della mia vita era rock, in campo dovevo essere Mick Jagger e gli Stones, gli AC/DC e gli Who, dovevo convogliare nella racchetta quell’energia. All’epoca avevo una relazione profondissima con le mie cassette, ascoltavo musica di continuo. I vari tornei coincidevano con enormi momenti di solitudine, spesso ero malinconico, mi sentivo distantissimo dalla famiglia, dagli affetti… La musica era la mia compagna di viaggio, mi teneva in vita. Poi il rock è diventato reggae, è diventato lo studio dei testi, delle parole, e dal nulla si è spalancato tutto

Un tutto che Noah ha fatto proprio, colorandolo di radici culturali e affettive, di Francia e Camerun, di emozioni tenute recluse troppo a lungo, imprigionate davanti a milioni di spettatori che osservavano i suoi dread modernizzare il tennis. L’importante è trovare sempre una prospettiva positiva, è unire, afferma estaticamente il nativo di Sedan, è divulgare un amore che vuole essere paradigma collettivo per un nuovo, utopico mondo: una realtà contemporaneamente vicina e distante, a cui i suoi testi fanno spesso riferimento.

“Le mie radici sono in Francia e in Camerun. Due Paesi diversissimi tra loro. Sono cresciuto in una famiglia unica: mio padre era un simpaticissimo calciatore africano, mia mamma una bianca filosofa europea. Vedevo quanto si amavano, quanto erano legati, come condividevano lo stesso humour, lo stesso approccio ad un mondo esterno che non li vedeva di buon occhio. Questo amore mi ha fortificato, nel tempo mi ha fatto capire che il mio ruolo doveva essere quello di comunicatore: dovevo far capire alle persone che va bene essere differenti. Parlo del colore della pelle, delle caratteristiche dei corpi, dei luoghi di nascita… Io per esempio sono sempre stato un bianco in Africa e un nero in Europa, ma ho sempre vissuto bene questa duplice condizione, perché ero circondato dall’amore. Non è un caso che la mia prima canzone parli proprio di questo: del rapporto tra Yaoundé e Parigi, della possibilità di far convivere in armonia queste due città, questi due popoli, questi due continenti. Nella mia visione fa tutto parte di un grande, virtuoso processo”

E il processo formulato da Noah continua a pulsare, vitale e incisivo, come il suo tennis, come le sue parole. È una scalata ideologica, cominciata con l’esempio pratico, con il Roland Garros dell’83 e altre decine di tornei dominati fluttuando tra fondo campo e rete, con il polsino verde-rosso-giallo ad asciugare sudore e pregiudizi. È una marcia pacifista, composta da passi rimati e ponti vocali, destinata a proseguire e ad attecchire chissà in quale palco, in quale nazione, in quale individuo. È un melodico appello al cambiamento, che non vuole obbligare ma consigliare, che non vuole forzare ma ispirare.

“Ho fatto concerti di fronte a 50, 100 persone. Molti si chiedevano il perché. Per loro non aveva senso che cantassi di fronte ad amici e parenti, quando potevo fare match di esibizione davanti a migliaia di spettatori. In realtà tutto aveva senso, la mia vita aveva senso. Sentivo di essere uscito dalla monodimensionalità sportiva. Sentivo che ripartire da zero mi avrebbe permesso di essere ancora più vero nel mio approccio alla musica. Potevano mancare microfoni e elettricità, eppure mi veniva naturale dare un preciso significato a tutto: si trattava di una forma di preparazione, di purificazione, che adesso mi permette di essere un artista credibile, di cantare negli stadi, di far capire ai miei ascoltatori che amo quello che faccio. Lo amo visceralmente. Mi sono sempre detto che non importa vendere diecimila dischi o venderne un milione. Per me conta condividere pensieri, messaggi, emozioni. Per me conta condividere la libertà che mi ha donato la musica”