I diritti femminili contano più di un Mondiale

Il calcio iraniano si è schierato al fianco delle proprie donne, sostenendo un popolo in rivolta

“Nel peggiore dei casi verrò allontanato dalla Nazionale. Non c’è problema. Sacrificherei questo anche solo per un capello delle donne iraniane. Vergognatevi per aver ucciso così facilmente. Lunga vita alle donne iraniane”

Le parole di Sardar Azmoun, il ‘Messi d’Iran’ attualmente in forza al Bayer Leverkusen, hanno squarciato un velo di omertà divenuto ormai impossibile da sostenere. Il punto di riferimento della nazionale allenata da Carlos Queiroz ha utilizzato questo durissimo statement social per protestare contro l’omicidio della 22enne Masha Amini, uccisa, stando a ricostruzioni esterne agli apparati statali, dalla polizia religiosa iraniana per aver indossato impropriamente il velo.

The mass demonstrations that followed this event led to about 100 deaths and more than 1,500 arrests in the squares of Tehran and many other cities. The protests involved thousands of women who symbolically decided to remove their veils and cut off locks of hair. This wave of reactions led to the murder of one of the prominent faces of the popular uprising, 20-year-old Hadis Najafi, who was killed by six gunshots.

Il rumorosissimo silenzio degli sportivi iraniani è stato interrotto da Azmoun e, precedentemente, da una leggenda dell’intero calcio asiatico, il ‘Maradona d’Asia’ Ali Karimi. L’ex giocatore del Bayern Monaco e dello Schalke 04 ha invocato una presa di posizione attiva da parte degli oltre 12 milioni di follower. Strenuo oppositore dell’attuale governo, Karimi ha chiesto di diffidare delle bugie governative e ha supplicato l’esercito di evitare lo scontro con i civili. Ora Karimi è stato definito ‘rivoltoso’ da alcune agenzie filogovernative ed è tornato a rischiare per la propria incolumità, come già accaduto in molto altre battaglie sociali combattute, per esempio, a favore dell’ingresso delle donne negli stadi e contro il supporto statale a gruppi di milizie radicali in Libano, Iraq e Gaza.

L’erede Azmoun, insieme ai compagni di Nazionale, ha fatto seguire alle parole di denuncia un significativo atto dimostrativo. Poco prima della partita giocata contro il Senegal, l’undici di Queiroz ha coperto con giacche nere simboli e riferimenti al proprio Paese, inscenando di fatto un lutto collettivo. Azmoun è tornato ad esprimersi ieri, con un lungo post Instagram dedicato alla pallavolo femminile iraniana, elogiando le giocatrici per il coraggio dimostrato nell’affrontare e sovvertire quotidianamente tabù e pregiudizi. “Spero che le donne del mio Paese possano smettere di soffrire”, questa la chiosa del suo testo.

L’attaccante del Leverkusen in questo momento rischia seriamente la partecipazione ai Mondiali qatarioti: un sacrificio che, stando alle sue parole, sarà orgoglioso di fare per un bene più grande. Nell’Iran contemporaneo, d’altronde, paiono ben altre le questioni da affrontare e le partite da giocare. L’elite calcistica del Paese ha preso una posizione decisa in questo momento di precarietà sociale, ha preso le parti delle donne iraniane e dei loro diritti: a dimostrarlo anche l’oscuramento volontario delle immagini profilo di quasi tutti i membri della Nazionale. Voltando le spalle al pavido silenzio e all’omertà, Azmoun, Karimi e l’elite calcistica iraniana hanno dimostrato, ancora una volta, come lo sport e gli sportivi possano essere il più potente strumento d’ispirazione, di conforto e di trasmissione di coraggio collettivo: coraggio che, ad oggi, non sappiamo dove potrà condurre.

Youtube
Testi di Gianmarco Pacione


Carla Calero, lo skate come arte terapeutica

La skater spagnola che vive la tavola come forma di espressione collettiva e di equilibrio personale

“Lo skate mi aiuta, mi permette di trovare un via di fuga quotidiana, di entrare ciclicamente in un mondo in cui posso essere costruttiva e non distruttiva, in cui posso alleviare il mio costante rapporto con la depressione. Credo sia importante parlarne, credo sia importante condividere un argomento così delicato, anche per comprendere le tante, tantissime funzioni di questa forma d’espressione personale”. Esistono spot fisici e spot mentali, esistono run e trick che trascendono da video e condivisioni, da risultati e notorietà, divenendo piattaforme mobili in cui calmare i propri pensieri, in cui ricaricare la propria essenza, in cui tramutare l’adrenalina in armonia.

Carla Calero ne parla con una naturalezza non scontata, che sa di sincerità ed esempio, di flip e manual, aprendoci le porte di una passione che sta segnando molto più delle sue giornate parigine, di un passatempo che è rapidamente diventato cultura, identità individuale. In fondo è tutto un gioco di equilibri, ci lascia intendere questa giovane skater di origine spagnola, è un gioco di complessi, aspri equilibri da gestire sulla superficie dell’asfalto, così come nelle profondità emotive. “Questo non è un semplice sport. La tavola mi aiuta ad uscire di casa quando non voglio farlo, mi permette di esprimere ciò che sono. È un modo di pensare che si applica alla vita: non molli mai, continui a provare, a volte fallisci, ma continui fino alla fine di ogni giorno”.

Una filosofia che comprende e coinvolge gli ambiti più disparati, dall’arte alla musica, dal fashion alla fotografia: universi che s’intrecciano di continuo nell’ironico immaginario di questa skater. Una filosofia che, soprattutto, non ha volto o nazione, come spiega Carla stessa, mettendo in rima viaggi e connessioni umane: “Sono stata in moltissimi posti grazie allo skate, grazie alla rete di rapporti che mi ha permesso di costruire in giro per l’Europa. Da Helsinki a Londra, per arrivare qui, a Parigi… In fondo si tratta sempre di condividere e diffondere una cultura, una mentalità. Una decina di anni fa ho iniziato per questo motivo, grazie ad alcuni amici che mi hanno spinto a provare. In quei primi momenti ho provato una grande sensazione di gioia, di benessere, e non ho più smesso”.

Cresciuta a Madrid e divenuta presto giramondo, Carla oggi vive in comunione con le strade, con i loro vuoti e pieni geometrici, con scalinate e panchine che prendono le sembianze di pagine bianche su cui poter incidere movimenti, suoni, creazioni. Incarna un antico spirito di ribellione, quello teorizzato nella California di metà Novecento, lasciandosi influenzare dalle testimonianze altrui e, contemporaneamente, influenzando con i propri gesti, con la propria, quasi inconsapevole, forza. “Sulla tavola mi sento a mio agio. Non ho uno spot preferito, perché ogni spot popolato da belle persone e circondato da un clima piacevole, diventa automaticamente quello perfetto. Trovo che una delle cose più appaganti dello skate sia osservare l’evoluzione delle persone che mi sono vicine. Vederle iniziare, migliorare e poi, d’un tratto, rendermi conto che… Thery’re killing it! Parlare delle loro vite, dei loro sacrifici, del loro rapporto con lo skate, mi aiuta a crescere, ad amare di più questa cultura”.

This project is supported by CAT WWR
Skater Carla Calero
Photography Rise Up Duo
Video Riccardo Romani
Testi di Gianmarco Pacione


Fight Dreams in Tulum

La Muay Thai è un sogno e una sfida quotidiana

Christina Belasco ha seguito la fighter di Muay Thai Jeannie Nguyen durante il mese di preparazione al suo primo match internazionale tenutosi a Tulum, Messico. Jeannie ha poi vinto l’incontro con un convincente TKO al secondo round. Quest’atleta californiana ora vanta un record di 10-3 e ha abbandonato il suo lavoro full-time per concentrare tutti i suoi sforzi sul sogno di diventare pro. Combatte e allena presso il Thai Boxing Institute di Mar Vista, Los Angeles. Questo reportage è un tuffo nella sua vita.

Sono le 17.00 a Tulum e il cielo si riempie di una luce dorata, mentre il sole inizia a tramontare. L’aria è densa e tropicale, Rumble in The Jungle sta iniziando e i primi fighter attraversano le corde, salendo sul ring. Anche Jeannie Nguyen. Jeannie è una lottatrice dilettante di Muay Thai femminile e ha raggiunto Tulum per il suo primo combattimento internazionale.

La Muay Thai è un’arte di combattimento che utilizza calci, ginocchia, pugni, gomiti e clinch, per questo viene definita l’arte delle otto armi. Quest’arte ha avuto origine in Thailandia nel XIII secolo, durante la dinastia di Sukhothai, e ha una cultura ricca di tradizioni e sfumature buddiste.

A prima vista la Muay Thai può sembrare uno sport da combattimento feroce, ma basta penetrare la sua cultura per rendersi conto di quanto, in realtà, questa disciplina sia intima e profonda. I momenti che precedono il combattimento sono caratterizzati da una silenziosa tensione che si trasforma in un ruggito, in una bellissima danza che sì, è anche brutale, ma soprattutto piena di ritmo, potenza e flow.

Non è un caso che Jeannie parli del suo rapporto con questo sport utilizzando una prospettiva che sa d’interiorità, che faccia riferimento alla purezza del proprio cuore come strumento fondamentale per approcciare il ring. “Si tratta di gratitudine, di celebrare il punto raggiunto nel proprio percorso di fighting. Non si tratta di dimostrare il proprio valore, di avere un grande ego, in generale di sprigionare qualsiasi emozione negativa…”.

Questa mentalità non solo permette a Jeannie di rispettare profondamente le sue avversarie, ma le dona anche una chiarezza mentale e una fiducia interiore che, inevitabilmente, finiscono per aiutarla in ogni prestazione. “La sensazione migliore è quando sul ring si riesce ad entrare in un flusso. Non sei in preda al panico, sei concentrata, analitica e in grado di usare tutte le tue armi”, confida.

Jeannie ha vinto il suo incontro a Tulum per TKO al secondo round, dominando l’incontro grazie al suo clinch. Il suo record è ora di 10-3 e ha in programma di gareggiare a Phoenix, in Arizona, agli US Muay Thai Open Championships.

Ph & text by Christina Belasco
IG @belascophoto
Atlhete Jeannie Nguyen
IG @jeanjeanjeannie


Watchlist: ‘América vs América’

La serie Netflix che danza tra storia e presente del leggendario Club América

“En momento como este es cuando dices: ah que bonito es el fútbol, porque es un deporte donde la imaginación justifica los resultados”. Immaginazione e risultato. Mistica e razionalismo. Elementi apparentemente così distanti, eppure così compenetranti nell’universo calcistico messicano. Per osservare la serie Netflix ‘América vs América’ bisogna essere consapevoli di questo concetto, soprattutto bisogna essere consapevoli di non trovarsi di fronte ad un semplice documentario sportivo, ma a qualcosa di più complesso.

Questa produzione è difatti un viaggio nella società messicana, nella sua evoluzione lungo il XX secolo, è una lente d’ingrandimento sul formichiere umano di Città del Messico, terra di equilibri politici ed economici, d’istrionici imprenditori e tifosi passionali, è l’insieme di folcloristiche biografie e geniali soprannomi: filoni narrativi che convogliano continuamente e irrimediabilmente nella mitica divisa azulcremas del Club América.

Da ‘Canarios’ a ‘Aguilas’, da squadra minore a top club continentale. Grazie ad un convincente dualismo tra passato e presente, le sfaccettature del Club de Fútbol América vengono rappresentate in quella che pare una novella uscita dalla penna di Osvaldo Soriano. O meglio, una telenovela. Già, perché la moderna grandezza delle ‘Aquile’ deve tanto, se non tutto, al re delle soap opera e delle televisioni messicane: Emilio Azcárraga Milmo, affarista che nei primi anni ’60 raccolse il Club dai bassifondi della Primera División, cambiandone per sempre la storia.

Saltando tra la costruzione del monumentale Estadio Azteca, anch’essa finanziata e voluta dal ‘Tigre’ Emilio Azcárraga Milmo, e focus contemporanei dedicati alla turbolenta panchina dell’elegante Santiago Solari o a quella dell’irascibile ‘Piojo’ Herrera, ‘América vs América’ è un gustoso compendio di un’esotica e folle storia di calcio, un romanzo visivo che merita di far parte della nostra Watchlist e di essere assaporato in tutte le sue sfumature.


Il Wild Wild Est ungherese

Il rodeo sta attecchendo nel cuore dell’Europa, grazie ad una famiglia di allevatori

8 secondi. È un arco temporale insignificante della vita, ma ci sono momenti in cui 8 secondi durano un’eternità: per esempio sul dorso di un toro di 800 chili. Chiunque abbia provato a cavalcare un animale così grande sa come ci si sente quando il mondo esterno cessa di esistere e il tempo diventa un concetto incomprensibile.

La pratica del rodeo, che notoriamente negli Stati Uniti dà vita ad eventi televisivi nazionali con alti premi in denaro, in Ungheria è ancora agli inizi, ma ogni anno affascina sempre più persone grazie a una famiglia di entusiasti locali.

Una bandiera a stelle e strisce sventola sulla roulotte e un cowboy è seduto accanto ad essa. Il caldo è insopportabile, le balle di paglia fissano il cielo ammucchiate accanto alla strada polverosa, le ragazze con camicie a scacchi e cappelli da western calati sugli occhi passeggiano per il ranch. Gli atleti sono in piena tenuta da battaglia, alcuni di loro fanno il segno della croce, mormorano una rapida preghiera. E dopo essersi guardati intorno, osservano con soddisfazione l’arena che si riempie lentamente. I clown, gli steward che aprono i cancelli, i giudici e l’annunciatore sono al loro posto, il primo toro è già in attesa che le danze abbiano inizio.

Se pensate che ci troviamo in qualche sperdute zona del Texas, vi sbagliate. Il luogo è l’Hell on Hooves Ranch di Monorierdő, nella contea di Pest, in Ungheria, dove si sta svolgendo il secondo round della competizione di bull rodeo di quest’anno, organizzata dall’Associazione Rodeo Ungherese. L’Associazione organizza da anni competizioni nazionali e internazionali in Ungheria e in Europa centrale.

Nel 2022 si sono tenute due gare, una a Nagytarcsa e l’altra a Monorierdő. Sono arrivato per la prima volta 5 anni fa con una buona dose di dubbi, unita ad un entusiasmo e una curiosità infantile. All’epoca il padre del rodeo ungherese e attuale presidente dell’Associazione József Nádori (alias Tyuxi) mi ospitò nella sua tenuta. Lui e la sua famiglia si occupano di allevamento da oltre venticinque anni: hanno iniziato con i bovini, poi è arrivato il Quarter Horse.

Il rodeo è stato una sorta di sogno d’infanzia per Tyuxi: l’immaginario spaghetti western ha dato l’impulso e il sogno è diventato realtà più di 10 anni fa. L’organizzazione non è stata facile, questo sport ha difatti una grande tradizione negli Stati Uniti, ma in Europa è praticamente sconosciuto. Non è un caso se Tyuxi e la sua famiglia hanno dovuto raccogliere informazioni da internet e da articoli di giornale per poter avviare l’intero progetto…

Tyuxi proudly tells me that the number of spectators increases by 20 percent every year. He is the happiest about the fact that the show is spreading by word of mouth and the popularity of the sport is growing. Today, the number of riders increased to about a hundred. And to the skeptics, he can only say one thing: come and see that they are indeed capable of organizing high-quality competitions, here, in the heart of Europe – no need to travel to Texas.

Credits: István Fekete
istvanfekete.com
IG @istvanakosfekete


Nuove Arene

Attorno allo sforzo atletico tutto cambia senza cambiare, ci spiega il progetto fotografico di Massimiliano Camellini

Cosa emerge dal buio di una moderna arena? Un elmo, un casco. Un momento di trasfigurazione individuale, una sessione di condivisione collettiva. Antichi materiali per nuovi strumenti di gioco. Legno lavorato che sfiora piccole sfere nere, che le accudisce, che la accompagna prima dolcemente, poi violentemente, verso un terra promessa fatta di cotone incrociato e gioie passeggere.

La pellicola fotografica s’imprime di tensioni muscolari ed emotive, di corpi che fluttuano silenziosi su rumorose rotelle, caricandole di forza e velocità. Sono movimenti morbidi e circolari, diretti e violenti. Sono ombre di azioni passate e presenti, di imprese e fallimenti che tornano e ritornano, qui e ovunque, come cicliche funzioni purificatrici. Scatto dopo scatto, gladiatori dell’oggi incrociano le loro masse, i loro bastoni, le loro visioni, finendo per generare duelli senza tempo, senza volto.

Cosa emerge dal buio di una moderna arena? Una sfida personale che mai ha smesso di prendere forma, che mai smetterà di farlo. Dalle sabbie striate di sangue, dai clangori di spade dell’antica Roma, all’hockey affrescato in un anonimo palazzetto di provincia, passando per uno spettro infinito di sforzi, sfide, obiettivi. Ogni volta una nuova introduzione. Ogni volta un nuovo epilogo. In attesa di un futuro prossimo o lontano, in attesa di una nuova arena da popolare.

Credits: Massimiliano Camellini
massimilianocamellini.org
Testi di Gianmarco Pacione


Il Liverpool è vita

Baci, affetto e Dua Lipa: viaggio visuale tra gli ‘Scousers’ in occasione dell’ultima finale di Champions League

La finale di Champions League. Uno dei più imponenti eventi del mondo sportivo (e non solo) contemporaneo, un caotico insieme di energie fisiche ed emotive, di sfumature antropologiche e sociali. La macchina fotografica di MT Kosobucki ha voluto ritrarre tutte le complesse componenti di questa maestosa celebrazione calcistica, ha voluto studiarle e sviscerarle tra le vie di Parigi, cristallizzando il lungo pomeriggio che ha anticipato le turbolenze del Parco dei Principi e l’1-0 dei ‘Blancos’ madridisti ai danni del Liverpool e del suo popolo ‘Scousers’.

Proprio gli ‘Scousers’ sono i protagonisti di questo reportage visuale. Uomini che nell’immaginario comune rappresentano l’epitome della cultura hooligans, ma che agli occhi di questo giovane fotoreporter americano hanno rappresentato molto altro. Nato e cresciuto in un ambiente calcistico (strano a dirsi per un ragazzo d’oltreoceano), MT racconta con queste parole la sua esperienza parigina.

“Ero a Parigi per un Master in fotografia. Un mio amico danese, compagno di squadra al college e tifoso del Liverpool, mi ha proposto di goderci la fan zone durante il prepartita. Sono un tifoso del Chelsea, ma ho deciso di accettare per vivere quell’evento unico. L’ingresso alla fan zone avveniva tramite un piccolo gate, alcuni tifosi del Liverpool provavano a fare domande ai poliziotti locali che o non rispondevano, o parlavano francese. Si respirava già un po’ di quella tensione che sarebbe scoppiata a distanza di qualche ora, c’erano brutte vibrazioni. Dentro la fan zone cambiava magicamente tutto. C’era un’energia pura, innocente, quasi infantile, che sprigionavano migliaia di uomini di mezza età. Mi hanno colpito gli abbracci, i baci sulle guance sulle note di Dua Lipa… I limiti e i tabù della mascolinità in quel contesto parevano azzerati. Non voglio sembrare disincantato, so bene che attorno a quel contesto saranno sicuramente accadute altre cose, ma io ho fotografato quello che ho visto. E ho visto uomini ubriachi di eccitazione, capaci di abbattere barriere comportamentali ultrasecolari con gesti di affetto così naturali e così potenti. Così come ho visto una gitana chiedere l’elemosina nel mezzo della grande festa ‘Reds’: la metafora visiva ideale per descrivere gli enormi flussi economici legati alla Champions League e, in generale, al calcio europeo. Nel tempo che ho trascorso in Europa ho compreso la differenza tra le fandom dei major sport USA e quelle delle squadre del Vecchio Continente. La mia prima partita è stata al Vicente Calderón di Madrid, poi sono stato varie volte allo Stamford Bridge: qui non c’è separazione tra la vita normale e il proprio club, negli US l’evento sportivo è una fuga dalla quotidianità, qui la tua squadra è la quotidianità, è la vita. E gli ‘Scousers’ sono un esempio perfetto di questo concetto”


Miko Lim, piccole storie per raccontare grandi mondi

Il regista e fotografo americano che con pubblicità, film e documentari sta segnando l’immaginario sportivo contemporaneo

“Per me si tratta di raccontare e di mostrare grandi mondi attraverso piccole storie”, ci confida Miko Lim dal suo studio di LA, rendendo manifesto il più segreto, eppure accessibile, degli ingredienti che hanno fatto ammirare, oltre che dilagare, le sue produzioni su smartphone, computer e grandi schermi di tutto il mondo.

Miko ci parla di piccole storie umane prima, sportive poi, che narrano di condizioni ben più ampie e trasversali. Ci parla di poesie visuali, ambientate in affascinanti spazi indoor e sublimi panorami outdoor. Ci parla di lenti che si addentrano nel flusso atletico ed esistenziale per estrapolarne dei paradigmi comuni, o per ispirarli. “Mi piace pensare di fare cose che nessuno ha ancora fatto”, confida il due volte Clio Award, riconoscimento consegnato a chi riesce a rendere le pubblicità opere d’arte, “L’importante è partire dalla curiosità, da ciò che più mi interessa del soggetto che sto ritraendo. Questa è la base di tutto e si collega alla volontà di trovare sempre prospettive nuove, alternative…”.

Alternativa è sicuramente la carriera di un visionario che da tempo sta marchiando a fuoco l’immaginario sportivo globale. Un artista a tutto tondo che, pur avendo da poco superato i quarant’anni, può già vantare una lunga serie di spartiacque lavorativi e svolte personali alle spalle. “A vent’anni ero uno studente di Medicina a Los Angeles, dovevo diventare un dottore. Tutti attorno a me trattavano il corpo umano come una macchina. La filosofia era: se lo ripari va bene, se non lo ripari lo butti. Mi rendo conto che un medico debba ragionare così, ma io non ce la facevo. Così sono entrato in un vortice depressivo e ho deciso di abbandonare quella strada. Nello stesso periodo ho trovato su internet un annuncio per uno studio cinematografico non ben specificato. Poco dopo ho iniziato il mio tirocinio lì, scoprendo che i miei capi erano Angelina Jolie e Billy Bob Thornton“.

Poi l’ulteriore incontro con la fortuna, o meglio, con il fato artistico, “Portavo i caffè, ero l’ultimo per importanza nel ‘Camera Department Team’. Dal nulla un litigio sul set ha portato un fotografo a licenziarsi, e così mi sono ritrovato con la macchina fotografica in mano. Improvvisamente potevo essere il capo di me stesso, potevo fare ritratti ad attori e attrici, è stato il vero ‘step in’ in questo mondo…”.

Fast forward a qualche anno dopo, New York City, Miko è assurto ad uno dei più ricercati fotografi fashion della Grande Mela (e oltre). Dalle cialde di caffè alle copertine di Vogue e Rolling Stones, la sua è stata un’ascesa incessante e frenetica, come i viaggi e i ritmi a cui è stata sottoposta la sua macchina fotografica, innescando un processo di burnout che viene placato solo dall’ingresso in scena di un deus ex machina: l’elemento sportivo. “Era tutto eccitante, cool e glamour, ma allo stesso tempo provante. Ero arrivato ad un punto in cui non vedevo l’ora di finire per staccare e dedicarmi alla mia grande passione, lo sport. Sono cresciuto surfando, ho giocato a basket a livello collegiale, poi ho scoperto il climbing e mi ha completamente catturato. Proprio arrampicandomi nello Yosemite ho realizzato che volevo combinare questi hobby con il mio lavoro, che volevo cambiare completamente focus”.

Patrick Mahomes, Paul Pogba, Anthony Davis, Shaunae Miller-Uibo, Russell Westbrook… Sono solo alcune delle stelle internazionali che oggi, ad una decina d’anni di distanza da quella scelta maturata nel mezzo della Sierra Nevada, Miko Lim è riuscito a celebrare in lavori commissionati da giganti come Adidas, Oakley, Disney, Reebok e Nike. “Quando dirigo questi atleti provo a creare un clima di collaborazione. Non li tratto come oggetti inanimati. Dico loro che siamo un team, che tutti vogliamo vincere sul set, e quando s’instaura una stima reciproca tutto diventa più facile: sono gli atleti stessi a proporre determinati movimenti, determinate situazioni che sanno essere maggiormente estetiche rispetto ad altre. Quando mi trovo di fianco a questi atleti sento sempre d’imparare qualcosa di nuovo”.

E il learning process sportivo di Miko ancora oggi non si limita a linee e composizioni condivise, ma esonda nell’apprendimento pratico del gesto: uno studio progressivo fondato sul desiderio di naturalezza e autenticità della performance, soprattutto se effettuata in un contesto outdoor. “Pur avendo fatto sempre sport nella vita, ho dovuto fare degli enormi passi in avanti nell’arrampicata, nelle immersioni, nello sci, nel nuoto e in molto altro… Non è facile restare per alcuni minuti in apnea mentre si tiene una telecamera sott’acqua, serve preparazione. Allo stesso tempo non voglio essere un problema per gli atleti, non voglio rallentarli: l’autenticità arriva quando possono sentirsi totalmente in comunione con il loro elemento, quando possono essere nel loro momentum”.

Moltissimi registi o fotografi outdoor sono accomunati da un preciso background, sottolinea Miko, “Sono quasi tutti ex atleti di alto livello, magari fermati da un infortunio. Io invece esco direttamente dal mondo dell’arte e della moda. E questo ha i suoi svantaggi, ma ha anche i suoi vantaggi, perché è una condizione rara…”. Una condizione atipica, che ha forgiato l’altrettanto atipica filosofia artistica del nativo di Seattle. Caratteristiche che deflagrano nei cortometraggi “Ocean Mother” e “KYRA”, già pluripremiati e prossimi protagonisti dell’ONA Short Film Festival, kermesse veneziana a cui parteciperà Miko stesso.

Piccole storie per raccontare grandi mondi. Storie che, per essere plasmate, hanno bisogno di scelte. È questo l’ultimo, fondamentale tassello del processo creativo di Miko Lim. Ogni scelta è determinante, ci spiega, ed è determinata dalla curiosità personale. E la curiosità, a propria volta, è soggetta all’evoluzione del gusto, al cambiamento delle influenze, alla semplice maturazione esistenziale. “Non sai mai realmente cosa stai facendo. Hai solo un’impressione, soprattutto quando gli sport che indaghi sono così diversi tra loro e passi dalla vetta di una montagna alle profondità marine, da un palazzetto a una pista d’atletica. Quando ritrai qualcuno puoi focalizzarti su tantissime cose diverse: il volto e le emozioni, il corpo e la poesia del movimento… La scelta è tua. Ed è in quel momento che torna a farsi strada la curiosità. Cosa t’incuriosisce di più? Questa è la domanda essenziale”.

Little stories to tell big worlds. Stories that, in order to be shaped, need choices. This is the final, fundamental component of Miko Lim’s creative process. Each choice is decisive, he explains, and is determined by personal curiosity. And curiosity, in turn, is conditioned by evolving taste, changing influences, simple existential maturation. “You never really know what you’re doing. You just have an impression, especially when the sports you investigate are so different from each other and you go from a mountaintop to the sea depths, from an arena to an athletic track. When you portray someone you can focus on so many different things: the face and the emotions, the body and the poetry of movement…. The choice is yours. And that’s when curiosity comes back in. What are you most curious about? That is the essential question.”

Credits: Miko Lim
mikolim.com
Testi di Gianmarco Pacione


Paul Guschlbauer, volare per ispirare

Il paraglider austriaco che con le sue imprese vuole meravigliare gli occhi e smuovere il coraggio altrui

“Una volta che abbiate conosciuto il volo, camminerete sulla terra guardando il cielo, perché là siete stati e là desidererete tornare”, scriveva Leonardo Da Vinci, genio immortale che del volo riuscì a fare la propria arte scientifica. Una frase che, a secoli di distanza, pare vestire perfettamente l’anima e le azioni del paraglider austriaco Paul Guschlbauer.

Conosciuto in tutto il mondo per le sue imprese aeree, atleta di spicco Red Bull e prossimo ospite dell’ONA Short Film Festival grazie alla partnership con il brand Salewa, il nativo di Graz è quello che si può definire un pioniere contemporaneo, un “normale” superuomo in grado di rimodulare limiti preesistenti, di crearne di nuovi, soprattutto tra nuvole e correnti, con l’unico obiettivo d’infrangerli.

“Si tratta di mostrare e dimostrare qualcosa. Non ho mai battuto dei record, non mi è mai piaciuta l’idea di competizione. Semplicemente penso ad una sfida e, se mi piace, la affronto. Provo sempre a fare qualcosa di nuovo. Il mio desiderio è quello di motivare le persone, di far capire loro che ogni sogno può essere realizzato e che l’importanza educativa dello sport è infinita, così come la sua capacità di farti crescere come essere umano. Credo che a volte sia necessario andare oltre le regole e i limiti imposti da altri, guardare un po’ più in là e scoprire nuove strade, nuovi modi per sentirsi appagati. Per me è particolarmente importante farlo attraverso la connessione con la natura. Tutti noi veniamo dalla natura, tutti noi ci ritorneremo e continueremo ad appartenerle”

E nella natura Paul ha trovato il più ideale dei partner, prima grazie all’ondulazione collinare dell’Austria centrale, poi volando attorno e attraverso le vette di tutto il mondo. Un adrenalinico e vertiginoso itinerario iniziato a bordo di una mountain bike e proseguito sul tanto semplice, quanto complesso mezzo di trasporto aereo inventato da Dave Barish quasi mezzo secolo fa, il parapendio.

“Mio padre mi ha fatto scoprire la bellezza della natura. Nei pressi di Graz c’è una collina piuttosto alta, amavo arrivare in cima con la mia MTB e guardare il panorama dall’alto. Poi mi sono appassionato all’arrampicata e, infine, mi sono approcciato al paragliding. È ovvio, tra mountain bike e parapendio ci sono delle differenze enormi: in uno sport sei a contatto con la terra, nell’altro sei sopra di essa. Ma ci sono anche delle somiglianze. Alla fine si tratta di seguire l’elemento naturale e di superare degli ostacoli: da una parte possono essere alberi o pietre, dall’altra invece sono per lo più invisibili, come le correnti”

Per comprendere la portata delle imprese di questo 39enne equilibrista dei cieli e poliatleta, basta pensare al volo completato tra il punto più settentrionale e quello più meridionale del continente americano; basta, soprattutto, osservare i contenuti proposti sui suoi profili social: video e immagini che raccontano in realtà solo una piccola parte del vortice di emozioni e fatiche vissuto quotidianamente.

“Non sono un cameraman o un fotografo, ma già da giovane mi divertivo con questi strumenti. Questa passione artistica è poi maturata in qualcosa di diverso. Ad un certo punto della mia carriera non ottenevo abbastanza budget o finanziamenti per portare con me dei content creators e così ho deciso di fare da solo. Devo dire, però, che non posso pensare sempre a fare foto o video, devo trovare un equilibrio corretto tra la performance e il suo racconto, spesso non ho il tempo materiale per sedermi ed editare…”

Paul ha però il tempo di sedersi, che sia in cima a una vetta o durante una planata nel vuoto, e ammirare la magnificenza naturale. È proprio la comunione con questa forza esterna e, contemporaneamente, interna all’essere umano che pare sospingere e in qualche modo indirizzare le sue stupefacenti gesta: un nesso primordiale che il paraglider austriaco celebra attraverso l’irrazionale coraggio, la razionale semplificazione e un tipo di ispirazione che vuole essere sia personale, che collettiva.

“Lungo i miei viaggi e le mie sfide ho imparato che, molte volte, la semplificazione è necessaria per essere efficaci. Ci vuole un’enorme esperienza per fare determinate cose, è chiaro, ma pensare eccessivamente ai dettagli o piegarsi al pensiero altrui non ti permette di raggiungere ciò che si pensa essere impossibile. Tutto parte da una semplice domanda: posso farlo? E questa domanda ti porta a vivere situazioni e circostanze inimmaginabili. Provate, per esempio, a pensare di ritrovarvi all’alba sulla cima di una montagna, con le nuvole che si aprono e la possibilità di volare in mezzo a tutta quella meraviglia… È una sensazione incredibile”

Credits: Paul Guschlbauer
IG @paulguschlbauer
Testi di Gianmarco Pacione


Tra lana, moto e pittura, Tommy Lhomme

L’artista francese, maestro del tufting, che nei suoi tappeti sprigiona energia e sublima i motori

“Lavorare con la lana è molto diverso rispetto a pitturare. Ogni volta vivi un’esperienza tattile unica. La lana ti regala sensazioni e colori senza pari, i pezzi che creo mi sembrano sempre magici. Mi sento più un artigiano che un artista, amo esplorare nuove tecniche e sfidarmi: sono diventato designer di tappeti così, curiosando tra alcuni video di YouTube e scoprendo la tecnica del tufting, che poi non mi ha più abbandonato…”

Il primo termine che si può associare al pensiero e alla filosofia artistica di Tommy Lhomme è energia: un’energia incontenibile, dirompente, vibrante. Per questo artista, o meglio, artigiano francese che ama definirsi come un navigante trasportato dalle onde dell’arte, del design e degli oggetti, non esistono fratture tra passato e futuro, ma compromessi virtuosi: punti d’incontro da cui scaturisce un’atipica sperimentazione creativa dove pittura e lana, nostalgia e progresso, figure e materiali continuano a mischiarsi e a coesistere, sprigionando inconsuete vibrazioni.

“Non ho ricevuto una vera e propria educazione artistica. Sono cresciuto a Marsiglia, una città estremamente creativa, facendo graffiti ed esplorando la fotografia. Mi piaceva andare nelle zone più marginali della città e ritrarre i luoghi e le persone che le popolavano. Dopo aver lasciato una scuola d’arte a Parigi mi sono dedicato alla pittura, ma non mi bastava, volevo provare qualcosa di nuovo, così ho scoperto il tufting e ho lavorato sui miei primi tappeti. Il processo è duale, è sia digitale che materiale. Inizialmente lavoro al computer, uso molto Paint e PhotoShop, lasciandomi ispirare da tutto quello che mi circonda: parlo di migliaia di file fotografici personali, così come di quadri di Kandinsky, ma anche insegne stradali e molto molto altro… Le composizioni sono potenzialmente infinite. Poi l’oggetto prende forma davanti ai miei occhi, e quando l’idea diventa realtà provo un incredibile sensazione di felicità”

Il mondo è il mio sketchbook, dichiara Tommy nella sua bio. E in questo sketchbook trova un posto privilegiato anche l’elemento sportivo. L’immaginario motoristico è difatti uno dei filoni più battuti dalla vena artistica del nativo di Marsiglia. Impennate stilizzate e silhoutte di moto da cross trovano spazio sui suoi dipinti di lana come immagini iconiche, come elementi simbolici che travalicano l’atto sportivo per divenire espressioni metaforiche.

“Da buon marsigliese sono appassionato di calcio e dell’OM, ma ho anche conosciuto da vicino la scena skate locale. L’amore per le moto è arrivato quando avevo 14 anni. Sulle due ruote mi divertivo a girare per la città e a fare stunt qua e là. Credo che l’immagine della moto sia molto forte: incarna l’idea di libertà, lo spirito che è intrinseco ad ogni rider… Da un punto di vista artistico mi dà la costante possibilità di trovare un punto in comune tra l’astratto e il figurativo, mi permette di raggiungere un equilibrio perfetto. Ho notato che questa visione dell’elemento-moto è condivisa da tante altre persone. Quasi tutti coloro che hanno comprato le mie opere a tema non sono rider o fanatici, alcuni nemmeno ne possiedono una moto: a tutti piace semplicemente ciò che rappresenta”

Design visuale, tecnica e potenza estetica. Si basa su questi pilastri la ricerca artistica di Tommy Lhomme: un artista-artigiano o artigiano-artista (decidete voi) che ci confida di dare libero sfogo alla creatività con il solo scopo di trasformare la propria energia in forme e colori, in concretezza e tangibilità, senza desiderare fama o riconoscimenti. “Mi sono a lungo chiesto come si facesse l’arte…”, ci confida alla fine della nostra chiacchierata, “Poi ho capito che bastava semplicemente fare”.

Credits: Tommy Lhomme
@tommylhomme
Testi di Gianmarco Pacione