Marco Tribelhorn, l’arte dello sci e l’arte per lo sci

Le montagne sono muse ispiratrici, ci spiega il regista svizzero, ospite dell’ONA Film Festival

“Mi sento uno sciatore. E notate bene: non dico di essere una persona che scia, ma uno sciatore. Il concetto è molto diverso, dice tutto sul mio approccio a questa forma d’arte sportiva, è una definizione complessiva. Lo sci mi permette di avere una personale forma d’espressione, di mostrare quanta gioia e amore mi regalino le esperienze outdoor, di seguire una lunga tradizione familiare. Grazie allo sci riesco ad assorbire l’energia della montagna: è come se dipingessi su una tela bianca e, contemporaneamente, prendessi qualcosa da questo mondo unico per poi portarlo in quello normale, di tutti i giorni…”

Photo by ©Marco Tribelhorn
Photo by ©Marco Tribelhorn
Self Portrait by ©Marco Tribelhorn
Right Portrait by ©Gaudenz Danuser

Quando parla dello sci e della montagna, Marco Tribelhorn si illumina in una risata che sa di passione, di venerazione, di simbiosi. Nato e cresciuto tra le vette svizzere, questo sciatore-filmmaker-musicista vede nella verticalità montuosa la propria totalizzante musa ispiratrice: un fulcro tematico e filosofico da cui s’irradiano le sue variegate produzioni, come “Next Stop Sneg”, il cortometraggio che verrà proiettato in occasione dell’ONA Short Film Festival.

“Questo film è un passion project. Tutto nasce dall’opportunità di andare in Siberia, in un luogo sconosciuto che per me rappresenta una sorta di eldorado. Nel 2019 sono stato invitato per uno ski trip in quest’area remota tra Kazakistan, Russia e Mongolia, lì ho assaporato la neve migliore di sempre e l’esperienza è stata resa unica dall’ospitalità di alcuni amici-rider russi come Kostya San e Grigory Korneev. All’epoca non avevo con me un’attrezzatura adeguata, così ho deciso di ritornare tra quelle montagne un paio d’anni dopo e di ricreare l’impressione d’incredulità che avevo provato vivendo quello spot”

Photo by ©Marco Tribelhorn
Photo by ©Marco Tribelhorn
Photo by ©Marco Tribelhorn

Anche incalzato, Marco evita di dare indicazioni specifiche su questo paradiso sciistico, rimanendo fedele ad una terra promessa dispersa nel tempo e nello spazio, ad un incontaminato luogo di culto che rasenta la leggenda. Il creativo svizzero ci parla di rispetto per un ambiente fantastico e surreale, raccontando delle ore spese tra treni, attese notturne e lunghe camminate: un infinito itinerario in cui incredulità, incognite e desideri si intrecciano per poi esplodere in orgasmiche sessioni di freeride.

“Non sapevo letteralmente dove fossi, non avevo linea telefonica o riferimenti geografici. I locali provano a tenere segreto questo luogo e io rispetto profondamente questa loro volontà. All’interno del film ho provato a narrare in maniera astratta tutti questi temi. Non volevo creare una produzione popolare, ma puramente artistica. Volevo essere onesto con il mio lavoro, comunicare le mie sensazioni senza renderle artificiose o corromperle con l’ormai tipica usanza comune di spettacolarizzazione del freeride. Mi piace cercare sempre vie alternative, sia per quanto riguarda le mie fonti d’ispirazione, sia per le mie creazioni artistiche. Cerco di seguire questa filosofia anche quando lavoro a contatto con sciatori professionisti: in fondo si tratta di celebrare l’amore per questo sport che, in realtà, è molto più di uno sport…”

Photo by ©Marco Tribelhorn
Photo by ©Marco Tribelhorn

Oltre a celebrare lo sci, la volontà artistica di Marco è racchiusa in una semplice frase: catturare la bellezza della vita attraverso suoni e visioni. Vision che persegue da una parte con le note della propria chitarra, dall’altra con gallerie visive che sublimano l’elemento naturale e il suo contatto con l’uomo, filone, quest’ultimo, che contraddistingue proprio il festival veneziano che lo vedrà protagonista.

“Crescere in Svizzera è stato un dono, mi ha permesso di coltivare varie passioni. E la loro combinazione è la mia forza. C’è una forza in me che mi spinge a creare cose. L’importante è che ogni creazione venga dal cuore e che l’osservatore o l’ascoltatore possano capirlo. “Next Stop Sneg” è un esempio tangibile di questo mio desiderio. Nessuno ha supportato o finanziato questo progetto, poi è arrivata la guerra e qualsiasi cosa collegata alla Russia è divenuta un tabù. Grazie all’ONA Film Festival ho finalmente l’occasione di condividere e mostrare questo film. Questo mi rende felice e mi fa capire che, nonostante tutto, ne è valsa la pena”

Video by ©Marco Tribelhorn
Photo by ©Marco Tribelhorn
Photo by ©Marco Tribelhorn

Credits: Marco Tribelhorn
@troublehaus
Testi di Gianmarco Pacione


Chris Eyre-Walker, l’avventura come ricerca personale

Il fotografo e filmmaker belga, ospite dell’ONA Film Festival, ci parla di natura, sport e dell’evoluzione della sua filosofia artistica

“Sono stato fortunato, sono cresciuto in un piccolo paese nella parte orientale del Belgio, a Saint Vicht, nel mezzo del nulla. Con i miei amici costruivo case sugli alberi. I miei genitori hanno sempre amato viaggiare, hanno sempre messo l’esperienza al primo posto. Ogni anno andavamo in posti esotici, da bambino sono stato a Cuba, in Sri Lanka, in Costa Rica, più volte in Africa… Questa combinazione ha acceso una scintilla in me, mi ha aiutato a diventare fotografo e filmmaker”

La produzione multimediale di Chris Eyre-Walker è un’avventura infinita. Questo artista visuale belga, protagonista all’interno del prossimo ONA Film Festival, con le sue produzioni traccia itinerari nei luoghi più suggestivi del nostro pianeta, li dipinge con una lente che, nel tempo, ha deciso di accompagnare la natura allo sport, l’estetica alla ricerca documentaristica, evolvendo una ricerca cominciata a 18 anni nell’esercito del proprio Paese.

“Mio padre portava sempre con sé la macchina fotografica. Da giovane non ero troppo artistico, non ero eccessivamente focalizzato su quest’arte. Poi sono entrato nell’esercito belga e ho iniziato a sviluppare più approfonditamente questa passione. Con i primi stipendi mi sono comprato una macchina fotografica, l’ho messa in modalità manuale e ho iniziato a scattare nei weekend. Mi è sempre piaciuto sfidare me stesso. Credo dipenda dal mio passato sportivo, nel mondo dell’atletica. Fino all’inizio della mia carriera da militare sono stato un giavellottista. Ero il numero 3 della nazione. Di quel periodo mi è rimasta la competitività, la costante voglia di superare i miei limiti. Amo documentare persone brave in sport che uniscono natura e sforzo fisico, amo mettermi alla prova per ritrarre questi atleti”

Nulla è troppo difficile, nulla è troppo pericoloso. Chris ci spiega che il periodo militare in una special unit insegna questo e molto altro, come la forza e la presenza mentale. Caratteristiche che, una volta abbandonato l’esercito, il poco più che ventenne fotografo belga riversa nella propria arte, iniziando a girare il mondo e stabilendosi nella patria del surf, l’Australia. Luogo in cui Chris ha plasmato la propria poetica, basata sul contrasto e sull’equilibrio tra panorama, luci e presenza umana.

“Ho girato il mondo per un anno con un mio amico, combinando fotografia e avventura. Poi sono andato in Australia e ci sono rimasto per 6 anni. Era come avere una tela bianca su cui poter dipingere. Per guadagnarmi da vivere inizialmente ho lavorato per uno studio fotografico, la mattina e la sera andavo in spiaggia e fotografavo onde e surfisti. Ho anche avuto modo di fare un internship con Chris Burkard, uno dei miei punti di riferimento fotografici, un pioniere nella ritrattistica non convenzionale del surf. Poi sono tornato a viaggiare, questa volta per lavoro. Ho avuto clienti praticamente in ogni parte del globo e i miei ritmi hanno iniziato ad essere insostenibili… Almeno fino alla pandemia, quando da un giorno all’altro tutto è cambiato”

Parla proprio di questa transizione la pellicola che verrà proiettata sullo schermo dell’Isola di San Servolo, in quel di Venezia. ‘A Note to Self’ è un viaggio interiore ed esteriore nell’ultimo capitolo della vita di questo creativo a tutto tondo: una presa di coscienza, un’evoluzione personale, una maturazione di consapevolezze. Il lavoro non è tutto, vuole dirci Chris con questo film. La fotografia non è tutto, o meglio, è una parte del tutto. Un’arte che diventa accessoria se non si entra realmente in contatto con i suoi protagonisti, con gli elementi e con gli esseri umani che la popolano, con le sensazioni che la circondano.

“Ad un certo punto come fotografo e filmmaker di viaggio mi sono sentito colpevole. Colpevole perché non creavo una connessione reale con ciò che stava attorno a me, con ciò che finiva nei miei lavori. Non avevo la voglia o la maturità per raccontare una storia, oltre ad un bel luogo. Questo film è una sorta di remind a me stesso: a volte va bene non usare la camera e godersi il momento, a volte va bene perdere una buona luce per parlare con una persona, per scoprire dove sei. Non voglio più ritrarre cose senza un reale significato. La pandemia ha fermato un flusso totalizzante, che mi aveva fatto dimenticare perché avessi iniziato a fare questo lavoro, e mi ha permesso di realizzare che non è necessario saltare di avventura in avventura per goderti la vita: le cose belle in fondo accadono anche a casa, di fianco a te. Per esempio poco fa ho scoperto nei pressi del mio paese ci sono degli alberi che sono ritenuti tra i più antichi del Belgio. La fascinazione può nascere anche a cinque minuti di distanza da dove vivi”

Credits: Chris Eyer Walker
IG @chriseyrewalker
Testi di Gianmarco Pacione


Il parkour e l’architettura del volo umano

In Bulgaria la macchina fotografica di Fabien Scotti unisce corpi volanti e brutalismo sovietico

Si può esplorare il tipico brutalismo architettonico sovietico anche attraverso un’arte sportiva urbana, quella del parkour. Fabien Scotti ci dimostra come, creando attraverso la propria lente un’interazione tra il panorama metropolitano bulgaro e i corpi fluttuanti di giovani volatili umani.

Il dialogo tra evoluzioni aeree, cemento e gravità, raggiunge una nuova dimensione sia in questo reportage visuale, sia nelle parole di Kristiyan Valev, atleta locale che racconta il proprio punto di vista riguardo il legame tra palazzi popolari, complessi abbandonati e l’immaginario tipico di qualsiasi artista del parkour.

“Sono sempre stato appassionato di videogame e anime, quando ho scoperto il parkour ho iniziato a vivere le stesse sensazioni, ma nella vita reale. Se mi alleno fuori dalla palestra, ricerco sempre spazi urbani unici. Mi piace l’architettura e le forme che ritrovo nei vari luogo ispirano i movimenti del mio corpo. Amo essere creativo. Arti visuali, produzioni musicali e parkour credo siano universi uniti dallo stesso mindset: hai semplicemente una tela bianca su cui puoi provare a dipingere qualcosa. L’architettura gioca un ruolo fondamentale nella mia interpretazione di questo sport, la ricerca dei migliori spot coincide con la ricerca di strutture particolari, dall’alto potenziale estetico. Il parkour ha acceso una scintilla dentro di me e così ho iniziato a diventare un appassionato di architettura. I contesti architettonici che ci circondano giocano un ruolo chiave nel definire lo stile di ogni singolo atleta di parkour. Per esempio io sono cresciuto in un piccolo centro cittadino della Bulgaria, dove non c’erano degli spot prefissati per il parkour. Ho dovuto fare affidamento sulla mia creatività e, insieme ai miei amici, ho cominciato ad esplorare una lunga serie di palazzi abbandonati, costruiti durante l’era comunista nella zona industriale della città. Avevo la sensazione di essere all’interno di un film post-apocalittico… E credo che quelle esperienze abbiano influenzato la mia idea di parkour”

Fabien Scotti

IG @fabienscotti
fabienscotti.com

Athletes:

Kristiyan Valev
IG @kristiyan59

Yasen Apostolov
IG @aptricks

Kiril Trifonov
IG @kiril_handstands

Miro Goshev
IG @mirogoshev


MECCA, dove il basket divenne arte contemporanea

Nel 1977 Robert Indiana dipinse la propria Cappella Sistina sul parquet dei Milwaukee Bucks, dando vita a un campo leggendario

Il 1968 è un anno celebre per i suoi radicali cambiamenti sociali. I venti rivoluzionari soffiano forti in tutto il mondo ed anche la National Basketball Association sembra pronta ad una nuova alba, accogliendo due nuove squadre: i Phoenix Suns e i Milwaukee Bucks. Immerso nella natura, abbracciato dal Lago Michigan e dal Lago Superiore, il Wisconsin non è mai stato considerato un basketball state. Il dinamismo della palla a spicchi pare essere troppo diverso dalla pace che si respira a Milwaukee.

La prima stagione è ben lontana dall’essere entusiasmante: i Bucks chiudono con uno dei peggiori record della NBA con poco più di venti vittorie. Al draft viene scelto Kareem Abdul-Jabbar, che al fianco di Oscar Robertson forma una delle coppie più dominanti del campionato. Dopo solo tre anni, arriva il primo titolo NBA: un’impresa lampo quella dei Bucks, che non è comunque sufficiente per iscrivere la franchigia tra le powerhouses della pallacanestro americana. I Bucks sono giovani, sono vincenti, attirano migliaia di spettatori ad ogni partita. Eppure manca loro qualcosa. La proprietà è decisa a mandare un segnale forte, i Bucks devono essere sulla bocca di tutti e devono diventare un vero e proprio brand.

L’investimento, finanziato in gran parte da denaro pubblico, è decisamente consistente. L’alone di mistero che avvolge il risultato finale, unito ad una lunghissima attesa, alimenta i malumori in tutta la città. Alcuni giornalisti non sono convinti del progetto e arrivano a scrivere frasi come: “con tutti quei soldi potevamo ridipingere la Cappella Sistina”. Nel 1977 Indiana termina quello che ancora oggi è considerato il più grande lavoro Pop Art al mondo: un’arena intera che diventa una vera e propria opera d’arte. Un capolavoro artistico e cestistico fruibile da migliaia di persone. Il parquet, dipinto interamente a mano da Robert Indiana, è di colore giallo, con due M speculari realizzate in legno più chiaro. Le due aree, invece, come il cerchio a metà campo, sono di colore rosso. Sempre al centro troviamo la scritta MECCA, acronimo del nuovo Milwaukee Exposition Convention Center and Arena.

The investment, financed largely by public money, is just huge. The halo of mystery surrounding the final result combined with a very long wait starts to fuel discontent throughout the city. Some journalists are not convinced about it, declaring “with all that money we could have repainted the Sistine Chapel”. In 1977 Indiana finishes what is still considered the world’s greatest Pop Art work: an entire arena that becomes a true masterpiece. An artistic-basketball installation that can be actively enjoyed by thousands of people. The hardwood, painted entirely by Robert Indiana’s hands, is yellow, with two mirrored M’s made of lighter wood. The two areas, like the circle in the middle of the court, are red. In the center we find also the MECCA lettering, an acronym for the new Milwaukee Exposition Convention Center and Arena.

Il fattore campo è sorprendente: I Bucks centrano i playoffs ad ogni stagione, superando sempre le cinquanta vittorie ed arrivando in finale per ben tre volte, sconfitti solo dalle magie di Julius Erving e dai Celtics di Larry Bird. A beneficiare dell’incredibile energia della MECCA è anche l’università di Marquette, che nel 1977 corona una stagione sensazionale con la vittoria dell’unico titolo NCAA della sua storia. I costi di manutenzione del campo, però, sono estremamente elevati ed iniziano ad avere un impatto troppo pesante nelle casse della franchigia del Wisconsin. Inizia inoltre a prendere forma il progetto del Bradley Center, una nuova casa per i Bucks con il doppio della capienza e più consona alle nuove ambizioni del team.

Il cambio di impianto sembra portare con sé una sorta di maledizione, con la squadra che per sette stagioni consecutive non riesce a qualificarsi per la fase finale della stagione. Il parquet disegnato da Robert Indiana viene scomposto e messo in vendita. Trovare un acquirente è particolarmente difficile, nessuno sembra essere interessato a dare nuova vita al “floor that made Milwaukee famous”, che finisce così nel dimenticatoio.

Nel 2010, Andy Gorzalski – tifoso dei Bucks fin dalla nascita – s’imbatte in un annuncio a dir poco particolare. L’articolo in vendita viene descritto come un banale ‘gym floor’, ma per chi ha legato la propria infanzia sportiva alla franchigia di Milwaukee è facile comprendere l’unicità di quel parquet dalla descrizione apparentemente anonima. Il prezzo, 20.000 $, è poco accessibile, ma pur di non rischiare che Milwaukee venga privata del suo gioiello sportivo più prezioso, Andy si indebita ed acquista l’opera di Indiana, divenendo protagonista di uno splendido documentario ESPN. Poco tempo dopo l’acquisto, Gorzalski entra in contatto con la famiglia Koller, proprietaria di una celebre azienda di parquet sportivi da sempre legata ai Bucks. Le due parti sono decise a valorizzare il capolavoro di Indiana e nel 2017, cinquant’anni dopo l’inaugurazione, la ProStar Surfaces della famiglia Koller realizza una replica perfetta della MECCA, attirando l’attenzione dei media e soprattutto dei tifosi, che grazie a quel parquet sono in grado di tornare indietro nel tempo.

“In life, in sports… It is always important to celebrate your heritage. Milwaukee to me was an unbelievable place to play”

L’importanza di ricordare la propria storia e di tramandarla alle generazioni future è un’azione fondamentale nello sport, ce lo ricordano le parole di Charles Barkley, che con i suoi (all’epoca) Sixers ha calcato il suolo della MECCA più volte. Nel 2018 i Milwaukee Bucks decidono di celebrare ulteriormente la creazione di Robert Indiana, realizzando delle divise ‘city edition’ ispirate ai colori del parquet utilizzati dall’artista. Nonostante gli sforzi di Andy e della famiglia Koller, la vera MECCA non ha ancora trovato un acquirente in grado di valorizzarla e di ridarle nuova vita. Viene tutt’ora conservata come una vera e propria reliquia in un magazzino specializzato, in attesa che qualcuno riesca finalmente a dedicarle la gloria e l’importanza che merita. Questa volta, si spera, in un contesto museale.

Video Youtube
Testi di Filippo Vianello


Il bestiario sportivo di Sébastien Vincent

Animali negli stadi e studio del gesto tecnico, scopriamo l’immaginazione di questo fotografo francese

Dove può arrivare l’immaginazione visuale? Può arrivare alla distopia naturalistica, ci spiegano gli scatti di Sébastien Vincent, può unire il concetto di bestiario medievale a quello di moderna architettura sportiva, creando composizioni irragionevolmente plausibili, verosimilmente inverosimili. Davanti agli elaborati scatti di questo fotografo francese, ogni spettatore viene sommerso da un’incongruente serie d’informazioni visive, finisce per raggiungere un luogo del proprio subconscio disperso tra spaesamento e fascinazione, incredulità e ponderazione.

“Ormai seguo questo filone fotografico da quasi dieci anni. Ho sempre amato mescolare diversi temi e scenari, ho sempre avuto l’inclinazione a provare soluzioni differenti e inusuali: quando lo scatto è troppo facile voglio sempre aggiungerci delle difficoltà extra. La genesi di questa serie è arrivata in un momento in cui ero concentrato sulla fotografia fashion. Ero circondato quotidianamente da professionisti di tutti i tipi: stylist, modelli, make up artist e tanti altri, eppure sentivo che mi mancava qualcosa. Ho avuto un’epifania vedendo la foto di un animale in un contesto cittadino e mi sono detto: ok, forse dovrei provarci. Così sono andato allo zoo, ho scattato per un po’ e ho iniziato a immaginare, a strutturare questi lavori. La prima serie l’ho ambientata in una Parigi poco turistica, sovrastata dai palazzi de Les Olympiades, volevo un ambiente distante dalle masse della Torre Eiffel e degli Champs Élysées…”

Sébastien trova presto modo di trasporre questo nuovo trend grafico nelle due più celebri istituzioni sportive della Ville Lumiere, il Roland Garros e il Paris Saint Germain. Tra i courts in terra rossa più conosciuti al mondo e l’elegante Parco dei Principi, questo creativo con alle spalle una laurea in Economia e un percorso nella rinomata école de l’image Gobelins riesce a sprigionare tutta la potenza evocativa e comunicativa delle proprie invenzioni sceniche, dando vita ad una suggestiva commistione sportivo-animale-architettonica.

“Ho avuto la possibilità di entrare in contatto con Roland Garros e PSG tramite alcune amicizie e contatti in comune. Quando ho proposto l’idea di immortalare animali, la prima reazione è stata chiedermi se li avrei portarti materialmente dentro gli stadi… Fortunatamente hanno subito capito che orsi e tigri non sarebbero entrate in campo! In questi spazi enormi, pensate per esempio ai 60mila seggiolini vuoti del Parco dei Principi, mi domandavo quali animali avrebbero potuto frequentare determinate zone, quali sarebbero stati i loro comportamenti e i loro movimenti specifici… Sul prato, sulla porta, sugli spalti: dovevo immaginare una nuova vita all’interno degli stadi. Quegli scatti mi hanno anche permesso di elaborare riflessioni più profonde, legate al rapporto tra esseri umani e animali, tra progresso edilizio e allontanamento della natura: pensieri che sono letteralmente esplosi durante il periodo di lockdown, quando le mie foto in alcuni casi sono diventate realtà”

La produzione fotografico-sportiva di Sébastien non si limita, però, a questa fantasiosa rielaborazione della realtà. Il suo allenato occhio da appassionato nel tempo è riuscito ad indagare anche l’arte del gesto tecnico, scomponendola come usavano fare alcuni predecessori della lente d’inizio Novecento. Oggi i lavori a tema sportivo restano una parte corposa dell’impegno fotografico del francese, che tra shooting Disney e servizi di moda riesce sempre a ritagliarsi il tempo per indagare l’atto sportivo, il suo immaginario e le sue possibili derivazioni.

“Un’altra cosa che mi ha sempre interessato è stato il racconto fotografico dello sport. Quando fotografo un evento sportivo o un atleta cerco sempre delle prospettive diverse rispetto a quelle canoniche, parlo di dettagli e particolari. Con i tennisti, per esempio, ho provato a modernizzare la ricerca visiva di Harold Edgerton. Ho deciso di scattare venti foto al secondo a Nadal e Djokovic, per poi sovrapporle ed avere una definizione visiva del loro impatto con la pallina. Penso che tutti gli sport siano interessanti e che ognuno abbia un potenziale estetico. Nel prossimo futuro vorrei tornare a concentrarmi sul golf: l’avevo già fatto più volte in passato, ritraendo l’atmosfera bollente di una Ryder Cup. Nel 2024, poi, avrò la possibilità di gustarmi un’Olimpiade in casa, sono sicuro che sarà un evento che ispirerà e stuzzicherà sia la mia macchina fotografica, che la mia immaginazione”

Credits: Sebastién Vincent
IG @sebastien_vincent_
sebastienvincent.com
Testi di Gianmarco Pacione


Di fotografie ed esseri umani, Jim Herrington

La leggenda della lente in grado di unire arrampicata, musica e profonda indagine personale

“Come sono diventato un fotografo? Negli anni ’60 ero un bambino di una piccola città della Carolina del Nord. Non esisteva tecnologia, all’epoca. Mio padre collezionava vecchie riviste Life, degli anni ’30 e ’40. Osservavo queste enormi foto in bianco e nero che narravano di un mondo fantastico: un mondo che non esisteva attorno a me. Ricordo scatti dal Polo Nord, da Roma e Parigi, i ritratti di Brigitte Bardot… Con lo scorrere del tempo ho realizzato che quelle foto venivano scattate da qualcuno. E che quello del fotografo era il più affascinante dei lavori” 

Per immergersi nella magmatica produzione fotografica di Jim Herrington, bisogna pensare ad uno spazio multidimensionale, dove l’immagine diventa foce visiva di una lunga serie di affluenti artistici e umani. È la volontà di narrare una storia, di rappresentarla nella sua interezza attraverso un singolo istante, una singola espressione.

Mark Powell by ©Jim Herrington
Minoru Higeta by ©Jim Herrington
Tom Frost by ©Jim Herrington

Una filosofia sprigionata in due dei principali filoni narrativi di Herrington: quello legato alla musica e quello connesso alla montagna, ai suoi principali protagonisti, i pionieri dell’alpinismo novecentesco. Figure tanto mitiche, quanto evanescenti, destinate a perdersi nel flusso del tempo e della propria arte verticale. Un destino che Herrington ha voluto evitare grazie ad un’intensa opera documentaristica confluita nella sua opera magna, il libro ‘The Climbers’.

“Ad un certo punto, lungo il mio cammino, ho capito che lo storytelling era fondamentale per il mio lavoro. Era un qualcosa di insito in me, nelle mie radici. Ho sempre amato le storie, ricordo che a tavola con la mia famiglia avevamo un mantra: se non hai qualcosa d’interessante da dire, inventati qualcosa. Ho fotografato per decenni musicisti leggendari, alcuni di questi geni erano stati dimenticati… Lo stesso valeva per tanti climber che tra il 1920 e il 1970 avevano rivoluzionato l’idea di esplorazione della montagna. Ho sempre pensato che tra queste due categorie di esseri umani ci fossero enormi somiglianze: mi riferisco al desiderio di progresso, di superamento di limiti, d’indipendenza, ad uno stile di vita libero e slegato dalle logiche economiche”

wen Moffat by ©Jim Herrington
Hamish Mac Innes by ©Jim Herrington
Joe Brown by ©Jim Herrington
Pat Ament by ©Jim Herrington

Dal clarinetto di Benny Goodman all’equipaggiamento di Riccardo Cassin, dalla chitarra di Willie Nelson al coraggio di Reinhold Messner, dalle note futuristiche dei Rolling Stones alle prima, storica donna sull’Everest, Junko Tabei. Le istantanee di Herrington sono la costante testimonianza di un inesauribile interesse per la vita, per l’esperienza personale che, nonostante la sua eccezionalità, diventa paradigma di una condizione, di una passione collettiva.

Riccardo Cassin by ©Jim Herrington
Reinhold Messner by ©Jim Herrington
Junko Tabei by ©Jim Herrington

Ospite per la seconda edizione di fila dell’ONA Short Film Festival, kermesse veneziana dedicata al rapporto tra sport, ambiente e settima arte, Herrington arriverà in laguna tra l’8 e il 10 settembre portando con sé un’infinito scrigno di nozioni e avventure outdoor, un sapere maturato in 59 anni dedicati quasi interamente al sensibile studio dell’elemento umano e naturale.

“La montagna ha un grande ruolo nella mia vita e nella mia carriera artistica. Sono cresciuto facendo hiking sugli Appalachi, su questa catena che due milioni di anni fa raggiungeva altitudini superiori a quelle dell’Himalaya. All’inizio del mio percorso viaggiavo con nulla: non c’era connessione, ci si poteva perdere, ma si scopriva sempre qualcosa di nuovo. Oggi tutto è differente, tutto si è digitalizzato. E questo processo ha dei lati negativi, mi pare ovvio, ma anche molti lati positivi. Sembrerà ironico, ma grazie ad Instagram, per esempio, ho allenato la mia scrittura per ‘The Climbers’. Ogni volta che compongo le caption delle mie foto su questo social, mi sento come uno scrittore di pop song degli anni ’60: un artigiano che deve plasmare testi brevi e incisivi”

Fred Beckey by ©Jim Herrington
Armando Aste by ©Jim Herrington
Pierre Mazeaud by ©Jim Herrington
David Brower by ©Jim Herrington

Sferzato dalla dolce brezza adriatica dell’Isola di San Servolo, Herrington si ricongiungerà allo storytelling outdoor davanti alle pellicole e produzioni selezionate, proseguendo un percorso di apprendimento che non ha intenzione di fermarsi nemmeno di fronte alla sopraggiunta maturità artistica e che permette ancora a questa leggenda della fotografia di ispirare e farsi ispirare, di elaborare e rielaborare un archivio d’immagini senza limiti, per forma e quantità.

“Amo i documentari, il fotoreportage, la street photography… I giganti del passato che più ho ammirato sono persone come Jacques Henri Lartigue e Robert Frank. Mi piace l’idea di un giornalismo personale. Suonerà strano, considerano che quasi tutti mi conoscono per la ritrattistica, ma sono anche un grande fan della ‘landscape photography’. Mi riferisco in particolare alla scuola visuale giapponese, dove i panorami sono trattati in maniera astratta. Guardandomi indietro, se dovessi scegliere uno scatto che definisce la mia carriera, direi il ritratto di Cormac McCarthy: uno scrittore cupo, schivo, che ho fotografato nel mezzo del deserto con una luce che, a mio avviso, imprime e fa emergere, tante sfumature delle sue produzione letteraria. Ora sento il tempo che passa e da un lato sono consapevole che dovrei lavorare sulla mia produzione passata, aggiustandola e riordinandola, ma sento anche di voler continuare a fotografare e sperimentare. Ed è una sensazione che non possono snobbare”.

The Black Keys by ©Jim Herrington
Ian Mc Kellen by ©Jim Herrington
Morgan Freeman by ©Jim Herrington
Dolly Parton by ©Jim Herrington
Cormac Mc Carthy by ©Jim Herrington
Gillian Welch by ©Jim Herrington

Credits: Jim Herrington
IG @jimherrington
Testi di Gianmarco Pacione


Mike Powell, 8.95 è per sempre

Insieme a Karhu abbiamo incontrato il più grande lunghista della storia

Esistono momenti sportivi che si riflettono sul corso della storia, che ridefiniscono i paradigmi della fisica, che rielaborano i limiti umani, rendendo la realtà immaginazione e l’immaginazione realtà. Sono rapidi strappi temporali, istantanee e imprevedibili transizioni verso nuove ere atletiche, verso nuovi mondi inesplorati.

“Competere con Carl Lewis non era facile, sapete?”, scherza Mike Powell allargando le braccia e regalando un sorriso ironico al media center del Ratina Stadium di Tampere, “Era una leggenda vivente. Il mio unico focus era batterlo. E per batterlo sapevo che avrei dovuto fare una sola cosa: infrangere il record mondiale”

30 agosto 1991, Mondiali di atletica leggera a Tokyo, finale di salto in lungo. L’uomo chiamato ‘Figlio del Vento’ si abbandona ad una corrente ascensionale e, contemporaneamente, orizzontale. Sono quasi 3 metri al secondo di aiuto ventoso. Il suo corpo fugge dalla sabbia poco dopo, lasciando l’impronta a 8 metri e 91 centimetri. Bob Beamon nella rivoluzionaria kermesse di Città del Messico ’68 si era fermato un centimetro prima, polverizzando il record mondiale del sovietico Igor’ Ter-Ovanesjan e ridefinendo l’intera disciplina.

“Tre giorni prima di quella finale ho fatto la mia ultima sessione d’allenamento e mi hanno chiesto di firmare un autografo. Ho scritto il mio nome, Mike Powell, e a seguire ‘1991 World Champion, 8.95’. All’epoca il mio personal best era 8.66 e non sapevo nulla di centimetri, ragionavo sempre in pollici… Però quel numero era nella mia testa. Doveva succedere”

Il corpo di Mike Powell si appropria della pedana del National Olympic Stadium. Attorno alla lunga vena di tartan solo un nipponico silenzio assoluto. L’allora 27enne di Philadelphia sbuffa a cadenza regolare, pare fissare lo sguardo su una dimensione esterna, a noi sconosciuta, disegna i tipici tre-quattro passi scenici introduttivi alla sua rincorsa, poi si lancia in un ossessivo ed elegante moto rotatorio di gambe e braccia. Powell fende la terra, poi l’aria. Tutto si ferma, tempo e vento compresi.

“L’atletica è ritmo. Il salto in lungo è una danza: ti carichi, voli e… splash. Nei secondi precedenti alla rincorsa, è fondamentale la visualizzazione. Io non mi vedevo come un robot, ma come un animale, sentivo l’energia che si appropriava del mio corpo, pensavo ad un ghepardo e alla sua velocità, alle sue linee: volevo muovermi nello stesso modo”

8.95. È una danza animale. È un primato mondiale destinato a durare per trent’anni, e per chissà quanti altri ancora. Powell festeggia correndo all’impazzata, abbracciando idealmente l’intera tribuna: fiumi di persone che non riescono a reagire, meravigliate, quasi atterrite, da un gesto atletico che nulla ha di umano. Grazie a quei 9 metri di planata, Powell ha appena assaporato una rivincita attesa da tutta la vita, ha scritto con il proprio corpo un qualcosa che non può e non potrà essere cancellato, ha semplicemente dichiarato di essere il più grande saltatore in lungo della storia sportiva.

“Quel salto non riguardava solo il Mondiale. Riguardava tutta la mia vita, tutti coloro che non avevano creduto in me: gli addetti ai lavori che pensavano fossi troppo magro, le ragazze che si erano rifiutate di uscire con me… In quel salto c’era tutto. Stavo dicendo al mondo ‘I’m Here!’. Ero, anzi, continuo ad essere felice e orgoglioso. Sono stato in grado di entrare nella storia sportiva e io, da sempre, sono prima di tutto un fan assoluto di questo sport. Sono un ‘athletic geek’ e vedere tutte queste persone che ancora oggi mi fermano per chiedere una foto, o anche solo per complimentarsi, mi fa essere grato nei confronti del salto in lungo”

Camminare al fianco di Mike Powell sarebbe complesso in un normale contesto cittadino, figurarsi in una città finlandese popolata da amanti del track & field. Nel villaggio World Masters Athletics di Tampere, dove Powell svolge il ruolo di ambassador, ogni passo per questo mito vivente equivale ad un selfie, ogni saluto equivale ad una forte emozione provocata. Oggi Mike Powell ha 58 anni. Sono passate tre decadi dal suo capolavoro aereo, eppure tutti continuano ad essere attirati dall’aura di un uomo speciale, nel vero senso del termine.

“Per me è naturale stare in mezzo alla gente. Per alcuni atleti non è facile, me ne rendo conto, ma per me è gratificante. Più di tutto amo stare a contatto con gli atleti che alleno. Con loro il mio obiettivo principale è instillare fiducia e divertimento. Avere fiducia come atleta equivale ad avere fiducia come persona, e la fiducia è uno strumento fondamentale per giovani ragazzi che cercano di definirsi come esseri umani, che lottano per trovare un proprio posto nello sport e nella società. Quando vedo gli atleti Masters, poi, capisco di essere nel posto giusto: sono pazzi quanto me. Dico sempre che è vecchio solo chi non si muove: io mi alleno, alleno i giovani, ballo, mi sento giovane nella mente. L’età è solo un numero”

Mentre sorseggia un bicchiere di Lonkero, drink inventato in occasione delle Olimpiadi di Helsinki ’52, in compagnia di Emanuele Arese, Chief Operating Officer di Karhu, official sponsor dei WMA di Tampere, Mike Powell emana una sensazione di grandezza controllata, di autentica umiltà. Ci comunica che non è arrivato in Finlandia solo per stringere mani e fare pubbliche relazioni, ma per suonare, per vestire i sempre più graditi panni di DJ nella festa serale aperta a tutti gli iscritti WMA.

“Ve l’ho detto, la musica e l’atletica sono connesse. Per me il salto in lungo è hip hop. Io sono cresciuto con il flow della Sugar Hill Gang e ancora oggi ballo insieme a mia figlia. Tanti miei amici ascoltano il jazz, ma io ho bisogno di altri beat, soprattutto quando sono in pista. Fare musica mi piace, da sempre, per questo ho iniziato e sto continuando a fare il DJ. La musica è positività e la positività è un segreto nella carriera di uno sportivo. Come persone tendiamo ad essere negative, ma con i miei ragazzi faccio l’esatto opposto: continuo a ripetere loro quanto siano meravigliosi e grandi. In fondo si tratta di questo, che sia un record mondiale o qualsiasi altro obiettivo: se puoi vederlo, se puoi sentirlo, se puoi pensarlo, allora puoi farlo… No?”

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Photography Rise Up Duo
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Testi di Gianmarco Pacione