Elettrico significa velocità
La lente di Matt Ben Stone ha incontrato l’eSC Skootr Championship e lo sport senza motori più veloce al mondo
Unite i concetti di criterium ciclistico e di motorsport, poi aggiungeteci la componente elettrica. Parliamo dell’eSC Skootr Championship, di un nuovissimo ibrido che sta segnando la cultura underground della velocità, proiettandola verso il futuro.
La lente di Matt Ben Stone ha ritratto la tappa londinese d’esordio di questa nuova forma sportiva, dove 8 giri lampo decidono una gara in pochi battiti di ciglia. All’interno dello spazio Printworks, magazzino riconvertito a locale notturno, il convulso silenzio di questi rapidissimi mezzi a due ruote ha ipnotizzato curiosi e celebrità (come alcuni piloti MotoGp e atleti olimpici).
Tra fumo e luci abbaglianti, questa serie fotografica si focalizza sul rapporto tra evento sportivo e contesto scenico, esaltando l’energia sprigionata dal connubio di clubbing e corsa, beat e accelerazioni, restituendoci sensazioni provate probabilmente solo davanti ad un videogame.
















Credits: Matt Ben Stone
IG @mattbenstone
www.mattbenstone.com
Testi di Gianmarco Pacione
Behind the Lights – Jordan Manoukian
Essere un fotografo outdoor vuol dire essere anche un atleta. Ce lo spiega questo giovane creativo delle montagne
La penna di Tiziano Terzani descriveva la montagna come un elemento generoso, capace di regalare ‘albe e tramonti irripetibili’, capace di suonare note naturali che negli immortali silenzi alpini divenivano segni d’imperturbabile, meravigliosa vita. Una vita che Jordan Manoukian ha deciso d’impreziosire attraverso le proprie produzioni visuali: viaggi sportivi ad alta quota, in cui si annullano le differenze tra atleta e fotografo.
“Dedico tutto il mio lavoro e tutto me stesso alla montagna. In ogni produzione provo a trasmettere questa mia passione e questa fortuna che sento di avere. In fondo si tratta sempre di scegliere la giusta persona con il giusto scenario. E le persone che hanno a che fare con la montagna, che siano essi runner, alpinisti o atleti di altro tipo, hanno questa innata capacità di trasmettere la loro passione per questo elemento. Mi danno così tanta energia… La parte migliore del mio lavoro è creare una connessione con loro, seguire le loro visioni e perseguire un obiettivo che sulle vette diventa comune”


Osservando il portfolio e i giganti innevati conquistati da questo artista-esploratore, si potrebbe pensare ad un esperto allevato dalle catene montuose francesi. Nulla di più sbagliato. Jordan, strano a dirsi, è nato e cresciuto nel brulicante centro marittimo di Marsiglia: il luogo più antitetico per un adepto della verticalità. L’epifania montuosa nella sua vita è arrivata casualmente, grazie ad uno dei primi step lavorativi.
“Marketing e fotografia hanno sempre fatto parte della mia vita, ho seguito e alimentato questi due interessi anche a livello accademico. Il turning point è arrivato quando ho iniziato a lavorare per il brand SCARPA, dove ho avuto la possibilità di scoprire il vastissimo universo di sport outdoor. Come ragazzo di Marsiglia il primo contatto con la montagna mi ha lasciato senza parole. A Chamonix, per esempio, ho percepito delle vibrazioni uniche, prodotte sia dal panorama, sia dalle persone che mi circondavano. Crescere al sud, affacciato sul Mediterraneo, è qualcosa di completamente differente: lo stile di vita è diametralmente opposto, in montagna tutto è tranquillo, tutto è rilassato, l’atmosfera è semplicemente differente. Ma senza dubbio c’è anche una parte di Marsiglia in ogni mia produzione”



E la produzione di Jordan ha avuto modo di toccare i principali brand-punti di riferimento per il mondo performance outdoor. Parliamo di The North Face, Columbia, Arcteryx e Salomon, ma anche di giganti a tutto tondo come Nike, Red Bull e GoPro. Una produzione che nell’ultimo periodo ha lasciato spazio anche ad un significativo progetto personale, il film ‘Out of Frame’, creato e presentato dalla Mountains Legacy Films, agenzia fondata dallo stesso Manoukian.










Questo atipico progetto audiovisuale pone l’attenzione sulla figura del fotografo outdoor, sulle capacità tecniche e sulle conoscenze naturali che deve maturare per poter stare a stretto contatto e seguire i migliori atleti-temerari sulle vette di tutto il globo: dal Sudamerica alla Lapponia, dall’Islanda allo Sri Lanka.
“Volevo mostrare il vero backstage, perché penso che in molti non si rendano conto di quante cose ci siano dietro le foto o i video cool che si vedono sui social. Ho lavorato a lungo con Mathis Dumas e ho ritenuto fosse il soggetto perfetto per questo tipo di progetto. È una guida alpinista e un atleta, insieme alla sua macchina fotografica gravita attorno alle montagne da sempre, il suo modo d’intendere la fotografia outdoor era perfetto per il concept che avevo in mente. Non mi riferisco solo al lato sportivo del lavoro che ci unisce, ma anche al lato creativo, alla capacità d’immaginare e comporre contenuti in condizioni estreme. È stato fantastico”
Credits: Jordan Manoukian
IG @jordan_manoukian
jordanmanoukian.fr
Testi di Gianmarco Pacione
The Eighth Issue
Il rapporto tra l’uomo e la natura, tra l’uomo e la comunità, tra l’uomo e sé stesso. Tutto incorniciato dall’immaginario culturale sportivo. Vi presentiamo Athleta Magazine Issue 8. La copertina dipinta dalla lente di Achille Mauri introduce la prima storia ‘I Want To Live In Real Madrid’, un viaggio di Alessandro Simonetti tra le bollenti dune di Fuerteventura, divenute centro calcistico per migranti africani. Dune che diventano interiori con Giuliano Pugolotti e il suo ‘Inner Dunes’, suggestivo saggio visuale dedicato all’ultratrail desertico. Elemento naturale che ritorna anche in ‘Una Inmensa Stepa Verde’, dove la poesia fotografica contemporanea di Achille Mauri si sublima nel contesto outdoor. Le due ruote si sublimano invece in maniera molteplice nel doppio reportage ‘Ice & Fire’ di Eric Scaggiante/Niccolò Varanini e ‘No Temas, Somos Los Chilangos’ di Jeoffrey Guillemard: da una parte osserviamo l’affascinante dolore sportivo del ciclocross, dall’altra indaghiamo il valore sociale del Chilangos Lowbike Club México, community che usa la connessione tra arte e ciclismo per debellare la piaga della criminalità organizzata. Di community in community, da Città del Messico a Venice Beach, dove l’empowerment femminile (e non solo) si amplifica sulle tavole da skate di ‘There Is No “I” In Grl’, ritratte da Giulia Fassina. Conversiamo poi con Charlie Dark e Sanchia Legister, coppia di creativi londinesi che nella corsa e nello yoga hanno trovato gli strumenti per cambiare le vite proprie e altrui, e con Virgil Dey, b-boy e performer di fama internazionale con una visione antropologica e culturale della breakdance. L’editoriale di Julien Da Costa a base di football americano e fashion parigino ‘Easy To Pick Up, Hard To Put Down’ è l’ultimo tassello di questo nuovo capitolo di Athleta Magazine: l’unico luogo dove lo sport è arte e cultura.




















World Masters Athletics, where Every Runner’s Rights
Competizione e socialità, individualità e collettività. Grazie a Karhu abbiamo scoperto un evento unico, i WMA
Il brusio e il silenzio. La gioia e la delusione. Lo spettro sociale dei World Masters Athletics è direttamente proporzionale a quello emotivo. Nella festa sportiva finlandese di Tampere, l’equilibrio tra il risultato sportivo e il rapporto umano assume dei connotati che non hanno eguali, che non hanno paragoni. Bastano alcune diapositive, alcune immagini per riassumere quanto andato in scena tra il 29 giugno e il 10 luglio nei pressi del Ratina Stadium.


Lo scambio di opinioni e di gesti tra un decatleta finlandese di 60 anni e un diretto avversario cileno dopo un salto sbagliato. L’abbraccio tra un 50enne duecentometrista indiano, arrivato ultimo ad oltre 8 secondi di distacco dal primo classificato, e un avversario di Trinidad and Tobago disteso a terra dopo una coraggiosa e vana progressione finale. Il massaggiatore della delegazione spagnola impegnato nello sciogliere l’acido lattico di uno sprinter portoricano di 76 anni che, a sua volta, lo omaggia del racconto della propria vita. E ancora. La chiacchierata al chiaro di luna (anche se di luna non si può parlare, viste le 20 ore di sole scandinavo) di un gruppo di atleti misti, per età e provenienza, in uno dei bar affacciati sullo scuro canale Tammerkoski.
“Il World Masters Athletics unisce due componenti fondamentali”, spiega lucidamente la presidentessa WMA Margit Jungmann, “da un lato abbiamo lo sport, la competizione, il desiderio di porsi un obiettivo, perseguirlo e vederlo concretizzare in un evento di portata mondiale. Dall’altra abbiamo la componente sociale, la volontà di incontrare altre culture, di entrare a far parte di una community fondata su un’enorme passione condivisa: l’atletica”. Impossibile darle torto.










Per comprendere l’importanza e l’eccezionalità di questa manifestazione, immaginate il concetto di ‘limite’ e cancellatelo dalla vostra mente. Uomini e donne al di sopra dei 35 anni di età che si sfidano nelle più svariate discipline atletiche divisi in categorie: la prima dai 35 ai 40 anni, l’ultima over 100. Non c’è limite al processo di miglioramento. Che sia esso fisico o mentale. Non c’è limite alla ricerca del proprio personal best. Che tu abbia appena superato la soglia dei 40 anni o ne stia per compiere 90. Non c’è limite all’idea di rivoluzione, di cambiamento personale. Che tu sia un ex atleta olimpico o un novizio della pista.







Nel nordico Paese che diede i natali alla generazione dorata dei ‘Finlandesi Volanti’, mezzofondisti rivoluzionari degli anni ’20, guidati dal pluricampione olimpico Paavo Nurmi, lo sforzo sportivo ha trovato altri significati: quello di resilienza, quello di eternità, quello di individualità trasformata in collettività, e viceversa. Il risultato è una parte del processo, insegnano questi atleti: è una parte rilevante, sia chiaro, ma non totalizzante.
Lo può spiegare Annie Dorina, 65enne francese madre ed ex manager, che per oltre vent’anni ha dovuto abbandonare le piste seguendo il corso della vita e che a 53 anni ha iniziato a dedicarsi al salto triplo, disciplina che non aveva mai potuto svolgere in giovane età a causa di stereotipi e preconcetti di genere. Lo può spiegare Pei-Jung Huang, 48enne R&D manager che utilizza il decathlon per incamerare il maggior numero d’informazioni e trasmetterle, attraverso l’esempio, alle nuove generazioni di Taiwan. Lo può spiegare Ivan Gonzalo Ortiz, 76enne sprinter portoricano, giunto dall’altra parte del mondo unicamente per omaggiare la memoria del defunto padre-atleta.






Risultati che diventano storie. Storie che diventano risultati. Grazie a Karhu, sponsor ufficiale dei World Masters Athletics di Tampere, abbiamo avuto modo di scoprire un universo colorato di testimonianze, sacrifici e ideali, un universo composto da infiniti microuniversi personali, tutti egualmente importanti, tutti egualmente significativi. I profili che abbiamo raccontato e che continueremo a raccontare sono le stelle più o meno consapevoli, la parte pulsante, il manifesto dei WMA. Ecco il perché del claim condiviso con Karhu ‘Every Runner’s Rights’, ecco il perché di un’indagine che sa di essere sportiva, ma soprattutto antropologica e sociale.


This project is supported by Karhu & Karhu Running
Photography Rise Up Duo
Testi di Gianmarco Pacione
Red Star, l’altra Parigi del calcio
Il Paris Saint Germain è la squadra di calcio più glamour del mondo. Per i sobborghi parigini, però, esiste solo il nome Red Star Paris
C’è sempre un’altra Parigi. Via dalle luci, lontana dagli Champs Élysées e dai miliardi degli Emiri. Scordandosi di Kylian Mbappé, di Neymar, di Messi e Thiago Silva, ti inoltri in una metropoli che sarebbe piaciuta a Émile Zola e a Victor Hugo e, più di tutti, a Marcel Proust: alla ricerca del tempo perduto.
Saint-Ouen è un sobborgo della zona Nord della capitale francese. Per i turisti, il quartiere è noto perché ospita il mercato delle pulci più popolare della capitale. Qui abita il Red Star Paris.


Il simbolo, una stella rossa posta al centro di un riquadro verde, è il fulcro di articolate disamine che intendono chiarirne la provenienza. Tra queste, una fa riferimento al suggerimento di Miss Jenny, governante della famiglia di Jules Rimet, che tutti ricordano come l’ideatore della Coppa del Mondo, nonché quale più longevo presidente della FIFA, ma che è stato anche il fondatore del Red Star, nel 1897.
Rimet diede vita al club in un piccolo caffè parigino. All’epoca era uno studente di giurisprudenza. Avrebbe cambiato il calcio, ma intanto cercava di farlo attecchire nel territorio della capitale. Jenny avrebbe scelto il nome della squadra dedicandolo alla compagnia navale Red Star, che con i suoi transatlantici portava dall’Europa all’America migliaia di emigranti, solcando l’oceano sulla rotta tra Anversa e Coney Island.
Leggenda o verità, di sicuro il bianco e il verde, che sono i colori della società, sono divenuti un emblema resistenziale. Un dato di fatto, questo, evidenziato fin dall’iconografia che contrappone al Paris Saint-Germain il Red Star, che è di stanza in uno stadio, il vecchio Bauer, dalle tribune rugginose e per cui è stato necessario progettare una sollecita e laboriosa ristrutturazione, sostenuta anche dall’ex Presidente della Repubblica, François Hollande, non nuovo a frequentare le tribune dell’impianto e così coinvolto da non esitare a convincere a seguirlo pure dei ministri dell’Esecutivo.

Ma il tratto politico del Red Star ha una definizione che porta alla Seconda Guerra Mondiale. Espressione di un quartiere popolare, un distretto della classe lavoratrice in cui la lotta all’occupazione nazista era forte, a far parte della squadra era anche Rino Della Negra, un giocatore i cui genitori erano italiani e che, durante il conflitto, era entrato in un gruppo partigiano dalle posizioni comuniste. Ferito e catturato dai tedeschi nel 1944, venne giustiziato.
L’ultimo messaggio che fece recapitare in una lettera spedita al fratello Sylvain prima dell’esecuzione conteneva un saluto: “Envoie l’adieu et le bonjour à tout le Red Star”. Dì addio e buongiorno a tutto il Red Star.

Da sempre leva d’integrazione, con molti calciatori dal doppio passaporto, e allenato, in passato, da Steve Marlet, martinicano nato a Phitiviers, piccolo comune nella regione della Loira, con una buonissima carriera tra i professionisti, con 23 presenze e 6 segnati tra il 2000 e il 2004 con la nazionale francese, il Red Star si è guadagnato un culto di nicchia che lo rende l’esatto contrario del PSG.
Se al Parco dei Principi ha trovato piena consistenza il turbocapitalismo del calcio, la legittimazione della deregulation applicata allo sport, il superamento dell’identità comprato con centinaia di milioni di euro e la nascita per partenogenesi di un tifoso-non tifoso, ma puro cliente, al Bauer c’è la replica romantica e malinconica a questi concetti.

Il Red Star ha brillato nella prima metà del secolo scorso, ha vinto quattro coppe di Francia, ma il declino che ne è seguito è stato continuo, con ripetuti saliscendi e interminabili difficoltà finanziarie. Nonostante tutto, il Red Star non conosce l’abbandono alla dittatura del calcio moderno.
L’unico compromesso accettato è stato quello che ha portato a firmare un accordo di fornitura delle maglie e di apporre sulla casacca il marchio di uno sponsor. Il resto è una rivolta permanente, gestita con meticoloso senso dell’equilibrio da Patrice Haddad, produttore cinematografico che dal 2008 è presidente e proprietario del club.


Il lancio delle nuove divise Kappa, create in collaborazione con il brand Lack of Guidance, è l’ennesima dimostrazione tangibile della filosofia Red Star. Una filosofia che attinge dalla nostalgia calcistica, dal minimalismo estetico destinato a divenire forma di culto, e che si sublima in una produzione multimediale incentrata sul rapporto tra il contesto socio-territoriale parigino e il Red Star: squadra-epicentro di una comunità che in 125 anni di storia non ha mai smesso di essere ribelle.
Testi di Matteo Fontana
Behind the Lights – Joe Hale
Il fotografo newyorchese che tratta il running come materia socio-antropologica
Gli scatti di Joe Hale pulsano una passione assoluta, nata e sviluppata attorno ai campi di atletica. La corsa è il fulcro della ricerca artistica di questo atleta, studente e (soprattutto) fotografo newyorchese.


La sua galleria visiva, popolata di strette corsie e ampie falcate, di volti contratti e braccia trionfanti, ci mostra prospettive e situazioni inconsuete, emozioni e condizioni sportive riconoscibili solo da chi non ha potuto fare altro che votarsi all’arte della velocità, alla tanto filosofica, quanto concreta ricerca del miglior tempo assoluto.
“Ho iniziato a correre a 12 anni e da quel momento non ho più smesso. Ho fatto di tutto, dal cross country all’indoor, continuando in high school e al Manhattan College, che vanta un team di Division 1. Grazie all’atletica ho scoperto per puro caso la fotografia. Negli anni liceali decisi di prendere in prestito una macchina fotografica da un mio amico e iniziai a scattare nel mezzo di un meeting. Mi piacque così tanto… Da quel momento non ho più smesso. Pensate che durante il mio senior year portavo la macchina con me ad ogni evento, amavo il fatto di documentare tutto: ritraevo i miei compagni di squadra e i dettagli che ci circondavano, ma anche gli amici provenienti da altre scuole”



Tra classi fotografiche e appuntamenti sportivi, Joe scopre uno dei più grandi poteri della fotografia: la capacità di creare connessioni umane. La sua lente diventa una strumento per condividere ed esaltare un vibrante interesse comune, per intessere rapporti sociali, per entrare ancora più attivamente a far parte di una community trasversale, rivestendo un doppio ruolo: quello di corridore e ritrattista.
“Tutti i weekend ero sulle piste, pronto a seguire e documentare anche i peggiori meeting. Per me fotografare significava fare qualcosa di differente, era estremamente stimolante. Sono sempre stato una persona socievole, mi piace stare in mezzo agli altri, parlare, condividere, e la macchina fotografica mi ha dato la possibilità di penetrare ancora di più nella community del running. I miei lavori riflettono tutto questo: tanti scatti sono dei ritratti stretti, perché ho sempre trovato interessante vedere quanti volti si palesano ad ogni meeting, carpire le personalità dei vari atleti, cristallizzare i loro momenti emotivi utilizzando particolari angolazioni. Tutti i runner sono uniti dagli stessi desideri e obiettivi, ma hanno provenienze e storie differenti… È questo ciò che più m’interessa: il brulicante movimento sociale costruito attorno alla sfida sportiva. Pensate ad una maratona, per esempio, e al numero di individui coinvolti. O pensate ad una delle tante crew newyorchesi formate da runner di ogni nazionalità, da professionisti di ogni tipo…”

Attraverso questa ricerca antropologica, Joe entra in contatto con le più disparate realtà, cominciando a collaborare con brand specializzati (Adidas, Nike, Under Armour, Diadora, On Running…), squadre nazionali (è il fotografo ufficiale della selezione portoghese) e team progressisti come il Tinman Elite. Joe ha avuto modo di passare oltre un anno della sua vita proprio con questo team, raggiungendo le montagne del Colorado nel periodo pandemico per seguire da vicino la preparazione olimpica di alcuni membri di questo gruppo elitario.
“È stata un’esperienza magnifica. Ho avuto la possibilità di vivere a contatto con questi sportivi di altissimo livello, di fotografarli giorno dopo giorno, e di venire coinvolto in un progetto organizzato da Adidas, che stava sviluppando una nuova scarpa insieme ai membri del team. L’emozione più grande l’ho vissuta quando ho visto una delle mie foto esposta in una vetrina di un negozio Adidas in pieno centro a New York…”
Non è un caso se il nome di Joe Hale al giorno d’oggi è uno dei più rinomati all’interno del panorama del ‘performance running’. In fondo non ci sono segreti nella sua originale espressione visiva: tutto ruota attorno alla comprensione dell’istante, alla conoscenza del singolo gesto atletico, alla consapevolezza di un lavoro che attinge dal proprio amore sportivo, e viceversa.





Gli impegni professionali di Joe attualmente si divisono tra progetti sulla pista, shooting in studio ed editoriali dal respiro internazionale. Lavori dalle molte sfaccettature che, con ogni probabilità, mai lo vedranno bbandonare il profumo del tartan e che presto potrebbe condurlo nei grandi stadi di Parigi e Los Angeles, prossimi teatri dei sogni olimpici e delle più rapide gambe al mondo.
Credits: Joe Hale
IG @jkh_photo
josephkhale.com
Testi di Gianmarco Pacione
5 installazioni in cui lo sport è diventato arte
Una raccolta delle più affascinanti e monumentali opere d’arte influenzate dallo sport
Quello tra sport ed arte è un legame semplicemente eterno, il cui principale punto di contatto è probabilmente la massima libertà espressiva. Arte e sport sono un linguaggio globale in grado non solo di unire culture e personalità differenti, ma anche due universi diametralmente opposti come quello sacro e quello profano.

Per mezzo dell’installazione “Untitled (plot for dialogue)” realizzata presso lo spazio Converso a Milano, l’artista americano Asad Raza ha individuato nel tennis il trait d’union tra lo sport e la dimensione religiosa. La suggestiva cornice cinquecentesca della chiesa sconsacrata di San Paolo Converso si è curiosamente trasformata in una sorta di circolo tennistico dove trovare avversari, allenatori ed una buona tazza di tè al gelsomino. Attraverso il botta e risposta tipico del tennis, Raza rivoluziona lo schema comunicativo verticale che caratterizza la maggioranza dei credi religiosi. L’assoluto silenzio con cui si assiste agli scambi di un match è un altro punto di contatto con la concentrazione imposta durante una funzione ecclesiastica. La pallina che rimbalza veloce da una parte all’altra del campo crea dei piccoli momenti di sospensione: brevi attimi in cui meditare ed avere fede proprio come se stessimo dialogando con un’entità ultraterrena.

Un prato verde, gli alberi. Quello tra natura, sport ed arte è un rapporto complesso, dove la spazialità gioca spesso un ruolo fondamentale. Nel 2019 l’artista svizzero Klaus Littmann realizza “For Forest”, un’impattante installazione artistica dove la sfera sportiva e quella naturale si uniscono in un unico universo.
Ispirato dal disegno di Max Peinter “L’infinito spettacolo della natura”, Littmann ha ricoperto l’intero manto erboso del Wörthersee Stadion di Klagenfurt con ben duecentonovantanove alberi diversi che rappresentano gran parte della varietà forestale europea. Comunemente associato ad eventi sportivi che coinvolgono decine di migliaia di spettatori, la spettacolarizzazione naturalistica di Littmann non si limita solamente a celebrare la biodiversità, ma vuole invitare il maggior numero di persone possibili a riflettere sull’importanza di salvaguardare un bene prezioso come la natura stessa.


La sabbia rovente, il torrido caldo estivo. Gruppi di amici ed un pallone. Quello che sembra essere uno scenario estivo piuttosto ordinario viene messo a soqquadro dal genio artistico di Benedetto Bufalino.
In occasione della Biennale Internazionale di Arte Contemporanea di Anglet, l’artista italofrancese ha realizzato un’installazione che combina magistralmente arte e sport: ciò che dall’alto sembrerebbe un normale campo da calcetto, è in realtà una sorta di fortezza sportiva composta da piccole mura che fungono da linee del campo. Da sempre particolarmente avvezzo al creare opere interattive, il singolare campo da calcio realizzato da Bufalino è simile ad un’infantile costruzione realizzata con i LEGO, dove il sacrificio atletico e la collaborazione tra compagni di squadra è fondamentale viste le difficoltà create dai muretti.
Rivoluzionare la monotonia dello spazio urbano. Donare nuova vita ai palazzi grigi di periferia. L’arte, ancora una volta, si conferma un eccellente mezzo per riqualificare degli spazi apparentemente dimenticati come quelli della banlieu. Quello tra l’artista francese JR ed il Brasile è un legame intenso, vivo. Iniziato nel 2008 con l’opera “Women Are Heroes” realizzata a Moro de Providencia, è proseguito in occasione dei Giochi Olimpici di Rio de Janeiro, dove il transalpino ha deciso di omaggiare il più importante evento sportivo al mondo con delle gigantesche installazioni artistiche rappresentanti tre atleti olimpici.
Mentre il saltatore sudanese Younes Idris conquista i tetti di un palazzo in Avenida Rui Barbosa, Cleuson Lima Do Rosario sembra pronto a tuffarsi nel mare di casa a Barra da Tijuca. L’ultima atleta scelta da JR è Léonie Périault, medaglia d’oro nel triathlon agli europei di Glasgow nel 2018, che in questa installazione fende le acque della spiaggia di Botafogo. Lo sport è senza ombra di dubbio radicato nella cultura popolare ed è per questo motivo che lo street artist francese ha scelto degli atleti solitamente lontani dai riflettori per le sue sensazionali opere.


Quello tra sport ed arte è un rapporto tanto semplice quanto potenzialmente complesso, proprio come quello tra individuo e collettività. Creare opere interattive permette l’unione di tutte queste sfere, come dimostrano le opere realizzate da Koo Jeong A ed il collettivo tedesco Inges Idee.
In occasione della Triennale di Milano l’artista sudcoreana ha realizzato “OooOoO”, uno fluorescente skatepark multisensoriale che incentiva il visitatore ad una partecipazione attiva dello spazio.
Rivisitare il comune rapporto uomo-spazio è il concept con cui è nata anche l’installazione di Inges Idee: quello che apparentemente sembra un semplice playground è in realtà un complesso sistema di piccoli dossi, zone più pianeggianti, aree dinamiche ed angoli dove rilassarsi. In entrambe le opere è il visitatore stesso a sconvolgere il rapporto che ha con lo spazio, diventando l’artefice principale di un’anarchica rivoluzione personale e spaziale.
Sebbene il numero di installazioni artistiche a tema sportivo sia ancora limitato, quello tra sport ed arte è un legame che offre infinite possibilità di sviluppo creativo: non ci resta che scoprire quale sarà il prossimo stadio o sport ad essere rivoluzionato.
Testi di Filippo Vianello