Juliett Bruley, ispirare attraverso la scatto fisso

L’artigiana e rider parigina che dedica la propria vita alle due ruote

Les routes, les chemins. Esplorare le strade, gli itinerari urbani di Parigi vuol dire abbandonarsi ad un processo d’involontaria contaminazione, di cicliche scoperte estetiche e sensoriali. Ogni arrondissement bagnato dalla Senna risucchia ruote e manubri in un piano sequenza dal sapore di Nouvelle Vague e clima metropolitano, di eclettismo architettonico e caotico turbinio contemporaneo.

“Pedalare qui è pericoloso, è adrenalinico. È difficile, è soddisfacente”. In sella alla sua scatto fisso, Juliett Bruley riverbera i nitidi e infiniti bagliori della Ville Lumière. Design minimalista e ammaliante cromatismo si riflettono nelle parole di questa moderna artigiana della bicicletta, nelle sue effervescenti pedalate. “Davanti ai miei occhi alcune bici diventano delle vere e proprie opere d’arte. Sulla scatto fisso mi sento meglio, mi sento completa, la mia mente si libera di tutto. Il rapporto d’amore, perché di questo si tratta, con questi oggetti è un qualcosa d’innato. Mio nonno, mio zio, tutta la famiglia… La bicicletta è sempre stata parte di me, è sempre stata un punto fisso nei miei pensieri, nella mia immaginazione”.

Attorno a Juliett si staglia una ferrosa e colorata cornice di telai: un panorama quotidiano, un habitat naturale. Siamo all’interno del suo atelier de velós, della piccola officina dove bici di ogni genere riprendono vita grazie alle mani di questa scultrice della velocità. “Ho sempre lavorato sulle biciclette, fin da quando ero bambina. Ho iniziato guardando dei video e tutto si è evoluto semplicemente, naturalmente. Ora ho 25 anni e so già cosa voglio fare per il resto della mia vita”, dice dando le spalle un ordinato gruppo di selle, “Ogni giorno, tra riparazioni e pedalate, passo più di dieci ore a contatto con le bici. Per me questa è una filosofia di vita totalizzante: ho persino traslocato con la mia scatto fisso, trasportare il sofà è stata la parte più divertente…”.

Una filosofia di vita che plasma una sottocultura. Una sottocultura che plasma scenari urbani, menti creative e comunità cosmopolite. Juliett è ambasciatrice di un movimento che non ha limiti geografici o differenze di genere, di una religione profana, quella del ciclismo senza freni, che ispira ricerche visuali e tendenze streetwear, sforzi sportivi ed evoluzioni sociali: “Parigi, Berlino, New York, Tokyo, anche Jakarta… Ogni città ha una propria comunità di scatto fisso e tutte le comunità sono in relazione tra loro. La scatto fisso mi ha permesso di entrare in contatto con la fotografia e l’arte contemporanea, con precisi canoni stilistici. Nella nostra community non si tratta solo di pedalare, ma anche di come pedalare: siamo parte di una corrente culturale e sportiva a tutto tondo. Quando ho iniziato ad uscire in gruppo, una decina d’anni fa, eravamo solo tre ragazze. Oggi siamo tantissime. Spero che qualcuna di loro sia stata motivata dalla mia presenza e dalle mie azioni, spero che altre lo possano essere in futuro”.

This project is supported by CAT WWR
Rider Juliett Bruley
Photography Rise Up Duo
Video Riccardo Romani
Testi di Gianmarco Pacione


Watchlist – Hustle

Adam Sandler e Juancho Hernangómez ci portano alla scoperta delle dinamiche NBA e delle connessioni umane nella nuova pellicola Netflix

È uscita in questi giorni la pellicola ‘Hustle’, una produzione Netflix che parla, che respira pallacanestro e che, contemporaneamente, utilizza le complesse dinamiche di scouting NBA per narrare qualcosa di ancora più enigmatico rispetto a statistiche, pick e prestazioni: le innumerevoli sfaccettature di ogni essere umano.

Stanley Sugarman, interpretato da un ottimo Adam Sandler (notevole appassionato e praticante all’esterno dei set), funge da scout giramondo per i Philadelphia 76ers. Imbolsito e con una carriera cestistica tragicamente troncata alle spalle, questo marito e padre perennemente in tuta prova a coronare il proprio sogno di diventare assistente allenatore nella franchigia della Città dell’Amore Fraterno. La scalata però è costretta a fermarsi per l’improvvisa morte dello storico Presidente, suo grande estimatore, e Stanley è costretto a fronteggiare un’obbligata involuzione professionale, a tornare in Europa e a ricercare un talento che possa permettergli di tornare in auge nell’organigramma societario.

Nell’oscura periferia spagnola, ormai privo di speranze, Stanley incontra casualmente Bo Cruz: un diamante grezzo fuori da qualsiasi radar cestistico, impegnato in una serie di ruvide ed esaltanti battaglie da playground. Quest’epifania che risulta, va detto, alquanto inverosimile, innesca un rapporto di profonda amicizia che porta Stanley a puntare tutto, patrimonio personale compreso, sulla potenziale carriera NBA di uno sconosciuto 22enne.

Sconosciuto di certo non è l’attore che interpreta Cruz, trattasi difatti di Juancho Hernangómez, splendido tiratore attualmente in forza agli Utah Jazz. Juancho ricalca in ‘Hustle’ le orme di tanti colleghi passati prima di lui sul grande schermo: uno su tutti Ray Allen, o meglio Jesus Shuttlesworth nel magico ‘He Got Game’, ipnotico romanzo visuale marchiato Spike Lee.

Anche il giocatore spagnolo non sfigura davanti alle telecamere, risultando convincente oltre ogni aspettativa: esito considerevole, soprattutto alla luce delle sue candide ammissioni, “Sono innamorato del basket, voglio solo giocare a basket. Quest’opportunità si è materializzata per la noia. Durante il lockdown ero a casa con mia sorella e con mio fratello (Willy, centro dei Pelicans), abbiamo messo il cellulare sul muro e ho provato a seguire lo script, improvvisando. Questo è stato il mio casting. Non ho mai sognato di fare l’attore, ma la produzione ha intravisto qualcosa in quel video, anche se non so bene cosa…”.

Tra passati nebulosi, scatti d’ira, riferimenti a Rocky Balboa e promesse mai mantenute, Stanley e Bo provano così a farsi strada nell’intricato sottobosco NBA, scoprendo delusione dopo delusione, allenamento dopo allenamento, qualcosa in più dell’altro e creando una connessione intima, in cui la pallacanestro si tramuta in strumento per scandagliare le profondità e le debolezze altrui.

Le riflessioni trasversali inserite nella pellicola prodotta (anche) da LeBron James e girata da Jeremiah Zagar s’innestano in un tessuto cestistico incredibilmente dettagliato. L’accesso alle vere strutture dei Sixers, la Draft Combine, i riferimenti alle squadre europee (Real Madrid, Alba Berlino, Olympiacos per citarne alcune…), i volti noti di dirigenti/opinionisti e, soprattutto, la presenza di un infinito mosaico di stelle NBA sono tutti segni di una gustosa e soddisfacente autenticità ambientale.

Basta un elenco di nomi per comprendere quanta NBA sia stata raccolta in questo film: Moe Wagner, Boban Marjanovic, Matisse Thybulle, Tobias Harris, Kyle Lowry, Tyrese Maxey, Seth Curry, Jordan Clarkson, Aaron Gordon, Trae Young, Luka Doncic, Willy Hernangómez, Anthony Edwards, stesso e i più datati, ma leggendari Kenny Smith, Julius Erving, Doc Rivers, Allen Iverson, Charles Barkley, Dirk Nowitzki e Shaquille O’Neal Un’apoteosi cestistica che mai dà però l’impressione di corrompere la pellicola, di renderla caricaturale, delineando invece un’habitat credibile in cui si possono irradiare le improbabili gesta di Bo Cruz.

Nel complesso ‘Hustle’ risulta essere un film godibile, sia per la qualità di scrittura, con la sceneggiatura di Taylor Materne capace di toccare alte corde emotive, sia per l’attenta analisi filmica dell’universo NBA che, per quanto ovviamente imprecisa e non documentaristica, ci consente comunque d’immergerci nello scintillante, esclusivo e durissimo gotha della pallacanestro mondiale, facendoci scoprire qualcosa in più riguardo le sue leggi, le sue dinamiche e i suoi protagonisti.

PH & VIDEO Netflix
Testi di Gianmarco Pacione


The British-American Football

Il football americano sta cercando casa in una terra ostile, la Gran Bretagna

È difficile trovare una terra tanto ostile. Pensate per un attimo al football made in USA, alla sua capacità di paralizzare l’intera America durante la sacra funzione del Super Bowl, alle orde oceaniche di tifosi che accompagnano regolarmente le partite collegiali, ai mastodontici dome NFL che circondano field goal e touchdown, huddle e linee di scrimmage. Pensate ora allo status che vanta questo sport ad un oceano di distanza, nella diffidente Isola del Regno Unito.

È difficile trovare una terra tanto ostile, già. Là dove prima il rugby, poi il calcio videro la luce, là dove la linea nobiliare di queste due discipline non ha smesso per un istante di pulsare passione, là dove la palla ovale preferisce essere passata all’indietro e la parola football fa unicamente rima con gol. Proprio là, nel peggiore dei feudi da conquistare, questo sport nato e cresciuto in America sta stringendo attorno a sé, contro ogni aspettativa, una nicchia di adepti.

“C’è un interesse crescente, soprattutto a livello universitario”, ci racconta il fotografo Anselm Ebulue, “Al college molti ragazzi scoprono realmente il football americano, capiscono che si tratta di uno sport altamente cerebrale, dove strategia ed efficienza sono le chiavi per il successo”. Il suo reportage visivo ci presenta il caso degli Imperial College Immortals: un’enclave londinese di divulgatori di yard e flag, un’atipica comunità che sta provando, insieme ad altre realtà analoghe, ad attuare un complesso processo di colonizzazione sportiva inversa. Gustatevi questo viaggio oltremanica.

PH Anselm Ebulue
anselmebulue.com
IG @anselm.ebulue
Testi di Gianmarco Pacione