Eliud Kipchoge, l’eredità va oltre i record mondiali
Corsa e ambientalismo. Grandezza sportiva e umana. Nike racconta le ispirate volontà del più grande maratone della storia
“Non abbiamo più il controllo di ciò che è passato, ma possiamo controllare dove siamo ora e dove siamo diretti”
La serie ‘What Are You Working On’, griffata da Nike, ci porta alla scoperta dello speciale universo personale di Eliud Kipchoge. Il leggendario maratoneta keniota viene ritratto nella sua comunità di Kaptagat durante il ritorno dalle ultime Olimpiadi di Tokyo, manifestazione che gli ha regalato il secondo oro a cinque cerchi e che ha ulteriormente impreziosito uno status da mito sportivo.

In questa suggestiva produzione, l’aria di casa permette a Kipchoge di riflettere su passato e futuro familiare, sulla sincera volontà di lavorare nella propria fattoria, sull’intenso e totalizzante rapporto con la corsa, soprattutto sulla tematica ambientale: argomento particolarmente caro al re all time dei 42 chilometri. Kipchoge attraverso la propria Fondazione ha deciso di piantare 50mila alberi nella sua terra, con l’intento di lasciare alle nuove generazioni molto più del semplice esempio sportivo.





Gustate questo affascinante cortometraggio, un vero e proprio testamento personale, e ascoltate le ispirate parole di quest’uomo capace di unire filosofia podistica e profondità umana.
Talent Eliud Kipchoge
Photo & Video Nike
Testi di Gianmarco Pacione
Quando il freestyle si colora d’arte contemporanea
The Nines, Red Bull e i migliori freestyler delle nevi hanno creato una performance unica nel suo genere tra le montagne di Crans-Montana
La vorticosa estrosità dell’apparato creativo Red Bull e la piattaforma The Nines, paradiso del freestyle in ogni sua potenziale forma, si sono unite per dare vita a un variopinto progetto visivo.
Le bianche nevi della nota località turistica svizzera di Crans-Montana in queste adrenaliniche immagini vengono affrescate da colorati fumogeni: insoliti pennelli maneggiati dai migliori freestyler mondiali. L’esito di questa installazione artistico-sportiva è un vivace festival alpino, un ordinato caleidoscopio di trick e cromie.

I rider che si alternano tra dossi e vortici fumosi sono Valentino Guseli, Nico Vuignier, Jesper Tjäder, Jennie Lee Burmasson, Fabi Bösch, Hailey Langland, Mac Forehand, Luke Winkelman, Matej Svancer, Thibault Magnin, Fridtjof Tischendorf, Max Moffat, Hiroto Ogiwara, Kaito Hamada, Kim Gubser, Lukas Muelleauer, Moritz Boll, Niek van der Velden, Alex Hall, Andri Ragettli, Kirsty Muir, Mia Brookes, Yuka Fujimori, Pat Burgener e Taylor Brooke Lundquist: fondamentalmente il gotha del freestyle snow e sciistico internazionale.
Le loro gesta, oltre ad essere catturate dai video di droni e videomaker, sono state ritratte dalle lenti fotografiche di Theo Acworth e Florian Breitenberger. Buona visione.
Text by: Gianmarco Pacione
Jake Daniels, un coming out per cambiare il calcio intero
È servito il coraggio di un 17enne per infrangere uno dei più grandi tabù del pallone
Il nervoso su e giù delle gambe, le mani giunte, lo sguardo fisso. Piccoli dettagli che formano “un grande momento per il calcio”, come lo ha definito la leggenda del Manchester United, ora opinionista, Gary Neville. Jake Daniels, 17enne attaccante del Blackpool, ha infranto un tabù apparentemente impossibile anche solo da scalfire, anche solo da sfiorare: ha dichiarato pubblicamente la propria omosessualità, di fatto diventando il primo calciatore professionista britannico in attività a farlo dal lontanissimo 1990, dalla tragica esistenza di Justin Fashanu.
“Ho mentito per così tanto tempo, ho riflettuto e riflettuto tutti i giorni su come e quando avrei dovuto farlo. Ora è il momento giusto. Voglio che le persone conoscano la mia storia, voglio che le persone conoscano il vero me, non voglio mentire per tutto il tempo. È stata dura, ma ora sono pronto ad essere me stesso”, racconta all’inizio di una lunga e profonda intervista rilasciata a Sky.
L’interno di una spogliatoio, le divise arancio-mandarino dei ‘Seasiders’, la tensione che diventa liberazione parola dopo parola, respiro dopo respiro. La testimonianza di Daniels è un attimo di semplice, complessa storia socio-sportiva: “Non so di preciso quando ho capito di essere gay, posso dire a 5 o 6 anni. A quell’età non pensi che sia possibile essere calciatore e, contemporaneamente, omosessuale: pensi che quelle due condizioni non possano coincidere”. Un assunto che non si può smentire. Le giovani e dirette parole di Daniels inquadrano difatti uno dei lati più oscuri dell’universo calcistico: quello della virilità dominante, del machismo totalizzante. Un retaggio alimentato costantemente da organi di stampa, o presunti tali, che mai hanno smesso di dedicare fiumi d’inchiostro alle conquiste del campione-latin lover, al dualismo capitano-velina/letterina/ora influencer e alla deprimente filosofia bomberista, continuando a tramandare, scoop dopo scoop, l’obbligata associazione calciatore-icona eterosessuale.

La tipica narrazione unica che, inevitabilmente, si è tradotta e riversata in modo ciclico nel sacro tempio dello spogliatoio, nel suo codice linguistico-comportamentale, nelle sue leggi non scritte. “Lungo la mia adolescenza pensavo che avrei trovato una ragazza, che sarei cambiato, che tutto si sarebbe sistemato. Crescendo, però, ho realizzato che tutto questo non era possibile. Ho avuto diverse fidanzate in passato, solo per far credere ai miei amici che fossi ‘giusto’, ma erano solo un’enorme copertura. A scuola tutti mi domandavano se fossi sicuro di non essere gay, rispondevo di sì, ma stavo mentendo”, prosegue Daniels, “Non c’era nessun calciatore dichiaratamente omosessuale da cui trarre ispirazione. I calciatori vogliono essere associati al concetto di mascolinità, di virilità e l’essere gay per molti equivale ad essere debole, questo può influenzare l’ambiente attorno a te, così come le scelte e le situazioni di campo. Nessuno ha deciso di fare coming out perché è sempre mancato un role model da seguire, io vorrei esserlo”.
I nobili intenti di questo coraggioso 17enne hanno immediatamente trovato il supporto di compagni di squadra, società e organi federali, oltre all’ammirata approvazione di molti colleghi, tra cui l’ex centrocampista tedesco Thomas Hitzlsperger, dichiaratosi gay poco dopo il ritiro dal calcio giocato.

The hope, now, is that this wave of solidarity may open the door to many more similar testimonies, may stimulate even high-ranking players to lay down artifactual masks and to educate, through the courage of the truth, the new generations to an inclusive football: “I am only 17 but I am clear that this is what I want to do and if, by me coming out, other people look at me and feel maybe they can do it as well, that would be brilliant. If they think this kid is brave enough do this, I will be able to do it too. I hate knowing people are in the same situation I was in. I think if a Premier League footballer does come out that would just be amazing. I feel like I would have done my job and inspired someone else to do that. I just want it to go up from here. We shouldn’t be where we are right now. I know that every situation is different and that there are a lot of different factors for other people to consider that will scare them a lot, especially in football. And if you think you are ready, then speak to people”.
Credits: Cedric Dasesson
Text by: Gianmarco Pacione
Behind the Lights – Dave Imms
Il fotografo che, grazie all’atto sportivo, riesce a ritrarre l’intima condizione umana
“Mi piace ritrarre la condizione umana e lo sport mi consente di farlo. Lo sforzo, la fatica, la stanchezza… Sono tutti elementi che mi permettono di andare oltre il semplice storytelling atletico, di rappresentare l’essere umano e ciò che lo caratterizza”. Gli scatti di Dave Imms sono celebrazioni dell’individuo, sono pellegrinaggi antropologici, sono istantanee che attingono dagli universi contemporanei del fashion, dell’architettura, del design, per esaltare l’eccezionalità del pensiero interiore, la meraviglia del movimento esteriore.

Nativo di Brighton e, giusto specificarlo, tifosissimo dei ‘Seagulls’ attualmente impegnati in Premier League, questo talentuoso fotografo britannico fonda la propria ricerca artistica sullo studio dell’emozione, ma non solo, anche su un’estrema attenzione dedicata al rapporto tra luci e colori: “Le mie principali fonti d’ispirazione sono esterne all’ambito sportivo, ecco perché amo la fotografia artistica di Nadav Kander e Christopher Anderson. La mia celebrazione dell’atto sportivo passa dall’utilizzo delle gelatine e da una sperimentazione continua delle luci. Sto molto attento anche al dialogo tra i soggetti e lo spazio. In uno dei miei primi reportage ho fotografato dei giocatori di squash: quegli scatti hanno definito una filosofia che seguo ancora oggi, a oltre dieci anni di distanza. È una serie che riguarda le persone in quanto tali, non in quanto sportivi”.





E per ritrarre le persone, è innegabile, bisogna stabilire rapporti che vadano oltre il semplice scatto. Sinergia, empatia: l’habitat fotografico di Dave Imms si stabilisce proprio qui, in una socievole comfort zone creata per mettere a proprio agio i protagonisti dei suoi lavori, per permettere loro di esprimere un’essenza reale e non artefatta. “Si tratta di connessione umana. Prima di ogni shooting sono sempre nervoso, poi entro nel ‘momentum’ e provo a stabilire un rapporto con ogni persona. Quando fotografo persone ‘reali’ devo limitare il loro nervosismo, quando invece ho a che fare con atleti professionisti devo pensare a molti altri fattori: in primis devo stare attento alla loro incolumità, in secondo luogo devo cercare di ammorbidire le loro resistenze. So che per i vari Moise Kean e Thomas Müller gli shooting sono una semplice clausola contrattuale da rispettare, ma creando il giusto clima credo si possa stabilire una connessione anche con stelle di questo calibro”.




Il racconto della condizione umana, nella proposta visuale di Dave, passa anche dall’attenzione ai dettagli, da un plurimo focus narrativo che dà eguale rilevanza ad oggetti e persone, a scenari e azioni fisiche, divenendo quasi un’opera di ricerca cinematografica: “Mi piace pensare alle mie fotografie come a dei video. Se devo ritrarre un giocatore di baseball, per esempio, e so che ho cinque fotografie per poterlo fare, spezzetto quello che lo circonda, quello che lo rappresenta. Parlo del campo, degli strumenti di gioco, ma anche del suo volto, della sua divisa. Il racconto deve incapsulare tutto questo, deve essere un’esplorazione complessiva del soggetto e della sua passione”.







Dalle onde senegalesi, dove Dave è entrato in contatto con la scuola di surf femminile Black Girls Surf, ai lavori in studio, commissionati da brand di livello internazionale. La linea visuale di Dave Imms resta sempre fedele a sé stessa, all’idea di un’arte che vuole essere forma di scoperta, prima che lavoro. “A Dakar è stato fantastico. Ho incontrato ragazze che non dispongono di strutture all’avanguardia, ma che amano incondizionatamente le tavole. Ho imparato quanto sia radicata la cultura del surf in quel territorio e ho avuto la possibilità d’immortalare panorami mozzafiato. In studio le cose cambiano, è ovvio, e il mio occhio si concentra molto di più sul concetto di movimento. Il tennis sotto questo punto di vista è uno sport perfetto, il basket invece mi consente di mescolare il gesto tecnico-fisico con l’immaginario fashion. In futuro mi piacerebbe concentrarmi su altri sport che hanno potenziale visivo: il golf, per esempio. Mi sono innamorato della sua terminologia, nomi come albatross o birdie creano immagini nella mia mente e mi affascina l’idea di ritrarre le capacità tecniche di un golfista. Ci rifletterò su per un po’, poi vedrò come strutturare questo nuovo lavoro”






Credits: Dave Imms
IG @daveimms
daveimms.com
Testi di Gianmarco Pacione
Patrick Seabase il ciclismo è una filosofia personale
Lo svizzero che, grazie alla bici, associa vette e minimalismo, introspezione e architettura
“Cerco le aree remote del mondo: luoghi dove posso sentirmi solo, dove si annullano distrazioni o restrizioni, dove a sostenermi è semplicemente la natura. In questi scenari vengo inondato da infiniti stimoli, tutto risulta molto più saturo. Conquistare una montagna, poi, è un qualcosa di estremamente potente, arrivare in cima grazie al proprio corpo e all’aiuto della bicicletta è estasiante”. La voce di Patrick Seabase pedala tra forza metaforica e capacità di suggestionare, ci spinge in luoghi reconditi, ci permette di esplorare universi ibridi, esteriori ed interiori, tangibili e intangibili.

“Più vai in bici, più la relazione con questo elemento diventa intensa. Credo sia un paradigma valido per qualsiasi passione, come dipingere o suonare uno strumento. È un processo graduale, che senti evolvere nel tuo subconscio”. Per questo ultra atleta svizzero la relazione con la bici rappresenta ben più delle imprese sportive, delle moderne chanson de geste che negli ultimi anni è riuscito ad ideare e completare sulle strade di mezzo mondo: sfide epiche, che hanno portato le sue gambe a dominare sublimi dislivelli e infinite ultramaratone su due ruote.


Il suo modo di intendere la bici pare una corrente filosofica privata, personale, uno studio introspettivo della sfida atletica, dell’impresa eccezionale che sfocia in appassionata rievocazione storica, in erudita disamina antropologica. “La long ride a cui sono più affezionato è quella che ho effettuato replicando una tappa del Tour de France 1910. Amo i pionieri, amo la loro capacità di raggiungere l’impensabile, il loro pragmatismo, il loro modo di apparire. I moderni ciclisti non riescono ad ispirarmi come queste figure leggendarie. Allo stesso tempo la bici permette di alimentare la mia sfera culturale. Sono affascinato in particolar modo dall’architettura, dall’ingegneria civile, dai ponti e dalle strade. Pensate per esempio alla transizione di una strada antica verso l’asfalto… Quell’elemento diventa simbolo di un processo enorme: la civilizzazione”.






Sociologia e minimalismo, conoscenza e sforzo. Chiacchierando con Patrick il ciclismo si trasforma in polo attrattivo delle più disparate tematiche: componenti che formano coscienza e intelletto, che obbligano a riflettere sulla propria condizione umana e professionale. “Non mi vedo come un ciclista. Non faccio parte di alcuna scena, mi sento molto ‘by myself’, vado per la mia strada senza giudicare nessuno. Molte delle cose che faccio sono underground e poco commerciali: è difficile mantenere un equilibrio tra questi due poli, perché più una cosa è commerciale, più si perde il controllo creativo su di essa. E fatico a convivere con questo compromesso. Dopo anni passati sulla bici, mi sono reso conto che la mia passione si stava trasformando unicamente in lavoro e negli ultimi mesi ho deciso di prenderne le distanze. A volte devi allontanarti dalla cosa che ami per ritrovare la vera passione, la vera fiamma dentro di te”.




E allontanarsi da una cosa vuol dire anche poter avvicinarsi ad un’altra. Patrick ha avuto modo di farlo con l’arte fotografica: strumento fondamentale per una necessaria evoluzione personale e per porre l’attenzione su un nuovo progetto, distante da pedali e manubri. “Durante la pandemia ero bloccato in America con un telaio rotto. Così ho iniziato a fare lunghe escursioni e a fotografare. Concentrarmi sulla fotografia, che pratico da oltre vent’anni, mi ha permesso di maturare una nuova prospettiva su ciò che mi circonda e su me stesso. Ho capito che anche altre cose, oltre alla bicicletta, mi possono rendere felice, che più della stabilità economica, oggi, è più rilevante chi sia io come essere umano. Per questo motivo ho deciso di dare vita ad un nuovo progetto: una piattaforma che mi permetterà di raccontare cosa mi ispira, cosa mi affascina. Ne saprete di più presto”.
Photo by Phil Gale
IG 1_in_the_gutter
Athlete Patrick Seabase
IG @patrickseabase
Testi di Gianmarco Pacione
PJ Martini, la BMX come arte condivisa e scoperta individuale
Il rider parigino che vive la BMX come il più potente mezzo di espressione
“Quando sono sulla BMX ho la sensazione di essere un un artista che dipinge, un musicista che suona: la BMX è un mezzo d’espressione potentissimo. Per questo motivo credo che non ci siano rider migliori di altri, ognuno ha semplicemente il proprio modo di esprimersi sulle due ruote”. PJ Martini sistema il cappello dopo un rapido bunny hop, attorno a lui impassibili macchine sfrecciano su un metallico ponte parigino.
La sua BMX ha appena affrescato un luogo di nessuno, ha appena composto una sinfonia ascoltata da occhi distratti, persi tra semafori e impegni impellenti. L’area metropolitana, nella mente di questo rider di origini corse, è una preziosa mappa punteggiata di spot, di tele bianche su cui esprimere talento, fantasia ed emozioni. Equilibrista urbano, streetartist sportivo, le sue performance alternano verticalità e orizzontalità in ogni place o rue della capitale francese, fondendo architettura, geometrie e cultura. “È vero, la BMX è uno sport estremo e ogni infortunio me lo ricorda. Ma è soprattutto una sottocultura urbana, è parte di un flusso creativo che intreccia elementi come il design, l’arte e la moda. Nella mia vita tutto ruota attorno alla BMX e tutto ne è influenzato”.







Di fianco a PJ una struttura in marmo si solleva diagonalmente, pochi istanti e le due ruote la stanno già percorrendo. Dai passage dell’Opéra al colorato formichiere di Pigalle, il suo sguardo attento, trasportato da rapide pedalate, si sofferma su connubi di luci, linee e profili di palazzi, perché PJ Martini, oltre ad essere un rider riconosciuto a livello internazionale, è anche un ispirato videomaker. “Da quando ho iniziato con la BMX, ho sempre avuto una videocamera con me, mi aiuta a descrivere e condividere ciò che provo sulla bici. I miei video non si concentrano unicamente sui trick, ma anche su tutto ciò che li circonda, sul ‘momento’. Negli anni ho imparato ad apprezzare le unicità di ogni spot, le sue specifiche caratteristiche… È una bellezza complessiva”.






Attraverso grind e bellezza visiva PJ vuole provare ad ispirare nuove generazioni di rider, vuole far comprendere loro le infinite sfaccettature di una disciplina che, nella sua strutturata vision, è anche, se non soprattutto, strumento di scoperta sociale e individuale, potente leitmotiv di un’eterogenea condizione umana che nelle due ruote trova un linguaggio comune, privo di barriere e ineguaglianze. “La prima volta che sono entrato in un park ho capito che nella BMX potevo incanalare tutta l’energia che sentivo pulsare dentro di me. Grazie alla bici ho viaggiato in tutto il mondo, da Barcellona a Tallinn, da Londra a Copenaghen, ho stretto amicizie profonde con brasiliani, argentini, colombiani… La BMX ha plasmato ciò che sono, mi ha liberato da pregiudizi e timori relazionali. Nei park si costituisce una società utopica, dove non conta se sei povero o ricco, se vieni dalla strada o se la tua famiglia ti compra una bici a settimana. Tutti condividiamo la stessa passione, tutti condividiamo lo stesso amore”.






This project is supported by CAT WWR
Rider PJ Martini
Photography Rise Up Duo
Video Riccardo Romani
Testi di Gianmarco Pacione
Jean-Michel Basquiat e l’arte sportiva, un legame indissolubile
Dal baseball al football, dalla boxe a Jesse Owens. Nelle riflessioni socio-artistiche di Basquiat lo sport è sempre stato protagonista
Un curioso vagabondare per le strade di New York. Qualche apprezzamento alle ragazze che si incrociano, una stretta di mano ad un amico, un cenno allo spacciatore del quartiere. Uno scatto d’isteria creativa marchiato SAMO© in uno degli infiniti spazi vuoti della Grande Mela. Un’esistenza apparentemente ordinaria, comune. In quel SAMO©, tuttavia, c’è qualcosa di speciale: non è solo “SAMe Old shit”, non è il banale tag di qualche writer. È una furia artistica ai limiti dell’ossessività, l’urlo pittorico di chi dà voce ai propri demoni interiori. Tutto questo è l’essenza di Jean-Michel Basquiat, il trait d’union tra il dinamismo artistico dominato dai propri istinti e la staticità della routine quotidiana.

Quella di Basquiat è un’infanzia turbolenta: i genitori divorziano quando lui è solo un adolescente, la madre è spesso ostaggio degli istituti psichiatrici ed il padre ha comportamenti violenti. Jean-Michel, dotato di una personalità estremamente sensibile, scappa di casa ed inizia a vagabondare per le strade di New York. Basquiat ha la grande capacità di assorbire tutto ciò che lo circonda, immagazzina concetti ed idee che trasferisce successivamente nelle sue opere. Una delle più grandi fonti d’ispirazione per l’artista newyorkese è lo sport, elemento fortemente radicato nella cultura americana contemporanea.
Avere una voce, emanciparsi, essere riconosciuti sia come uomini che come campioni. Per la comunità afroamericana, di cui Basquiat stesso fa parte, lo sport è qualcosa che va oltre il divertimento o l’essere una professione. Storicamente, è stato uno dei primi mezzi in grado di dare visibilità globale ad una comunità tanto numerosa quanto oppressa e raramente ascoltata.
“Famous Negro Athletes” è uno dei primi lavori dove il genio artistico di Basquiat si fonde all’universo sportivo. La serie di artwork, nata inizialmente come graffito, è soggetta ad una duplice interpretazione. Le opere sono caratterizzate da tratti essenziali e decisi, un susseguirsi frenetico di linee che costruiscono elementi facilmente riconoscibili come una palla da baseball, la celebre corona a tre punte, volti umani bianchi, neri o di ambedue i colori. Dettagli, quelli del colore utilizzato che hanno un significato ben preciso: nel volto metà bianco e metà nero c’è denuncia sociale, ad evidenziare come le persone afro siano considerate uguali a quelle bianche solo dopo il successo sportivo. L’emblema del baseball potrebbe essere interpretato come una critica verso lo sport come unico mezzo d’emancipazione: l’arte e le carriere manageriali o politiche sono ancora un lontano miraggio negli anni ottanta.
“Non sono interessato alla vostra simpatia o antipatia…tutto quello che chiedo è che mi rispettiate come essere umano.”
Chi nel baseball ha trovato il palcoscenico per esprimere le proprie idee e per dimostrare la forza della comunità black è Jackie Robinson, seconda base dei Brooklyn Dodgers negli anni cinquanta. A lui, Basquiat dedica “Untitled” una delle sue opere a tema sportivo più celebri. Robinson è una vera e propria icona per il giovane artista di origini haitiane e portoricane, ed in “Untitled” la sua figura viene santificata dalla presenza del pubblico formato da angeli in adorazione del Dodger e dall’iconica corona. Basquiat è affascinato dal baseball, uno sport di squadra in cui l’individuo ha enormi possibilità di decidere le sorti dell’incontro. L’essere il primo giocatore afroamericano a giocare nella MLB è rappresentare in prima persona il cambiamento, l’essere il Cristo dell’universo sportivo afroamericano. Giustizia, uguaglianza, fraternità. Valori cattolici che possono essere delle interessanti chiavi di lettura per la scelta di Jackie Robinson come soggetto principale dell’opera di Basquiat.

Jean-Michel è un vero e proprio sperimentatore: opere d’arte ed oggetti di uso comune trovano nuova vita dopo esser stati filtrati dal genio creativo di Basquiat. “Anti-product Baseball Cards” è un progetto realizzato in collaborazione con Jennifer Stein volto a rivoluzionare e reinventare un mass product come le figurine. I volti e l’anagrafica dei giocatori vengono completamente cancellati, conferendo un curioso fascino anonimo ad ogni singola carta. Un appena riconoscibile Steve Henderson diventa così “Joe”, mentre “Jerk” è probabilmente Bob Randall. La perdita d’identità degli atleti è il passaggio chiave per trasformare una semplice figurina in un non-prodotto, un’opera d’arte unica ricavata dalla serialità commerciale.


Combattere per difendere il proprio onore. Salire sul ring per dimostrare la propria forza e guadagnare il rispetto della società. Utilizzare il proprio successo per essere la voce di un’intera comunità. Il pugilato è stato uno dei primi sport dove gli atleti hanno saputo sfruttare i propri trionfi per sensibilizzare ed allertare l’opinione pubblica. Da sempre impegnato nell’esaltazione del potere afroamericano, Basquiat è affascinato dai grandi boxeur in grado di sconfiggere due avversari come razzismo ed ingiustizia sociale. Nel 1981 realizza “The Ring”, un’opera in cui è Basquiat stesso ad essere rappresentato all’interno del ring trionfante. Le braccia al cielo in segno di vittoria, sembrano esaltare il successo artistico e sociale dell’artista nato a New York.

Gli eroi basquiatiani coincidono con gli idoli della cultura afroamericana. Eroi che hanno sconfitto il razzismo a colpi di guantone come Cassius Clay, Jack Johnson, Sugar Ray Robinson o Jersey Joe Walcott. Sono loro le muse ispiratrici ed i protagonisti nelle opere di Basquiat. Contrariamente alla maggior parte dei suoi dipinti caratterizzati da una sorta d’isterìa ordinata, i lavori dedicati ai grandi pugili del passato sono sorprendentemente essenziali: solo pochi tratti decisi che compongono un primo piano dell’atleta, suggestive agiografie visive che rendono immortali le loro gesta sportive ed umane.

L’arte di Basquiat ha un evidente e profondo legame con il pugilato stesso. Pennellate decise come un jab, messaggi sociali che colpiscono quanto un potente destro ai fianchi. Jean-Michel è la promessa della boxe artistica mondiale e chi se non il grande artista ed amico Andy Warhol poteva rappresentare lo sfidante perfetto per l’astro nascente dell’arte mondiale? In preparazione ad un’importante mostra in cui sono state esposte le loro opere, i due artisti organizzano un’astuta messinscena pugilistica in cui Warhol, affermato artista americano, sembra pronto a testare tutta la forza artistica del giovane Basquiat. Il match, ovviamente mai avvenuto, ha dato vita ad una serie di scatti semplicemente incredibili, capaci di immortalare l’essenza del pugilato, dell’arte e dell’amicizia tra Andy e Jean-Michel.

Uno dei primi atleti in grado di accelerare il processo di uguaglianza sociale è senza ombra di dubbio Jesse Owens, celebre velocista e lunghista americano in grado di vincere quattro ori nella stessa Olimpiade. Nel 1936 il “fulmine d’ebano” nato ad Oakville partecipa ai Giochi Olimpici di Berlino, nell’edizione in cui l’allora cancelliere tedesco Adolf Hitler era pronto a dimostrare al mondo intero la supremazia della razza ariana. Owens, atleta afroamericano, rovina i piani di Hitler salendo sul gradino più alto del podio in quattro specialità diverse, frantumando ogni record esistente fino ad allora. Lo strapotere fisico dimostrato durante le Olimpiadi, in un periodo storico dove il concetto di razza era ancora ben radicato a livello mondiale, non può che ispirare Jean-Michel Basquiat per la creazione di “Dark Race Horse”. L’opera, realizzata su sfondo nero, rappresenta un particolare anatomico di Jesse Owens: il piede in grado di sconfiggere la propaganda nazista.

Sport e pop culture sono notoriamente due tra le più grandi influenze nei lavori di Basquiat. Nell’universo sportivo americano, il campionato più seguito è la NFL: la lega nazionale di football. L’artista newyorkese è attratto da uno specifico elemento di questo sport, il casco: l’elmo che ogni giocatore porta con sé nella propria battaglia sportiva. “Untitled (Football Helmet)” gioca su due concetti opposti tra di loro: da una parte, lo strapotere atletico degli afroamericani espresso in ogni match, dall’altra troviamo invece la vulnerabilità e la necessità di essere protetti dalle idee razziste tutt’ora presenti nella società.

Il patrimonio artistico, culturale e sociale che Jean-Michel Basquiat ha lasciato in eredità è sconfinato ed inestimabile. Nella stagione 2020-2021 i Brooklyn Nets, franchigia NBA della sua città natale, hanno deciso di unire i due emisferi più importanti ed influenti del celebre quartiere di Long Island: l’arte e la pallacanestro. Lo stile di Basquiat è fortemente riconoscibile sia sul parquet del Barclays Center, arena casalinga dei Nets, sia nelle loro uniformi “city edition”. Stella della NBA e leader dei Nets, Kevin Durant ha recentemente dichiarato di vedere in Basquiat una grande fonte d’ispirazione: “I wanted to see how he got to that point mastering his craft.” Quello tra Basquiat e lo sport è un legame indissolubile. Gli sportivi rappresentati nelle sue opere sono più di semplici atleti, spesso sono considerati delle vere e proprie divinità. Un politeismo artistico e sportivo che Jean-Michel ha cercato di ricreare nelle sue opere sia per glorificare i successi da loro ottenuti, sia per continuare la battaglia della comunità afroamericana contro il razzismo e le disparità sociali. La sua arte, come le medaglie ottenute dagli atleti da lui ritratti, sono semplicemente immortali.

Text by: Filippo Vianello