URBEX, il ciclismo come esplorazione urbana

Nuove generazioni di rider stanno cambiando le città, MET ci spiega come

Reinventare l’esplorazione urbana. Lasciarsi inghiottire dagli spazi sconfinati della metropoli alla ricerca di anfiteatri industriali abbandonati in qualche angolo di periferia. È proprio lì il vero cuore pulsante delle grandi città: nei palazzi popolari dell’hinterland milanese, nei suburbs londinesi, nei quartieri più lontani della Città Eterna. Costruzioni spesso apparentemente anonime, prive di storia, figlie di uno strampalato piano edilizio stipulato per risolvere in fretta la crisi degli alloggi. Luoghi emblematici, spettrali, capaci però di attirare un numero sempre maggiore di visitatori affascinati dalla maestosità di questi giganti in calcestruzzo.

Partire alla scoperta di questi quartieri significa dover fare i conti con la soffocante congestione cittadina. Per sconfiggerla, servirebbe un mezzo più pratico e leggero, in grado di farci procedere a zigzag tra una macchina e l’altra: in altre parole, serve una bicicletta. MET Helmets, uno dei produttori di caschi più famosi nel panorama ciclistico mondiale, ha seguito il dj francese Matéo Montero nelle sue esplorazioni urbane in un progetto chiamato Urbex.

“My bike is the king” dice fieramente Montero, a testimoniare l’incredibile efficienza delle due ruote nella giungla urbana. Ex ciclista, per questo dj la bici è molto più di un mezzo di trasporto. È un ponte per unire culture e personalità differenti. È libertà pressocché incondizionata negli spostamenti. È l’unico modo per non restare imbottigliati nel traffico del centro città e per ridurre il proprio impatto ambientale.

Riprese mozzafiato, la capacità di persuadere visivamente. Dopo aver già collaborato con MET Helmets, Achille Mauri e Stefano Steno sono stati contattati per realizzare il progetto audiovisuale di URBEX MIPS. Un progetto in grado di raccogliere tutte le sfumature dell’esplorazione urbana in soli tre minuti.

La Terrazza del Pincio, qualche edificio abbandonato di periferia. Sampietrini, asfalti trascurati o nuovi spazi ancora in costruzione. Le nuances sceniche dell’esplorazione urbana sono potenzialmente infinite, proprio come le sfide o le difficoltà che si possono incontrare durante il viaggio. Tra iconici monumenti e palazzi abbandonati, una nuova generazione di esploratori pare essere pronta a popolare le nostre città.

Project by MET Helmets
IG @met_helmets

Pictures by Ulysse Daessle
IG @ulyssedaessle

Video:
Directed by @achillemauri.eu
Cinematography by @stefanosteno
Music by @_anddot
Sound Designer @tommaso.simonetta
Title Designer @samsala.studio
Starring @rawmance707
Voice @rawmance707

Testi di Filippo Vianello


Andre Agassi e la rivoluzione stilistica del tennis

Il Kid di Las Vegas che cambiò l’estetica della racchetta

Quando si pensa al tennis, una delle prime parole che vengono in mente è probabilmente Wimbledon: una dresscode policy intransigente, il manifesto dell’eleganza tennistica per eccellenza. Come può Andre Agassi, un punk prestato alla racchetta, vincere un torneo così ancorato alle proprie tradizioni?

Nella storia personale di Andre Agassi, le contraddizioni sono qualcosa di fastidiosamente ordinario. L’ordine e la disciplina tanto care a papà Emanoul l’hanno guidato verso un successo macchiato d’odio e sofferenza. “Papà dice che se colpisco 2500 palline al giorno, ne colpirò 17.500 alla settimana e quasi un milione in un anno. Crede nella matematica. I numeri, dice, non mentono. Un bambino che colpisce un milione di palline sarà imbattibile.”

Se per il padre matematica e rigore sono alla base di una vita professionistica di alto livello, non possiamo dire lo stesso per Andre Agassi, che di questi due elementi ne ha fatto una vera e propria ossessione. La fuga dal padre e dal “dragone” (macchinario speciale) con cui lo allena, sembrano rappresentare il primo step verso quella libertà che tanto sogna.

Dal Nevada alla Florida, dalle magiche luci di Las Vegas al verde sconfinato di Bradenton. L’arrivo presso la tennis academy di Nick Bollettieri, fucina di talenti che hanno scritto la storia di questo sport come Jim Courier o le sorelle Williams, è una prima boccata d’aria dopo essere stato soffocato per anni dalle idee paterne. Agassi è uno spirito libero e presto si rende conto che le regole hanno un peso specifico importante anche in quel contesto.

Il divieto di indossare qualsiasi tipo di gioiello è la prima norma che Andre infrange. Poco dopo il suo arrivo all’accademia, inizia a portare vistosi orecchini e monili. Professori ed allenatori lo ammoniscono, minacciando addirittura l’espulsione. L’opportunità di fuggire è concreta ed il Kid di Las Vegas è deciso a coglierla.

Si presenta ad un torneo con smalto color rubino, i capelli alla mohicana tinti di un improbabile rosso vivo ed un abbigliamento a dir poco appariscente. Il padre e Bollettieri sono inorriditi da ciò che vedono, capendone allo stesso tempo l’origine di questo comportamento: dare corda agli atteggiamenti isterici di Andre significherebbe alzare bandiera bianca e dare ragione ai suoi capricci adolescenziali.

I suoi outfit in campo sono l’urlo di chi vuole essere diverso da tutti gli altri. Un urlo iconico, da rockstar, tanto che Nike decide di dedicarci un’intera collezione. Lo spot pubblicitario dello swoosh vede un’inedita collaborazione tra tennis e rock, tra Red Hot Chili Peppers e Andre Agassi. “Hit the ball as loud as you can” dice Flea, celebre bassista della band losangelina.

Una giacca prestata dall’atletica leggera, pantaloncini in lycra simili a quelli dei ciclisti. Una calzatura, la Nike Air Challenge III a metà tra il tennis e la pallacanestro. Tutto questo viene illuminato da coloratissimi lampi fluorescenti: giallo, verde, rosa. La cultura punk statunitense ha colonizzato anche lo sport più nobile, Agassi è a capo di una  rivoluzione stilistica  e sportiva.

Durante i tornei più importanti del circuito, come durante lo US Open del 1988, Andre indossa dei singolari short in denim. Ciò che veniva visto come non convenzionale ed unico, diventa presto una vera e propria moda: il campione del Nevada ispira un’intera generazione, abbattendo i precedenti  canoni stilistici e barriere espressive.

L’unico torneo a non essersi completamente piegato alla ribelle creatività di Agassi è Wimbledon, culla del tennis e della nobiltà inglesi. Dopo averlo sabotato per anni a causa dell’inflessibile dresscode bianco, decide di competere sul verde più famoso del mondo con la sua ormai celebre criniera bionda, una polo oversized ed un paio di occhiali con delle particolari lenti gialle. Uno sprazzo di ordinarietà ed obbedienza alle regole che sembra aver domato il genio ribelle di Agassi.

Chi incarna la perfezione e l’eleganza con la racchetta tra le mani è Pete Sampras, l’antieroe agassiano per eccellenza. Una personalità mai sopra le righe, tecnica da manuale e una grande sobrietà stilistica nel rettangolo di gioco.

Il rapporto tra Sampras ed Agassi è pregno d’odio reciproco: un’amicizia utopica, quella tra una rockstar ed un’icona della nobile arte tennistica. Riuscire a far collaborare due caratteri così diversi è estremamente complicato, pensare che possano essere gli attori di uno spot che segnerà la storia del marketing sportivo è semplicemente illogico e folle. In pieno stile Nike, dove “Just Do It” rappresenta molto più di un motto, Eric King decide di ingaggiare Andre Agassi e Pete Sampras per realizzare uno spot chiamato “Guerilla Tennis”. Grazie alla sapiente regia di Spike Jonze, i due campioni escono da un veicolo in pieno centro a San Francisco e mentre Agassi inizia a piantare la rete sulla strada principale, Sampras armato di racchetta paralizza il traffico cittadino.

I due iniziano uno scambio intenso ed appassionato, radunando centinaia di spettatori incantati dal ritmo incalzante della loro pallina. Anche nel loro abbigliamento e nello stile di gioco, essi rappresentano due mondi completamente opposti: il genio creativo  e non convenzionale di Agassi è nella polo a righe abbinata ad un pantalone dalle varie sfumature di blu, così com’è presente nel colpire la pallina girato di spalle, facendola passare sotto le gambe. Sampras, al contrario sfodera tutta la sua eleganza sferrando dritti precisi e potenti con la sua polo bianca.

Il tennis, da sempre uno sport da seguire in religioso silenzio durante lo scambio, stava subendo una piccola ma significativa rivoluzione capeggiata dalle sue stelle più luminose. L’ennesimo attacco all’eccessivo tradizionalismo tennistico.

Andre Agassi non è solo un atleta. Non è solo un campione. È un manifesto di libertà espressiva e stilistica con pochi eguali nella storia dello sport. Le sue urla di liberazione, concentrate nell’iconico rovescio bimane o in una polo dalle fantasie più improbabili continueranno ad affascinare ed ispirare intere generazioni.

Testi di Filippo Vianello


Il basket parla Aussie: Nike Prahran Summer Jam

Gli scatti di Mitch Fong ci portano alla scoperta di uno dei festival cestistici più iconici d’Australia

Il Nike Prahran Summer Jam unisce culture e personalità differenti. Skaters, street artists e cestisti condividono lo stesso spazio urbano in un microcosmo dove meritocrazia e rispetto sono le due uniche regole.

Nato nel 2012 dalle menti di Eamon Larman-Ripon e Daniel Ella, il Summer Jam di Prahran si è presto imposto come la Mecca dello streetball australiano. Forte del sostegno di Nike ed House of Hoops by Foot Locker, il festival ha attratto negli anni centinaia di giocatori e street artist provenienti da tutto il globo.

Quella australiana è una cultura cestistica in rapida espansione, che di anno in anno conquista maggiore credibilità grazie all’elevata attrattività della sua lega, la NBL. Alcuni tra i migliori prospetti liceali americani, destinati a diventare futuri All-Star della NBA iniziano a preferirla ad una carriera al college: Lamelo Ball, stella degli Hornets e RJ Hampton, guardia di assoluto talento in forza agli Orlando Magic, hanno preferito misurarsi contro i professionisti della massima serie oceaniana prima di essere scelti al draft.

Il movimento nazionale sforna ogni anno atleti di assoluto livello: Andrew Bogut, Joe Ingles Patty Mills sono stati dei veri e propri pionieri nel portare la cultura cestistica degli aussies oltreoceano. Sulle loro orme ora possiamo ammirare Josh Green, dinamica guardia scelta dai Mavericks nel 2020 e Joshua Giddey, il nuovo wonder boy degli Oklahoma City Thunder che al suo primo anno ha distrutto il record di Luka Doncic, diventando il giocatore più giovane di sempre a registrare una tripla doppia.

Sempre più giocatori sognano di calcare i parquet delle arene più importanti degli USA, e non è un caso se il numero di squadre partecipanti ad un’importante vetrina come il Summer Jam cresca di anno in anno.

Giunto alla decima edizione, il Nike Prahran Summer Jam ha attirato migliaia di spettatori curiosi di vedere gli atleti più forti del Paese sfidarsi in intense sfide. Musica live, angoli food, una spettacolare gara di schiacciate e la nuova tappa di Perth: i numeri del torneo più iconico d’Australia sono destinati a crescere in maniera esponenziale per le prossime edizioni.

Nonostante l’evento abbia un forte respiro cestistico, Larman-Ripon, in una recente intervista per Pick and Roll ha voluto sottolineare l’importanza delle radici culturali riguardanti il loro progetto: “è qualcosa che va oltre la pallacanestro. È sempre stato così. È stare in famiglia, essere parte di una comunità, è musica, arte, cibo…la cultura è la vera base del Summer Jam”. 

Il decimo anniversario pare essere solo il punto di partenza per un torneo destinato a far parlare di sé ancora per molti anni.

Mitch Fong
IG @mitchfongphoto
mitchellfong.com

Testi di Filippo Vianello


Scarlett Mew Jensen: sei tu contro il tuo potenziale

Un viaggio nelle sensazioni e nei pensieri della ventenne tuffatrice olimpionica

Scarlett ha partecipato alle sue prime Olimpiadi quest'anno a Tokyo all'età di 19 anni, in quelle che forse sono state le Olimpiadi più strane della storia, senza fan nell'arena, ma con aspettative e nervi tesi più che mai.

Scarlett attended her first Olympics this year in Tokio at the age of 19, in what was possibly the strangest Olympics in history, with no fans in arena, but with expectations and nerves as high as ever.

Buona lettura.

Ho iniziato facendo ginnastica e danza. Un sacco di sport. Poi alcuni allenatori sono venuti nella mia scuola elementare, cercando persone che potessero essere predisposte per i tuffi. Sono stata invitata a fare un provino a Crystal Palace, nella zona sud di Londra, dove mi hanno fatto testare l’acqua. Dopo alcuni allenamenti, mi hanno fatto capire che avevo del talento.

Ho amato tuffarmi fin dall’inizio. Ero molto giovane e si trattava di lanciarsi in una piscina… In fondo era così eccitante. Avevo fatto ginnastica prima, ovviamente i tuffi hanno molto in comune con questa disciplina, ma è decisamente più facile lanciarsi in acqua. Da subito mi hanno detto che il mio modo di tuffarmi era fluido e, contemporaneamente, potente. Avevo la sensazione che fosse qualcosa di raro per una giovane atleta.

I tuffi hanno qualcosa di diverso, è innegabile… Quando dici che fai la tuffatrice, la gente immediatamente si agita e si lascia scappare frasi tipo: “Oh, che figata”. Ho sicuramente avuto i miei alti e bassi, soprattutto durante il periodo adolescenziale. Voglio davvero trascorrere tutte queste ore sul trampolino? Voglio davvero rinunciare a tutte queste feste per allenarmi? In quei momenti di riflessione bisogna avere una spinta interiore per mettere da parte i dubbi e convincersi che tutto l’allenamento e tutto il lavoro sono in realtà propedeutici a qualcosa di più grande, al coronamento di un sogno… E questo regala un grado d’eccitazione ben diverso.

Cosa si prova durante un tuffo perfetto? È indescrivibile. Si ha la senszione di volare. Quando tutto si combina alla perfezione ogni movimento sembra così facile, sembra non richiedere il minimo sforzo. A dire il vero credo di aver provato questa sensazione proprio alle Olimpiadi: nessuno dei miei tuffi è stato impeccabile per esecuzione, ma ogni volta che lasciavo la tavola sentivo questa enorme quantità di adrenalina che mi pervadeva, era tutto perfetto. Quando tutto combacia è come se il tuo corpo avesse il pilota automatico. Non sembra nemmeno più una competizione, tutto procede al rallentatore.

Quando pensi a quello che stai facendo in allenamento e al perché lo stai facendo, tutto si trasforma in memoria muscolare. Si tratta di allenare il sistema nervoso in modo che tutte le diverse componenti del corpo si possano attivare nel modo desiderato. Il mio allenatore ha sempre detto che il corpo si forza a scegliere il percorso più facile e, proprio per questo, per fare un cambiamento bisogna imporsi di prendere la strada più lunga possibile e rompere la catena dell’abitudine. A questo servono le ripetizioni, l’allenamento ogni giorno, il portare lo sport a casa con te: non si tratta unicamente di realizzare un tuffo da 10, si tratta di rendere facile il modo in cui si effettua il tuffo stesso, di eseguirlo perfettamente ogni volta.

Ho passato tre o quattro pre-stagioni insieme al mio attuale allenatore. La pre-stagione è la fase in cui si fanno le cose più semplici per rimettere in moto il corpo e rientrare in ritmo. Queste ‘basi’ occupano la maggior parte del nostro allenamento, anche durante la stagione. Sono tutte quelle piccole cose che rendono un tuffo perfetto e che ti permettono di evolverlo. Si passa attraverso questi step per arrivare all’obiettivo finale. Questi tuffi semplici sono i più importanti, e nella pre-stagione sono circa il 100% dell’allenamento. In stagione, a seconda del giorno, l’equilibrio è 80:20, o 50:50, diviso a seconda delle reazioni del tuo corpo e delle tue prestazioni.

La palestra probabilmente è più importante della piscina, almeno per me. La potenza è il mio elemento di punta, ma non basta, devo unire ad essa eleganza e precisione. Queste sono cose un po’ più facili da insegnare e apprendere, credo. La potenza è invece più difficile da trovare.

La palestra mi spinge davvero a essere la tuffatrice che sono. Senza la palestra, i miei tuffi in piscina non sarebbero buoni. Ci sono zone specifiche in cui puoi allenare tutte le tue skills semplici, e i trampolini, che hanno una diretta correlazione con i trampolini da piscina. Sostanzialmente ci si tuffa come in piscina, ma in palestra, dove puoi fare più ripetizioni  senza sforzarti di fare un tuffo completo. E poi abbiamo anche un rig, una sorta d’imbracatura: attrezzo fondamentale nel caso in cui si debba imparare un nuovo tuffo o perfezionarne un altro.

Ascolto la musica per tutto il tempo prima di salire sul trampolino. Mi metto delle cuffie enormi ed entro letteralmente nel mio piccolo mondo. Ascolto musica che mi carica. Se faccio un tuffo incredibile, ho invece bisogno di mantenere la calma, di rimanere rilassata, e cambio musica cercando una via di mezzo. Se faccio un tuffo terribile, ho bisogno di caricarmi istantaneamente, quasi d’ipnotizzarmi.

Cerco sempre di non guardare il tabellone. Lo evito. Vedo il mio risultato alla fine della gara e basta. In fondo in questo sport sai di essere solo tu contro il tuo potenziale.

Scarlett Mew Jensen – Team GB Olympic Diver
IG @scarlettmjensen

Photo by Paul Calver
IG @calverphoto
paulcalver.cc

Andy Waterman

Testi di Gianmarco Pacione


Fred Perry, storia di un tennista rivoluzionario

Il ping-pong, le conquiste sociali, Wimbledon, la polo. Fred Perry è ben più di un marchio d’abbigliamento

Inghilterra, primi anni del ‘900. Dopo la tragica morte della regina Vittoria, è il figlio Edoardo a salire al trono. La società che si sviluppa durante il suo regno ha una forte impronta gerarchica, si è sostanzialmente obbligati ad accettare il proprio status economico e sociale. L’élite britannica inizia a provare un interesse sempre maggiore per lo sport, facendo scaturire, di conseguenza, una piccola ma significativa rivoluzione nel mondo della moda.

Stockport, qualche chilometro fuori Manchester, lontano dalla nobiltà londinese e dai loro nuovi loisirs, viene al mondo il futuro astro nascente del tennis inglese, Fred Perry. La famiglia da cui proviene ha origini piuttosto modeste: il padre, filatore di cotone ed è politicamente attivo come sindacalista e socialista. Far praticare al figlio uno sport come il tennis, riservato solo all’alta società inglese, è quindi fuori discussione.

Con il passare degli anni, la carriera politica del padre prende una piega piuttosto positiva, tanto dal trasferire la famiglia a Brentham, piccolo sobborgo non distante da Londra costruito dal Co-Operative party. Proprio durante gli anni passati nella città-giardino londinese, Fred viene stregato dal tennis. Vedere le persone più ricche ed influenti d’Inghilterra divertirsi con una racchetta in mano, lo porta a pensare che il tennis potrebbe dargli la possibilità di dare una vera e propria svolta alla sua vita.

BARRIERE E TRIONFI: IL TENNIS TAVOLO

Essendo i circoli tennistici riservati esclusivamente all’aristocrazia, Fred Perry inizia con la versione più umile e popolare del tennis, quella da tavolo. Sembra avere un talento innato, sente il ritmo della pallina come nessun altro. Praticare uno sport individuale, inoltre, dà la possibilità di avere piena padronanza del proprio destino: una sfumatura non trascurabile per chi nasce in un contesto sociale dove la libertà personale viene spesso limitata.

Nonostante si alleni con poca regolarità ed abbia partecipato solo ad un torneo locale, nel 1927 Ivan Montagu – allenatore della squadra nazionale di tennis tavolo inglese – decide di includerlo nella selezione che partecipa ai mondiali.

Un dritto potente e preciso. Colpi ad effetto che disorientano l’avversario. Il ragazzo di Stockport sconfigge con una facilità disarmante tutti i migliori atleti presenti, salendo sul gradino più alto del podio non ancora ventenne. Dopo la vittoria dell’ultimo mondiale nel 1929, comunica il proprio ritiro dal tennis tavolo, promettendo di vincere la Coppa Davis entro i successivi quattro anni.

COME RIVOLUZIONARE LA SOCIETÀ TENNISTICA INGLESE: COPPA DAVIS E WIMBLEDON

Nel 1929, il tennis è ancora appannaggio di pochi eletti, nonostante questo Fred Perry è determinato a mantenere la sua promessa. Forte del sostengo paterno, che nel potenziale successo tennistico vede trionfare i suoi ideali politici di meritocrazia ed equità sociale, Fred inizia a partecipare a numerosi tornei in tutto il Regno Unito. Vuole affermarsi come sportivo e come uomo, dimostrando a tutti che la ricchezza economica è seconda alla voglia di emergere.

1933, Parigi, Stade Roland Garros. Il Regno Unito sfida la Francia nel challenge round. A più di vent’anni dall’ultimo successo inglese, Fred Perry tiene fede alla sua promessa, mettendo in bacheca la sua prima Coppa Davis. Nello stesso anno, sempre sotto la Tour Eiffel, un altro tennista fa notizia con un’idea imprenditoriale dal successo secolare. Dopo i primi prototipi indossati nel 1927 a Forest Hills, René Lacoste lancia ufficialmente il suo iconico marchio d’abbigliamento.

L’evento tennistico più antico al mondo. L’unico ad essere giocato sull’ erba. Il verde ed il viola. Le divise bianco candido. Wimbledon non sarà mai un torneo come gli altri. La pressione che si percepisce in quel rettangolo verde non è comparabile con quella di nessun altro stadio al mondo. Aggiungiamoci il fatto di essere un atleta inglese che cerca di conquistare un trofeo assente nel Paese di Sua Maestà dal 1909. Ironia della sorte, lo stesso anno in cui nasce Fred.

La finale di Wimbledon quell’anno vede affrontarsi il campione in carica Jack Crawford, australiano molto apprezzato dal pubblico inglese, e Fred Perry, atleta britannico ma spesso criticato dal suo stesso pubblico vista la sua estrazione sociale ed uno stile di gioco ritenuto poco raffinato. 6-3, 6-0, 7-5. Perry zittisce i suoi detrattori e viene incoronato vincitore. Il trionfo della classe operaia in uno degli eventi che più rappresenta la nobiltà inglese.

Nonostante un record di vittorie impressionante, anche in campo internazionale, la Federazione Britannica stenta a riconoscerlo come atleta professionista. In quegli anni la distinzione tra professionisti ed amatori è netta. Dal momento che il tennis è considerato una forma d’arte e non un lavoro da cui poter ottenere un tornaconto economico, l’unica ricompensa prevista è la gloria sportiva. Perry, che nel denaro vede non solo successo, ma anche indipendenza, decide di trasferirsi negli Stati Uniti. La cultura americana, dove meritocrazia e fama vanno a braccetto, è decisamente più affine agli ideali di Perry.

DAL GRANDE SLAM AL SUCCESSO AZIENDALE: LA NASCITA DEL BRAND FRED PERRY

Acquista il Beverly Hills Tennis Club e qualche anno dopo viene contattato da Tibby Wegner, ex calciatore austriaco con un’idea imprenditoriale simile a quella di Lacoste. I due apportano le opportune modifiche al modello transalpino, dando vita alle prime polo firmate Fred Perry nel 1952.

Il logo, una coroncina d’alloro ricamata sul petto, è l’emblema della vittoria. L’effige di chi, partendo da uno dei livelli più bassi della piramide sociale inglese ha ottenuto un doppio successo: sportivo ed economico. Con almeno sessant’anni di anticipo, Fred Perry si dimostra precursore delle moderne campagne di marketing. Presenta a Wimbledon le sue polo e le regala a tutti i presenti. Il pubblico risponde positivamente, tanto che anche alcune celebrità come John Fitzgerald Kennedy saranno viste indossare la corona d’alloro sul petto. “Ormai so benissimo che mi conoscono più per le mie polo, che per la mia carriera da tennista”. In pochi anni, il successo del suo brand è sotto gli occhi di tutti, Perry stesso ne percepisce la fama mondiale.

Sebbene sia diventato ormai un’icona del mondo fashion, l’universo tennistico non ne dimentica le gesta. Viene invitato ad incoronare la vittoria di Bjorn Borg a Wimbledon nel 1978 e, qualche anno dopo, all’All England Club, viene inaugurata una sua statua a grandezza naturale affinché tutti possano ricordarne le gesta.

Il giorno dell’inaugurazione dichiara “Quella con Wimbledon è stata la storia d’amore più importante della mia vita”.

Nel 1995, Fred Perry viene ricoverato a Melbourne in seguito ad una brutta caduta rimediata durante il periodo dell’Australian Open, torneo da lui vinto nel 1934. Si spegne qualche giorno dopo all’età di 85 anni.

Ha ispirato e continua ad ispirare generazioni intere. Le sue polo, iconiche almeno quanto quelle di René Lacoste o le scarpe firmate Stan Smith, sono l’ultimo, eterno regalo di un uomo che ogni giorno ci ricorda l’importanza di essere artefici del nostro destino.

Text by: Filippo Vianello


YUSEF y RAMIRO, di corsa e narrazione

La velocità, per l’atleta paralimpico cubano Yusef Fernandez Perez, significa molto più di 100 e 200 metri

Le facciate barocche de L’Avana, le sue strade d’asfalto spellato e movimento perpetuo, gli spalti di uno spoglio centro sportivo, l’espressione immutata e immutabile di Ernesto ‘Che’ Guevara, una spiaggia silenziosamente rumorosa. È in questo scenario che si alternano i vorticosi passi dell’atleta paralimpico Yusef Fernandez Perez.

Il fotografo e regista Bas Van Est ha deciso di ritrarre la pacata sfida personale di questo introverso velocista, un uomo che, nonostante un tragico incidente giovanile, ha deciso di dedicare la propria esistenza alla corsa sui 100 e 200 metri. Al suo fianco l’allenatore Ramiro: una figura paterna, un saggio d’altri tempi, teneramente legato a Yusef e desideroso di vederlo coronare il sogno paralimpico.

Intime e pregne di significato, le immagini di questo documentario lasciano segni indelebili, facendo riflettere sul concetto di dedizione sportiva e regalando un affascinante, quasi mistico, spaccato di segreta magnificenza atletica.

Photography by Bas Van Est
IG @basvanest
basvanest.com

Dir. Bas van Est
Cinematography Jasper de Kloet
Creative Direction & Production Teresa Montenegro
Creative Direction & Story Christopher Cryer
Edit Hiro ikematsu
Grading Joseph Bicknell @Company3
Music Paul Reeves
Sound Design & Mix Randall W. Macdonald
Sound Design & Foley Archie Presley
Camera Stabilisation Hugo Rodríguez & Leonardo Grassi
Film & Title Design Mikashi Yakamato
Motion Graphics Lewis Beedham

Testi di Gianmarco Pacione