MBOGI AMANI e l’evoluzione del ciclismo africano
Il film supportato da Brooks England che racconta speranze e sogni dei ciclisti in Africa orientale
È tempo di cambiare volto al ciclismo. Ruota attorno a queste parole la virtuosa realtà della AMANI Migration Gravel Race, gara che ha allargato gli orizzonti dei migliori ciclisti dell’Africa orientale.

Organizzato per la prima volta in Kenya nel 2021, questo evento vuol essere il manifesto di una transizione sportiva epocale, atta ad evolvere l’intero movimento ciclistico africano e a infrangere barriere che per anni hanno limitato questa disciplina in tutto il continente.L’emozionante film ‘MBOGI AMANI’, supportato nella sua produzione da Brooks England, ritrae questo vento di cambiamento irradiato dal Team Amani e da molti altri talentuosi ciclisti dell’Africa Orientale che, attraverso le loro pedalate su bici gravel, stanno cercando di sfondare nella scena ciclistica globale.




The exciting film ‘MBOGI AMANI’, supported in its production by Brooks England, portrays this wind of change radiating from Team Amani and many other talented East African cyclists who, through their pedaling on gravel bikes, are looking to break into the global cycling scene.
Questo meraviglioso cortometraggio unisce storie personali, infiniti rettilinei rossi e suggestive albe, facendo comprendere quanto siano rilevanti le due ruote in queste terre e quanto margine di crescita abbia questo sport in Africa. Buona visione.
Credits: BROOKS ENGLAND
IG @brooksengland
brooksengland.com
Testi di Gianmarco Pacione
‘The Queen of Basketball’, un premio Oscar per una regina dimenticata
Segnò il primo canestro olimpico femminile e venne selezionata al Draft NBA, poi sparì nel nulla. La storia di Lusia Harris e della sua maestosa pallacanestro
La notte degli Oscar di LA ha visto trionfare nella categoria dei cortometraggi documentaristici la pellicola ‘The Queen of Basketball’.
Prodotto, tra gli altri, da mostri sacri della pallacanestro maschile passata e attuale come Shaquille O’Neal e Steph Curry, questo documentario diretto dal regista canadese Ben Proudfoot narra la vita e le imprese dimenticate di Lusia Harris.

Nata nel profondo Mississipi e cresciuta spezzando il polso insieme a sei fratelli nei pressi di un logoro canestro casalingo, ‘Queen Lucy’ lungo gli anni ’70 ha letteralmente cambiato il modo d’intendere la pallacanestro femminile.
Oltre un metro e novanta d’altezza, mani morbide ed educate, uno strapotere fisico bilanciato da una naturale eleganza: queste caratteristiche ante-litteram sconvolsero l’ambiente sportivo USA e videro il suo college, la minuscola Delta State University, ergersi a invincibile cenerentola nel panorama nazionale.

Il successo e la fama della Harris raggiunsero l’apice durante le Olimpiadi di Montreal 1976, quando l’appena 21enne centro mise a segno il primo canestro nella storia della pallacanestro olimpica femminile, e l’estate seguente, quando venne selezionata al Draft NBA dai New Orleans Jazz. All’epoca, difatti, non esistevano leghe professionistiche femminili e ‘Queen Lucy’ fu ritenuta all’altezza dei propri colleghi maschi.
Lusia decise però di rifiutare l’opportunità NBA, d’interrompere la sua carriera cestistica e di allenare nella sua città natale. In pochi anni il suo nome cominciò a svanire nel nulla, risucchiato da una tranquilla esistenza vissuta nei panni di madre ed educatrice.

Dopo decenni d’incomprensibile anonimato, l’induzione nella Naismith Memorial Basketball Hall of Fame restituì solo una piccola parte di quanto dovuto a questa pioniera della pallacanestro. ‘The Queen of Basketball’ fa luce su questa straordinaria storia di sport finita nell’oblio, ripercorrendo la biografia di Lusia attraverso le sue parole. Il documentario distribuito dal New York Times è un vero e proprio testamento di una gigante della palla a spicchi, reso ancora più significativo dalla recente scomparsa della Harris. Ve lo proponiamo pochi giorni dopo averlo visto premiato sul palco del Dolby Theatre. Buona visione.
Text by: Gianmarco Pacione
Athleta Abroad – Federico Gallinari
Il basket e l’esperienza collegiale descritte dal più giovane della famiglia Gallinari
Cosa significa giocare a pallacanestro in un college d’oltreoceano? Significa scoprire una cultura cestistica diametralmente opposta a quella europea, significa condividere lo spogliatoio con giovani uomini dal passato differente e dal medesimo presente, significa entrare a far parte di un’enorme famiglia unita nel nome di un ateneo.
A spiegarcelo è Federico Gallinari, 24enne ala grande dal nobilissimo lignaggio. Fratello e figlio d’arte rispettivamente di Danilo e Vittorio, Federico dopo l’esperienza liceale e l’iniziale inserimento nel roster di Oleggio, squadra militante nella serie B italiana, ha deciso di lasciare il Bel Paese per scoprire i parquet collegiali, trovando posto tra i banchi e i ferri di Rochester University.
“L’America mi era già familiare, d’altronde avevo fatto più volte visita a mio fratello Danilo. Ho deciso di fare questo salto per iniziare un percorso che potesse essere costruttivo dentro e fuori dal campo. La scelta di Rochester University non è stata casuale, la mia famiglia ha da sempre una particolare sensibilità accademica e Rochester è un college piccolo, rinomato tanto per il programma di studi, quanto per quello sportivo. Per farvi comprendere quanto l’istruzione sia rilevante per questa università, dovete pensare al fatto che tutti gli atleti trascorrono il primo anno come ‘red shirt’, ovvero come giocatori impossibilitati a giocare le partite: è un’opzione che di solito si utilizza con chi subisce infortuni gravi, in questo caso viene imposta dall’ateneo per dare la possibilità ai più giovani di ambientarsi nel sistema, di raggiungere il giusto equilibrio tra lezioni e allenamenti”

L’arrivo di Federico negli ‘Warriors’ del Michigan, però, non è stato immediato. Tra l’Italia e la dimensione collegiale, difatti, il poco più che adolescente Gallinari si è dovuto mettere alla prova, sfruttando il sovrappopolato trampolino di lancio delle Prep School: scuole preparatorie, zone di passaggio in cui talentuosi ragazzi lottano giorno dopo giorno per contendersi borse di studio o per aggiustare le proprie lacune accademiche.
“Senza quel periodo in una Prep School del Kansas, la Sunrise Christian Academy, non sarei mai riuscito a sostenere un percorso universitario in America. Entrare in queste realtà temporanee ti permette di prepararti al meglio in vista degli esami d’ingresso al college e, contemporaneamente, di metterti in mostra da un punto di vista cestistico. Come tanti miei coetanei ho preparato video con gli highlights di quelle mie prime partite americane e li ho spediti a una marea di college. Stavo decidendo tra alcune proposte quando, durante una campettata a Denver, sono stato casualmente affiancato da un ragazzo che mi ha messo in contatto con Rochester. Dopo una rapida visita ho immediatamente accettato di trasferirmi lì”

Lo spalancarsi delle porte del campus di Rochester per Federico è coinciso con la scoperta di un microuniverso complesso e stratificato, fatto di fatica fisica e lavoro mentale, di rapporti umani e crescita culturale, di fede profana e scoperta personale. Un’oasi tinta di bianco e rosso, in cui ogni persona è portata a sentirsi parte di qualcosa di ben più grande rispetto ad un semplice corso di studi.
“Non sapevo cosa aspettarmi dal college, devo essere sincero, però ero estremamente eccitato all’idea di cominciare quell’avventura. A livello cestistico mi sono scontrato con un’enorme differenza di preparazione atletica. Rispetto ad una serie professionistica italiana c’è meno conoscenza del gioco e la tattica viene un po’ tralasciata, ma sono tutti dei mostri, degli atleti fenomenali. Per questo noi europei veniamo etichettati come giocatori ‘soft’, bisogna riuscire a dimostrare loro il contrario e colmare il gap fisico allenamento dopo allenamento… Da un punto di vista umano, invece, la situazione è fantastica. Oltre agli americani ho avuto compagni di squadra brasiliani, senegalesi, greci, svizzeri e camerunesi: un mix di culture e personalità che mi ha profondamente arricchito. La sensazione che si prova entrando in un campus universitario non ha paragoni. Ci si rende immediatamente conto di far parte di una comunità, di una famiglia allargata. Non è un caso se in Italia vediamo girare anziani americani con le felpe del college in cui si sono ‘formati’: tra lo studente e l’università si crea un legame quasi religioso, un rapporto simbiotico che si sviluppa lungo quattro anni di vita e che non ti abbandonerà mai…”
A Rochester lo studente-atleta Gallinari ha convogliato i suoi studi su un doppio indirizzo di laurea, unendo l’Accounting (Contabilità) allo Sport Management. Due vie che risultano essere assolutamente compatibili tra loro, soprattutto se proiettate verso un futuro da agente sportivo: lavoro che attualmente impegna anche il padre Vittorio.


Parallelamente al percorso accademico-cestistico, Federico è assurto a testimonial social per i tanti ragazzi sbarcati oltreoceano inseguendo il proprio sogno atletico. Grazie ad una costante produzione di video-testimonianze, la sua funzione è diventata rapidamente propedeutica per i giovanissimi italiani che vogliono seguire le sue orme: un modo per entrare in contatto con la futura generazione della palla a spicchi e, in qualche modo, per anticipare proprio il lavoro di agente.
“Mi piacerebbe fare l’agente, possibilmente in America però. Grazie a Twitch, YouTube Instagram entro in contatto quotidianamente con tanti ragazzini che mi fanno domande sull’esperienza collegiale. Anche tanti genitori mi contattano per chiedere delucidazioni. Per questo in futuro mi stimolerebbe fungere da ponte per questo tipo di transizione e aiutare giovani talenti nostrani a raggiungere una scholarship (borsa di studio). Mi stuzzica anche la possibilità di curare il percorso inverso, ovvero fornire agli americani gli strumenti necessari per diventare professionisti nel Vecchio Continente… Sono tutte ipotesi, ci sono veramente tanti scenari possibili”

Federico Gallinari
IG @gallofede9
Testi di Gianmarco Pacione
Athleta’s Shelf – The Finishers: The Barkley Marathons
La recensione del libro firmato Alexis Berg e Aurélien Delfosse sulla folle maratona a stelle e strisce
Dall’Oregon al Tennessee. Dalla neve del Colorado al sole della California. Gli scatti di Alexis Berg e la penna di Aurélien Delfosse hanno girato per tutti gli Stati Uniti per conoscere e raccontare le incredibili storie degli eroi in grado di portare a termine The Barkley Marathon, una delle gare più iconiche al mondo.

The Cumberland Mountains of Tennessee. Un cancello giallo in mezzo alla foresta, non lontano dal luogo dove venne imprigionato James Earl Ray, l’assassino di Martin Luther King. Ci troviamo senza ombra di dubbio in uno dei luoghi simbolo della cultura americana. Una cornice tetra, spettrale, perfettamente abbinata all’alone di mistero che avvolge i criteri di selezione per una corsa dal respiro leggendario.
Quaranta runners con una determinazione fuori dal comune sfidano ogni anno i propri limiti fisici e mentali al fine di entrare nell’Olimpo sportivo riservato a coloro che terminano la gara nei tempi prestabiliti. Per un totale di circa 160 km, ed un dislivello complessivo pari a due salite del Monte Everest, la corsa prevede 5 giri completi dell’ostile tracciato del Barkley Loop entro 60 ore. Un’impresa titanica, che trova conferma nelle parole della liberatoria che ogni partecipante firma prima di iniziare la corsa: “Se sono così stupido da provare la Barkley, merito di essere l’unico responsabile per qualsiasi conseguenza: finanziaria, fisica, mentale o di ogni altro tipo”.




Nell’universo sportivo contemporaneo, dominato dagli sponsor e dalla fama, la Barkley è quindi una stella che brilla solo di passione e cultura. Nessuno sponsor, nessun media, solo una piccola tassa di $ 1.60 per partecipare. I Virgins, coloro che prendono parte a questo massacrante evento per la prima volta, sono inoltre tenuti a donare una targa del loro Stato d’origine. Per i Veterans invece, la donazione prevede regali di ogni tipo: una cassa di Dr. Pepper, delle sigarette o dei capi d’abbigliamento.
Il destinatario dei regali è Lazarus Lake, l’uomo che dietro la sua folta barba cela tutti i segreti della Barkley sin dalla sua nascita. Inoltre, essendone il padre fondatore, sceglie personalmente i partecipanti della competizione, analizzando le motivazioni di ogni atleta. Dopo un attento esame di tutte le candidature ed una convocazione ufficiale contenente le condoglianze di Laz stesso, viene fissato il giorno della gara, ma non l’orario. Sarà proprio Laz a dare improvvisamente il via alle 60 ore di corsa suonando una conchiglia ed accendendosi una sigaretta.





Dal 1995 solo 15 partecipanti sono riusciti a portare a termine questa impresa che alterna fatica e misticismo. Lontano dai riflettori e dalla fama, in un contesto forse troppo anonimo vista l’impresa compiuta, le semi-divinità che hanno portato a termine la corsa scavano nelle loro memorie e si raccontano nelle interviste intrise di passione e dedizione raccolte in questo libro.






Ph Alexis Berg
IG @alexis_berg
Publisher Thames & Hudson
IG @thamesandhudson
thamesandhudson.com
Testi di Filippo Vianello
Athleta’s Shelf – Wanderlust Himalaya
Gestalten e Cam Honan ci fanno viaggiare alla scoperta di uno dei luoghi più incantevoli del pianeta
Suggestivi anfiteatri di ghiaccio, variopinti villaggi pregni di tradizione. L’Himalaya è un magistrale connubio tra il creato e la civiltà. Un paesaggio a tratti preistorico, dove il tempo sembra essersi fermato. Un tempio naturale sorvegliato da pochi privilegiati custodi che cercano di farne rispettare la sacralità in un periodo storico caratterizzato dal turismo di massa. L’Himalaya, dimora delle nevi, occupa da secoli l’immaginario dell’umanità intera.
Un lento pellegrinaggio per sfuggire alla frenesia del quotidiano. Il bisogno costante di mettersi alla prova e sfidare i propri limiti. Le sfumature dell’escursionismo sono potenzialmente infinite: lo sa bene Cam Honan che in trent’anni ha attraversato 56 Paesi diversi, percorrendo più di 96,500 chilometri. Il suo ultimo libro, realizzato in collaborazione con Gestalten, ci porta alla scoperta di uno dei territori più selvaggi ed affascinanti al mondo. Un viaggio letterario e fotografico che parte dalle sorgenti del Gange, attraversa 5 Paesi diversi e quasi fa toccare il cielo con un dito grazie alle vertiginose altezze presenti nella regione.

Annapurna, K2 ed Everest sono senza dubbio alcune delle cime più intriganti di tutta la catena montuosa himalayana. Le prime due, tristemente note per la loro fama di mangiauomini, continuano ad attirare ogni anno migliaia di escursionisti da tutto il globo, spinti dalla possibilità di compiere un’impresa realizzata finora solo da pochi eletti. La conquista degli 8848m del Monte Everest, il “Dio del cielo” com’è conosciuto nella cultura nepalese, è senza ombra di dubbio uno dei sogni di ogni appassionato di alpinismo. Gli itinerari proposti da Horan sono piuttosto dettagliati, con numerosi consigli che permettono di pianificare le escursioni secondo le proprie necessità e capacità.



Oltre all’aspetto naturalistico, il libro propone anche un interessante focus sulla dimensione culturale dell’Himalaya. Bumthang district è un piccolo concentrato di villaggi nel cuore settentrionale del Bhutan, una preziosa gemma incastonata alle pendici del Chura Kang che custodisce gelosamente i segreti del tessuto yathra, la prima difesa contro il gelido inverno himalayano. Ancora oggi, le donne del villaggio si riuniscono ogni giorno sotto lo stesso tetto e con le loro sapienti mani danno vita a capi unici per materiali, geometrie e colori.

Ridurre “Wanderlust Himalaya” ad una semplice guida, quindi, sarebbe riduttivo ed ingiusto. Abbinando una capacità narrativa particolarmente efficace a degli scatti semplicemente mozzafiato, Cam Honan e Gestalten danno al lettore l’impressione di poter viaggiare anche se si è comodamente seduti sulla poltrona di casa.

Photo
Jamie McGuinness
Anuj D. Adhikary
Pete R
Tyler “Mac” Fox
Feng Wei
Gestalten
IG @gestalten
gestalten.com
Il regno invisibile di Felipe Posada
L’artista digitale che ricerca il significato della realtà con le proprie composizioni
Benvenuti nell’Invisible Realm di Felipe Posada: dove la profondità diventa superficie, dove il pensiero diventa paesaggio, dove il sogno diventa verità. E viceversa. L’universo studiato e creato da questo artista digitale è colmo d’ispirazioni, di sensazioni, di figure retorico-visuali. Le sue visionarie composizioni grafiche sono frutto di un singolo, complessissimo obiettivo: dare un significato, il proprio significato, alla realtà.
“Making the invisible visible: questa è la frase che accompagna i miei lavori. Riassume la volontà di comprendere la realtà, di renderla manifesta. Con la mia arte mi tuffo nel subconscio, prendo le cose che trovo lì e provo ad assemblarle in questo mondo magico: lo faccio mescolando riflessioni, intuizioni e humour, per lo più creando metafore visive. Tanti dei soggetti ritratti non seguono le usuali regole della realtà, d’altronde il concetto di Invisible Realm va oltre i sensi: non è un qualcosa che vediamo, ma che sentiamo”

Felipe è un creativo diviso tra la Colombia, sua terra d’origine, e New York, città adottiva del suo estro, tra un passato nella pubblicità e un presente nella produzione artistica. In origine era un ingegnere in cerca d’autore, un giovane migrante in cerca della giusta strada accademica, trovata grazie ad un master in computer art.
“Ho sempre saputo di avere un lato artistico. A 19 anni ero un ingegnere confuso, non mi sentivo realizzato, così ho deciso di andare negli USA e scoprire nuovi orizzonti. Ho fatto richiesta ad un’Art School di Savannah, Georgia, lì ho iniziato un master in computer art e, di fatto, ho iniziato anche il secondo capitolo della mia vita: quello che poi si sarebbe evoluto in una carriera nel motion design e nella creatività digitale”


Erano i primi anni del nuovo millennio, era un periodo di febbricitante fermento tecnologico, di studio embrionale delle potenzialità grafiche, dei loro limiti e delle loro complessità… Un far west in cui Felipe diventa presto nome noto, maestro ambitissimo da studi e compagnie.
Il cuore del suo lavoro anticipa quella che poi sarebbe divenuto il suo modus operandi artistico. Durante la preparazione di storyboard pubblicitari, Felipe crea rapidi collage, unisce idee e visioni, si lascia guidare dal gusto personale, da magazine e letture, per poi unire i puntini e proporre i progetti alle aziende. Processi che, dopo l’epifania creativa, avrebbe ripercorso con finalità puramente artistiche.
“Sono arrivato ad un punto in cui mi sentivo realizzato, ma anche vuoto. Guardavo il mio portfolio e vedevo tutti quei mondi magici… Li avevo creati solo per fare pubblicità, nulla era realmente personale. Così mi sono posto una domanda: perché non fare arte? Mettere insieme dell’arte per me stesso, e non per altri, è stata un’esperienza catartica e ho iniziato a pubblicare le mie opere sui social. Tutto è accaduto molto velocemente, d’improvviso sono arrivati follower e attenzioni, è stato incoraggiante. Grazie al mio background, poi, sapevo bene come gestire le varie serie ed edizioni, così ho continuato il progetto”


E il progetto Invisible Realm ha portato Felipe a concedersi unicamente all’arte. Oggi le sue opere vengono osservate da migliaia di occhi curiosi, stanno compiendo la transizione in NFT e, contemporaneamente, continuano a porre interrogativi sul significato di realtà. Per farlo si affidano anche all’immaginario sportivo, come dimostra la galleria d’immagini qui pubblicata.
“L’atto sportivo è sicuramente una fonte d’ispirazione. In particolare sono affascinato dall’anatomia umana in movimento, da giganti come El Lissitzki e Moholy Nagy, artisti che si concentravano su questo tema, così come la scuola Bauhaus. Grazie a queste varie influenze troverete sempre elementi parasportivi nelle mie opere”



Felipe Posada
IG @the_invisible_realm
theinvisiblerealm.com
Testi di Gianmarco Pacione
Behind the Lights – Oskar Enander
Il fotografo che tratta la montagna come una tela e gli sciatori come pennelli
“Le immagini che più rappresentano la mia visione artistica prevedono la presenza di ombre. Grazie al contrasto bianco-nero la neve delinea delle forme precise: senza le ombre queste forme non risulterebbero così marcate. La presenza umana, nello specifico quella dello sciatore, aggiunge poi dinamismo e azione alla composizione, dandole vita”
Ombre e luci, neve e composizioni. Oskar Enander è un’artista delle montagne, le sue fotografie sono sonetti cromatici, sono rispettosi omaggi al sublime emanato da vette e fenditure, da declivi e canaloni. Svedese di nascita, ma svizzero d’adozione, tra le alture elvetiche Oskar ha trovato il proprio Eldorado, unendo le sue più grandi passioni e rendendole un prolifico lavoro.
“Ho sempre sciato e mi è sempre piaciuto fotografare, così nel 2002 ho deciso di unire le due cose. Alcuni anni di gavetta mi hanno permesso di rendere riconoscibili il mio stile e il mio nome, di creare connessioni nell’ambiente: questi fattori sono stati fondamentali per plasmare la mia carriera lavorativa. Combinare la fotografia con sci ed escursionismo credo sia una sorta di privilegio, poche persone hanno la fortuna di farlo. Non si tratta però di un lavoro facile, non ci si può permettere momenti di superficialità, il rischio è sempre alto…”


L’esperienza di Oskar si fonda su oltre un ventennio di relazione con le montagne: luoghi sacro-naturilistici di cui ha studiato ogni metro, ogni angolazione, ogni alba e tramonto.
“In montagna passo quasi la totalità del mio tempo. Ho iniziato a farlo oltre un ventennio fa, all’epoca fotografavo con la macchinetta analogica e avevo la mia camera oscura. Erano altri tempi… Per ottenere i giusti scatti penso bisogni maturare una grande conoscenza del territorio, ma non basta solo questo. Il sole, per esempio, è un altro elemento cruciale. Io scatto sempre all’alba o al tramonto, nel cuore della giornata il sole non ha una resa interessante e funzionale al mio tipo di fotografia. Le linee e la morfologia della neve sono altrettanto importanti. È impossibile stabilire a priori dove poter trovare la neve perfetta: per definizione, d’altronde, la neve è in costante cambiamento, non è mai la stessa… Ho modellato il mio stile tra le montagne di Engelberg, è qui che vivo e trascorro le mie giornate, la forma di queste vette disegna delle ombre uniche”


Questa ricerca quasi eremitica del perfetto scorcio innevato ha reso Oskar una sorta di guru della fotografia di montagna. Uno status che si carica di ulteriore fascino pensando alla patologia che lo affligge dalla nascita, il daltonismo.
“Non sono completamente daltonico, ma ho alcuni problemi con i colori, tendo a mischiarli. Il viola, per esempio, lo vedo come blu. Lungo la mia carriera mi sono abituato a questo parziale daltonismo, quindi non ho mai vissuto la patologia come una limitazione alla mia sensibilità artistica. Tra l’altro uso molto il bianco e nero, questa scelta estetica da un lato mi mette al riparo da problemi cromatici, dall’altro mi permette di dare alle mie opere una resa sensoriale diversa, a mio avviso più incisiva”





L’incisività degli scatti di Oskar non è figlia dello sforzo sportivo, ma dell’istante incantato. All’interno delle sue composizioni s’intersecano natura e geometria, vastità e piccolezza.
L’uomo, o meglio, l’atleta-sciatore diventa uno strumento propedeutico per impreziosire scorci montuosi, fuoripista e bianchi muri verticali. Con i suoi sci interpreta il ruolo del pittore interno al quadro, disegnando schizzi e traiettorie.
“Non mi è mai particolarmente interessato fotografare le gare perché sciatori e fotografi non hanno libertà, sono limitati da una lunga serie di restrizioni. Nelle competizioni ufficiali non ritrovo la stessa bellezza che osservo in uno sciatore solitario, impegnato ad affrontare la neve fresca e un tracciato vergine. Detto questo, ritengo che la fotografia sportiva debba immortalare emozioni. Io provo a farlo attraverso la cristallizzazione di un preciso momento. È fondamentale essere dentro il momento e mostrare quel momento, anche durante le gare: in quel caso bisogna focalizzarsi su ciò che sta provando e vivendo l’atleta, l’essere umano”
Nel prossimo futuro la ricerca artistica di Oskar Enander continuerà a concentrarsi sull’esaltazione del momento montuoso. Un momento che ricercherà anche all’esterno di Engelberg, come è solito fare grazie ai seriali lavori commissionati da rinomate aziende internazionali.
“Ora viaggerò un po’, le tappe di questo inizio 2021 saranno Canada e, probabilmente, Giappone. Va detto che la fortuna di vivere in montagna mi dà spesso la possibilità di lavorare da casa: cosa che farò anche in questi mesi. I brand ormai mi conoscono, sanno qual è la mia visione artistica e sono consapevoli che possa portare tutto a compimento anche restando qui, tra le montagne svizzere”



Oskar Enander
IG @oskar_enander
oskarenander.com
Testi di Gianmarco Pacione
Athleta Abroad – Helen Falda
Da Torino alla University of South Dakota, la saltatrice con l’asta che sogna le Olimpiadi volando negli USA
“Il rapporto con il salto con l’asta è come una relazione sentimentale: va a onde. All’inizio è stato un amore a prima vista, poi ho iniziato a comprendere tutte le difficoltà e le complessità relative a questa disciplina. Ho passato periodi duri, veri e propri burnout mentali, alcune volte ho addirittura pensato di smettere, ma la sensazione di volare, di superare i propri limiti, è fantastica e mi ha sempre fatto proseguire”
La liaison tra Helen Falda, astista classe ’96, e il proprio sport è bilingue. Una relazione iniziata sui tartan italiani e proseguita oltre i 4 metri in territorio statunitense. Un incessante moto ondoso che ha segnato la sua adolescenza e la sua maturazione, ma anche, se non soprattutto, il suo percorso universitario e umano.
“Tutto era cominciato con la ginnastica artistica, poi alle scuole medie ho partecipato ai giochi della gioventù, facendo la campestre. Mi piaceva correre, era anche una tradizione di famiglia, così sono entrata nella società atletica di Torino. Lì ho provato tutto le discipline e, dopo un paio d’anni, ho scoperto il salto con l’asta. All’inizio è stato difficile, ma mi divertivo. Ricordo di aver saltato 2.60 nella mia primissima gara, avevo appena 14 anni. Sorrido pensando che ora il mio personal best è di 4.42”

Tra i 2.60 superati dalla giovanissima Helen e l’attuale record personale s’intrecciano emozioni e perfezionismo, crolli e risalite, s’inserisce principalmente una pivotale scelta di vita: l’abbandono del Vecchio Continente per l’esperienza collegiale negli States.
“Durante un mondiale giovanile negli USA mi hanno notato degli allenatori universitari, nei mesi precedenti ero migliorata di 25 centimetri e per me era già una sorta di miracolo il fatto di poter partecipare a quella manifestazione. Una volta rientrata in Italia ho iniziato a ricevere una lunga serie di mail. Erano i primi tempi delle ‘migrazioni’ atletiche oltreoceano, non era ancora una transizione scontata… Finito il liceo mi sono presa un anno sabbatico per stare vicina alla mia famiglia, in particolare al mio fratellino, e studiare l’inglese, poi ho deciso di partire”

Dopo un primo anno in Texas, Helen trova la propria seconda casa nel South Dakota, per la precisione nel tempio atletico dei ‘Coyotes’. Immersa nelle alte pianure del Midwest, Helen affina la propria istruzione e la propria tecnica di salto, vedendosi selezionare per 7 volte come All American.
“La borsa di studio sportiva ti regala delle possibilità enormi, mi ha permesso di laurearmi in Scienze della Comunicazione e Lingua Spagnola, di conseguire un master in Sport Management e, contemporaneamente, di sentirmi ‘stipendiata’ come atleta-studentessa. Quando sono diventata All-American per la prima volta non avevo ben chiaro cosa significasse, poi ho compreso quanto fosse speciale quella nomina: vuol dire far parte della crema, delle migliori astiste e dei migliori atleti di tutti i college americani di Division I, il massimo a cui si possa aspirare”
Apici, ma anche baratri temporanei, come in ogni relazione sentimentale che si rispetti. Perché il periodo dorato di Helen arriva ad infrangersi contro una serie di scogli apparentemente insormontabili, caotici naufragi mentali che l’astista torinese riesce a gestire unicamente grazie all’aiuto del coach-mentore Derek Miles, bronzo a Pechino 2008.
“L’ultimo anno di college non sapevo cosa fare della mia vita. Ero stressata e ansiosa, il visto mi stava scadendo e la mia testa continuava a pensare al futuro in maniera tossica. In quel periodo non arrivavo a superare i 4 metri, ero apatica. Coach Miles mi ha aiutato ad uscire da quel buco che mi ero scavata da sola, mi ha fatto capire che si può rimanere incastrati anche nel futuro, non solo nel passato. Dovevo cambiare mindset, dovevo fare uno ‘switch’, come dicono qui, modificare testa e attitudine… Ero certa di amare gli States e di voler continuare a saltare in South Dakota, così mi sono messa a cercare lavoro”

Grazie ad un posto part-time all’interno del dipartimento di atletica, Helen riesce faticosamente a rinnovare il visto e a pensare con maggiore serenità al proprio futuro. Un futuro che è diventato presente. Oggi Helen continua difatti ad allenarsi sotto le direttive di Derek Miles, nei panni di ex studentessa, sogna i cinque cerchi olimpici parigini ed è impegnata in un’opera di raccordo tra giovani atleti italiani e college americani.
“Ci siamo fermati in quattro, qui, dopo il ciclo universitario. Coach Miles si concentra principalmente sugli studenti, è ovvio, ma dedica molto tempo anche a noi. Voglio provarci fino alle prossime Olimpiadi, voglio continuare a fare questo sport con passione, senza pensare alla misura, ma concentrandomi sul migliorare il più possibile: almeno fino a Parigi 2024. Contemporaneamente voglio aiutare i tanti giovani italiani che mi contattano chiedendo consigli e informazioni riguardo l’esperienza collegiale. Il programma atletico della University of South Dakota è cosmopolita, ora c’è solo un astista che proviene da questo Stato e, per esempio, ci sono molti estoni… Arrivare ad ottenere una full scholarship, una borsa di studio completa, non è facile. Bisogna saltare tanto e solo i migliori riescono a farcela. Fare il college grazie al salto con l’asta è stata in assoluto l’esperienza più significativa della mia vita e spero di poterla condividere con il maggior numero di persone possibile”
Helen Falda
IG @helenfalda
Testi di Gianmarco Pacione
Behind the Lights – Patrycja Jerzak
Nel mondo di ‘Pato’, la calciatrice professionista che immortala la cultura del pallone
“Vorrei unire arte e calcio, proporre qualcosa di diverso rispetto al solito immaginario visivo calcistico. La mia intenzione è andare alla scoperta delle varie comunità che costituiscono il cuore pulsante del mondo del pallone, analizzare la connessione tra calcio e culture locali”
Patrycja Jerzak ha deciso di essere ben più di una calciatrice di livello internazionale, ha deciso di non concentrare la propria energia creativa solamente tra riscaldamento prepartita e triplice fischio finale, ma di progredire, di espandere la propria ispirazione oltre i novanta minuti di gioco.



Nata in Polonia nel 1998, Pato, questo il suo distintivo soprannome, ha incentrato la propria vita sulla scoperta a tutto tondo del prato verde: una scoperta che avviene contemporaneamente attraverso la vorticosa dolcezza dei propri piedi e il sapiente utilizzo dell’obiettivo.
“Sono nata in Polonia, lì ho iniziato ad amare il calcio: era una passione di famiglia e presto mi sono ritrovata a giocare con i ragazzini del mio quartiere, ricordo che usavamo delle pietre come pali… Quando avevo 6 anni ci siamo trasferiti in Svezia, non conoscevo la lingua e il calcio è stato un mezzo fondamentale per integrarmi. Giocavo in una squadra di ragazzini, molti erano più grandi di me, ma avevo la sensazione che fossi nata per fare questo. Era tutto così naturale… In quegli stessi anni il movimento calcistico femminile ha iniziato ad avere una role-model come Marta, lei mi ha permesso d’immaginare un futuro da professionista”



Cresciuta tra le giovanili del Djurgårdens e la Nazionale polacca, Pato decide di attraversare l’Atlantico per i propri anni universitari, scegliendo la celebre UConn come alma mater accademica e sportiva.
Tra i banchi e i campi d’allenamento degli Huskies, la centrocampista di origini polacche scopre la bellezza della lente e comprende la possibilità di unire la moderna estetica visiva all’immaginario calcistico.
“Durante i due anni di college mi sono avvicinata a gruppi di studenti appassionati di fotografia. Avevo sempre curato il mio profilo Instagram, ma solo in quel momento ho comprato la mia prima macchina fotografica e ho iniziato ad affinare il mio stile artistico. Unire il calcio alla fotografia è stato automatico. Ho cominciato a pubblicare foto di campi e vedute aeree realizzate grazie a un drone: le reazioni dei miei follower sono state positive e mi hanno incoraggiato a proseguire”




Proseguendo il proprio percorso, invece, Pato fa tappa in Italia, firmando il primo contratto europeo da professionista a Napoli e trovando nella meraviglia insulare di Capri il più unico dei soggetti da ritrarre. Grotte, cale e un fiabesco campo sportivo affacciato sui Faraglioni danno il là ad un progetto che la giovane groundhopper (esploratrice di campi) polacca vede, purtroppo, bloccato sul nascere.
Intrappolata dal susseguirsi di lockdown durante la sua stagione d’esordio da pro, Pato matura la propria svolta artistica, unendo all’inconfondibile potenza geometrica di porte, panchine e spalti, la volontà antropologica di documentare vite e culture legate simbioticamente al calcio.
“Una volta trovato quel campo a Capri ho pensato di fare un documentario da pubblicare su YouTube. Poi il Covid ha fermato tutto. Doveva essere un racconto del campo, ma anche uno studio delle persone che facevano parte di quella società sportiva. Negli anni, difatti, ho capito quanto sia importante raccontare l’humus umano alla base del calcio. Penso a tutti i volontari che investono gratuitamente il proprio tempo per sostenere le piccole squadre locali, come succedeva nella mia prima società svedese. Penso ai tifosi, a quei ragazzi napoletani che prima di un Barcellona-Napoli accompagnavano i pullman delle squadre in moto. Penso all’importanza che riveste un club per una città, per un quartiere…”



Football is Everywhere Mag è diventato il risultato tangibile di tutte queste riflessioni, della volontà di condividere ed esaltare il vero (e plurimo) significato del calcio. Questo neofondato Mag digitale e cartaceo è un raffinato itinerario in un calcio popolare e romantico, sperduto tra panorami verdeggianti e innevati, tra folkloristici aficionados e reti strappate.
La prima Issue di Football is Everywhere, disponibile da qualche mese, si concentra sulla parte settentrionale della Svezia, la seconda si focalizzerà invece sulle Isole Far Oer. Nonostante i reportage fotografici e la costante creazione di contenuti, Pato non ha mai abbandonato la sua carriera calcistica. Oggi veste la maglia dell’Ifö Bromölla, squadra della massima seconda divisione svedese, e attende la prima convocazione nella Nazionale polacca senior.
“Mi piace il fatto che queste due carriere si siano fuse. Un allenatore mi ha detto che osservando le mie foto si può capire il perché in campo faccio determinati passaggi e vedo determinati movimenti… Mi ha fatto sorridere. Non è facile essere una calciatrice professionista: se pensi solo alla partita e sbagli la prestazione rischi degli enormi crolli mentali. Avere altre prospettive, altri interessi, aiuta ad essere più rilassati, più consapevoli di sé stessi. Voglio continuare a fotografare per questo motivo e perché la fotografia mi sta aiutando a capire, a scoprire, a interpretare ciò che non conosco”

Africathletics, correre verso un futuro migliore
Siamo orgogliosi di annunciare l’inizio della collaborazione con Africathletics: il progetto culturale che, grazie all’atletica, aiuta il progresso dei giovani malawiani
‘Run With Us, We Never Stop’. Nel claim di Africathletics sono racchiusi anima, significato e principali attori di questa virtuosa idea. La corsa e l’atletica a tutto tondo sono i veri capisaldi di questo progetto dalle molte sfacettature: da queste attività-fulcro si irradiano una serie di elementi atti allo sviluppo individuale e collettivo, come quello accademico e quello alimentare.
“La genesi del progetto risale al 2015 ed è strettamente legata alla componente sportiva”, spiega Giulia Marazzini, communication manager e consigliera dell’associazione, “Mario Pavan ed Enrico Tirel, i due fondatori di Africathletics, erano 400isti e amici di pista. Durante un meeting si sono soffermati davanti al banchetto di una ONLUS che operava in Africa e hanno deciso di affrontare la loro prima esperienza da volontari. Dopo un mese in Zambia hanno voluto proseguire il loro viaggio in Africa e sono arrivati a Monkey Bay, una piccola cittadina situata sulle sponde meridionali del Lago Malawi. Lì hanno scoperto un paradiso terrestre, un luogo magico, e hanno deciso di sviluppare un progetto incentrato sull’atletica leggera”

Il Malawi è una stretta lingua di terra dell’Africa Sudorientale. In questa ex colonia britannica tre quarti della popolazione vive con meno di due dollari al giorno e il 12% di essa è afflitto dalla piaga della sieropositività. Qui, incorniciata dalla Grande Rift Valley, ha preso forma l’idea multidimensionale di Mario ed Enrico.
“L’atletica è l’elemento trainante del nostro progetto. È uno strumento che aiuta ad evolvere in meglio le nuove generazioni, permette loro di apprendere la necessità di una visione a lungo termine: per ottenere risultati sportivi, d’altronde, c’è bisogno di allenamento. Ogni anno diamo la possibilità a circa 200 ragazzi e ragazze di partecipare al nostro progetto, poi selezioniamo i più meritevoli in base a diversi fattori come le prestazioni atletiche e quelle scolastiche, oltre alle condizioni familiari, infine assegnamo loro delle borse di studio”





Africathletics si è strutturata con lo scorrere del tempo, divenendo realtà sempre più in grado d’infrangere barriere secolari e allargare orizzonti culturali. Una crescita che, purtroppo, è stata alimentata da un tragico evento, la morte dell’appena venticinquenne vicepresidente Mario Pavan. La reazione a questa dolorosa perdita è stata immediata, ed ha portato molte nuove figure e volontari italiani ad unirsi al progetto.
Un progetto che nelle borse di studio vede uno strumento fondamentale per incidere sui giovani di Monkey Bay, per formarli grazie all’aiuto d’istruttori sportivi, d’insegnanti scolastici e di una corretta dieta alimentare. Elementi che, combinati tra loro, sprigionano una potenza rara, in grado di cambiare in meglio una singola vita e, di conseguenza, l’intera comunità.
“Cerchiamo di andare al passo con la comunità. Per noi è fondamentale che il progetto venga vissuto in primis dagli abitanti locali e che loro stessi lo vivano come parte integrante della comunità. Noi vogliamo che il progetto viva anche in nostra assenza, speriamo che un giorno possa addirittura arrivare ad autosostenersi. Stiamo creando gli allenatori del futuro e stiamo creando la buona società del futuro, dando la possibilità ai giovani d’imparare correttamente l’inglese, strumento necessario per accedere alla scuola secondaria. La scuola primaria del Malawi difatti vede spesso classi sovrappopolate, che arrivano a contare circa 200 bambini… Gli insegnanti parlano il dialetto locale Chichewa e, terminato il primo ciclo di studi a 8 anni, meno del 10% degli studenti può proseguire il percorso accademico a causa delle lacune linguistiche. Ecco perché noi mettiamo a disposizione corsi extra di inglese e matematica. Affrontiamo anche il problema della malnutrizione: in Malawi la terra è fertile, quindi non si può parlare di denutrizione, ma la dieta tradizionale prevede prevalentemente nshima (una polenta bianca) e cibi fritti. Con il nostro piano alimentare dimostriamo quanto sia importante anche questa componente nella maturazione dei giovani malawiani”

La presa di coscienza del proprio corpo, della propria mente, della propria capacità comunicativa, del proprio futuro. Il lavoro di Africathletics passa anche attraverso l’esempio dei primi ragazzi coinvolti nel progetto, oggi cresciuti culturalmente, oltre che fisicamente, e divenuti testimonial ideali per convincere i più giovani a perseguire gli stessi obiettivi.
Passa anche per la ‘Conquista del Castello’, gara podistica organizzata annualmente a Feltre, il cui ricavato viene devoluto al progetto malawiano, e passa per una comunicazione dall’alto impatto visivo. Sui social Africathletics ha deciso di cambiare la classica narrazione di ONLUS e associazioni varie, proponendo contenuti estetici, volti a raccontare l’anima positiva di un progetto che è in continuo sviluppo.
“Non vogliamo comunicare tristezza o difficoltà. I malawiani vengono definiti ‘il popolo del sole’, regalano sempre gioia e sorrisi. Per questo portiamo con noi fotografi che sono in linea con la nostra idea comunicativa, le loro immagini rispecchiano il nostro pensiero e crediamo che siano un punto di forza del progetto. Come prossimo step ci piacerebbe creare una squadra di rugby a 7 femminile. Riteniamo sia fondamentale per evolvere il concetto di donna, tema storicamente delicato nel continente africano. L’importante, come sempre, sarà trattare tutto con calma e delicatezza, nel rispetto della cultura malawiana”
Per conoscere più approfonditamente e sostenere il progetto Africathletics, clicca qui.

Ph Davide Gaudenzi
IG @davidegaudenzi_photo
davidegaudenzi.com
Ph Federico Ravassard
IG @federico_ravassard
federicoravassard.com
Testi di Gianmarco Pacione