Brooks Roots Journey, la bici è narrazione
Dal nord Italia a Birmingham: una moderna Odissea per omaggiare la storia di Brooks
Cosa significa tornare alle origini? Cosa significa scoprire e riscoprire una storia secolare pedalando nel cuore dell’Europa?
Brooks England ha annunciato il Brooks Roots Journey, una ‘moderna Odissea’ che coinvolgerà tre ciclisti e li vedrà viaggiare lungo tutto il Vecchio Continente. Dal nord Italia a Birmingham, tre settimane di avventura umana e fatica sportiva che condurranno i partecipanti ad un traguardo carico di fascino e significato: la fabbrica Brooks di Birmingham, dove tutto iniziò nel lontano 1866 e dove ancora oggi vengono prodotte tutte le selle in pelle del brand britannico.



Tradizione artigianale e innovazione, analisi culturale ed eterna sfida all’elemento naturale. Chiunque può essere selezionato per questo ‘homecoming journey’ candidandosi sul sito brooksengland.com/roots/.
I 100 chilometri percorsi giornalmente in totale autosufficienza verranno monitorati da un’equipe di content creator e il viaggio darà vita ad una pubblicazione ad hoc. Perché nella visione di Brooks tornare alle origini significa raccontare: raccontare il passato passando per il presente. it means the narration of the past through the present.
Credits
Ph RISE UP
IG @riseupduo
riseupstudio.com
Text Gianmarco Pacione
BROOKS ENGLAND
brooksengland.com
Under Armour e Stephen Curry stanno cambiando il basket, e non solo
Il Curry Brand è la virtuosa evoluzione del rapporto brand-atleta
Change the game for good. Il mantra evidenziato da tutte le pagine legate al Curry Brand non è la classica, impattante forma lessicale priva di reale volontà, contenuto e azione.
Stephen Curry sta cambiando il gioco. Lo sta facendo sul parquet dal lontano Draft NBA del 2009, checché ne dicano i puristi della palla a spicchi, lo sta facendo in egual modo all’esterno di esso. Lo spirito filantropico del visionario faro-giocoliere dei Golden State Warriors risulta difatti essere uno dei più sfaccettati ed efficaci dell’intero panorama sportivo mondiale.
Il suo brand, sottocostola di Under Armour in un rapporto che, a tutti gli effetti, ricalca quello mitico tra Nike e Jordan, è diventato molto più di una semplice vetrina per abbigliamento e sneakers personalizzate: Curry Brand è un’evoluzione del binomio marchio-atleta, un nuovo scenario figlio di questo tipo di connessione, in grado di toccare in egual modo ambiti inesplorati e virtuosi, Metaverso e comunità reali, parquet e istruzione.

DALLA LOTTA ALLA MALARIA A ‘EAT. LEARN. PLAY.’
La prima grande tappa nell’impegno sociale del figlio di Dell, nota shooting-guard dei favolosi Charlotte Hornets anni ’90, arriva nel 2012, con una particolare formula di donazione per la fondazione ‘Nothing But Nets’, impegnata nel combattere la diffusione malarica in Africa.
Introdotto al tema dal suo compagno collegiale a Davidson Bryant Barr, Curry decide di donare tre zanzariere per ogni tripla segnata. La sensibilità maturata verso questo problema porta Curry anche alla Casa Bianca, dove nel 2015 interviene davanti a Barack Obama sostenendo la sua President’s Malaria Initiative.
È solo un piccolo ma significativo antipasto di quella che, con il passare del tempo e con l’annessa maturazione personale, si sarebbe tramutata in una visione umanitaria molto più articolata.
Segnato dalla consapevolezza di un’infanzia differente rispetto a tanti suoi colleghi, vissuta nell’agio di una famiglia resa benestante dalla pallacanestro, e da un profondo legame con i valori cristiani, come testimoniato dall’ormai iconica gestualità tocco del petto-indice puntato al cielo dopo ogni canestro, il 30 degli Warriors inizia a concretizzare le sue convinzioni solidaristiche nel 2019, quando istituisce la fondazione ‘Eat. Learn. Play.’ insieme alla moglie Ayesha.
“Ci impegniamo a far evolvere il potenziale incredibile di ogni bambino, lottando per porre fine alla fame infantile, assicurandoci che gli studenti abbiano accesso a un’istruzione di qualità e fornendo luoghi sicuri per tutti i bambini, dove possano giocare ed essere attivi”, questo il manifesto programmatico firmato dai Curry: una serie di obiettivi virtuosi perseguiti grazie alla poliedrica sinergia con Under Armour.


TRA NFT E REALTÀ, TRA TRIPLE E OPPORTUNITÀ
Che Stephen Curry abbia cambiato le prospettive di Under Armour non è un mistero. Firmato nel lontano 2013, il tre volte campione NBA e due volte MVP ha segnato indiscutibilmente l’inizio di un’epoca cestistica d’oro per il brand del Maryland.
Contestualmente, però, il rapporto tra Curry e Under Armour ha permesso al nativo di Akron di strutturare ed esplorare una lunga serie di iniziative sociali: iniziative anche atipiche e, per certi versi, visionarie, come recentemente successo in occasione della 2974esima tripla mandata a bersaglio in una partita ufficiale NBA, record all-time della Lega.
Per celebrare il traguardo raggiunto, 2974 repliche digitali delle scarpe indossate da Curry nella storica partita del Madison Square Garden sono state messe in vendita con un drop NFT. Queste scarpe ‘metaversiche’ sono andate sold out dopo poche ore e quasi l’80% del milione di dollari totalizzato (il prezzo singolo di ogni scarpa era 333 dollari) è stato devoluto in beneficenza ad organizzazioni che supportano l’accesso allo sport per i più giovani.
Accesso allo sport che Curry e Under Armour perseguono non solo con queste iniziative speciali, entrando costantemente nei quartieri più caldi e sostenendo da un lato fondazioni radicate nella Oakland a cui Steph è visceralmente legato, come testimoniano le azioni a favore dell’Oakland Parks, Recreation & Youth Development e dell’Oakland Athletic League, e dall’altro realtà internazionali come l’australiania Charity Bounce.
Il binomio UA-Steph dichiara di voler costituire gli strumenti, le basi affinché le nuove generazioni possano progredire a livello sportivo e umano. Il rinnovamento dei campetti, la bonifica di spazi abbandonati e il supporto del sistema scolastico sono i tre ambiti su cui si focalizza maggiormente questa sensibilità condivisa. Altrettanto fondamentale in questa vision è il reclutamento di allenatori-mentori, persone inviate in aree delicate con il solo scopo di cambiare vite grazie alle parole, alle nozioni cestistiche e all’influenza positiva: capisaldi riassunti dall’organizzazione non-profit Positive Coaching Alliance, anch’essa sostenuta dal Curry Brand.
Recentemente Curry e Under Armour hanno dato ulteriore dimostrazione della vicinanza alle problematiche infantili, coinvolgendo i famosi Muppets di Sesame Street nella nuova collezione di Curry Flow 9. I celebri pupazzi, oltre a dare una nuova e originale identità cromatica alle sneakers utilizzate dallo sharpshooter degli Warriors, sono simbolo tangibile dei principi sopraelencati.
“Curry Brand e Sesame Street condividono lo stesso messaggio. Si tratta di sostenere tutti i bambini, specie coloro che vivono in comunità scarsamente aiutate: ragazzi che cercano un opportunità per diventare la migliore versione di loro stessi”, questo lo statement che ha accompagnato il lancio delle sette differenti colorways dedicate a questa collaborazione.
Anche in questo caso Curry e Under Armour hanno fatto seguire all’esempio l’azione, schierandosi al fianco dell’organizzazione non-profit Sesame Street, impegnata nell’istruzione infantile.
Change the game for good. In un mondo di testimonial strapagati e fini a loro stessi, di atleti-influencer, di stelle che si fermano alle prestazioni sul campo, Stephen Curry sta segnando una nuova strada: la strada della grandezza condivisa, del rapporto con un brand che non si ferma al semplice shooting fotografico o all’advertising superficiale, del coinvolgimento attivo e costante in problematiche reali.
Stephen Curry sta cambiando il gioco, il gioco vero, per il bene. Ed è giusto ricordarlo ogni volta che lo si vede rilasciare un floater ad altezze vertiginose, ogni volta che lo si vede shakerare il pallone in un ball-handling ipnotico, ogni volta che lo si vede rilasciare frecce fatate dai nove metri dopo alcuni passi di danza cestistica.
Perché l’eccellenza deve ispirare. Non solo dietro la linea dei tre punti.

Athleta Abroad – Julian Baldi
Il linebacker italiano che sogna l’NFL sui campi di Valdosta State University
Si definisce un ‘uomo in missione’, Julian Baldi. Tutte le sue azioni, tutte le sue parole confermano questa condizione autoindotta, questa trasparente e mai appagata necessità di prevalere in un contesto che suo non dovrebbe essere per natura, per origine, per affinità territoriale e culturale.
Italiano, bolzanino per la precisione, Julian a 23 anni si ritrova all’apice del suo apparentemente folle viaggio nel football americano, un viaggio che oggi lo vede linebacker nel defensive team del prestigioso programma universitario di Valdosta State University.

Da oltre cinque anni Julian è un esploratore tricolore in un cosmo ignoto, un pioniere partito dal Bel Paese per mettersi in gioco, per inseguire una passione prima iniziata per caso, poi coltivata con massima serietà e devozione, quasi con ossessione: la passione per il football americano, per quella palla ovale e quelle yard che, oltreoceano, rasentano il culto religioso.
“Mi sono innamorato del football in un modo strano, guardando ‘L’altra sporca ultima meta’. Avevo 13 anni ed ero già appassionato di USA in generale, ma quel film con Adam Sandler mi ha fatto scattare qualcosa dentro. Facendo delle ricerche su internet ho trovato una squadra locale, i Giants di Bolzano, e dopo qualche anno di Nazionale sono stato convocato per un match in Texas tra il World Team IFAF e il Team USA. Lì, sul prato dell’AT&T Stadium, ho deciso che avrei dovuto fare il grande salto oltreoceano. Così ho iniziato a mandare video di highlights a diverse high school e ho accettato una borsa di studio offerta dalla Clearwater Academy. Sono arrivato in Florida con un obiettivo preciso in testa. Da quando ho preso l’aereo mi sono sentito in missione, mi sento ancora come un cavallo con il paraocchi, vado dritto per dritto, penso unicamente a lavorare e migliorarmi. Se in high school il traguardo era la borsa di studio collegiale, adesso è vincere il campionato nazionale con Valdosta State e in futuro chi lo sa… Diciamo che per il momento il sogno NFL è nel cassetto”

L’NFL, un olimpo irraggiungibile, inavvicinabile per chi è cresciuto sui provinciali campi italiani. Una barriera infranta fino ad ora solo dai calci di Giorgio Tavecchio e, parzialmente, dalla gigantesca stazza di Maximilian Pircher.
D’altronde è lunga, lunghissima la strada che conduce alle monumentali arene a stelle e strisce. Una strada irta di ostacoli e, soprattutto, di contendenti. Una strada che Julian ha assaggiato negli ultimi anni, vivendo sulla propria pelle le dinamiche umane e sportive meravigliosamente descritte dalla collana Netflix ‘Last Chance U’.
Funziona esattamente come si vede in quella serie tv. Durante l’ultimo anno di high school solo ai prospetti più noti vengono offerte borse di studio universitarie. Tutti gli altri devono provare a contattare i college, io per esempio ero completamente sconosciuto e ho scritto mail a moltissimi atenei. Alla fine sono approdato ad un Junior College, Independence, che compare proprio in una stagione di ‘Last Chance U’. Questi Junior College sono dei trampolini di lancio di breve durata, in due anni ti danno la possibilità di metterti in mostra o di sistemare eventuali problemi accademici per poi accedere ai programmi blasonati. Il problema è che in quei contesti non esiste il concetto di squadra: ognuno gioca per sé stesso, con il solo scopo di ottenere una borsa di studio e andarsene altrove. Non ho ricevuto chiamate fino alle ultime settimane di Junior College, pensavo che la mia avventura fosse finita, poi è arrivata un’incredibile offerta di full scholarship (borsa di studio completa) da Valdosta State University. Nei ‘Blazers’ ho subito trovato un clima diversissimo, ora mi sembra di vivere all’interno di una grande famiglia”
Una famiglia che si rispetti aiuta a crescere l’individuo all’interno e all’esterno del campo: l’ha compreso bene Julian, che in America ha visto metamorfizzare la propria timidezza altoatesina in incontenibile energia vitale. ‘Juice’, questo è il suo soprannome nello spogliatoio di Valdosta State, proprio in riferimento alla quantità di adrenalina sprigionata tra sala pesi e campo ogni singolo giorno.

Non ci sono solo sack e sudore, però, nella quotidianità di questo atleta dal fisico scultoreo, solcato da muscoli ipersviluppati. Ci sono anche i banchi scolastici. Già, perché Julian è uno student-athlete, uno studente-atleta che deve garantire risultati accademici per proseguire il suo sogno sportivo.
“Studio l’equivalente di Scienze Motorie e ho una fittissima ‘schedule’ settimanale. Praticamente ogni mezz’ora devo fare qualcosa: la giornata si divide tra studio, allenamento (minimo due al giorno) e pasti, non ho tempo per altro. Il football universitario è un vero e proprio lavoro, viene gestito in maniera estremamente professionale. Ogni giorno bisogna essere al top, bisogna confrontarsi con atleti mostruosi… Vivere questo tipo di contesto da ‘internazionale’ è fantastico, ho costruito un rapporto molto stretto con tanti miei compagni di squadra. Lo ripeto, loro sono la mia famiglia qui: una famiglia numerosa, visto che tra team e staff siamo oltre 120 persone! Spesso chiedo a mia mamma di ricordarmi dove sono, mi rendo conto che devo fare un passo indietro, estrarmi momentaneamente dalla ‘missione’ e osservare quanto fatto fino ad ora. Ho già realizzato un sogno che pensavo utopico, adesso però bisogna spingere e continuare, inseguendo un sogno ancora più grande”
Julian Baldi
IG @julian_baldi
Testi di Gianmarco Pacione
Behind The Lights – Ethan White
Un ritratto del calciatore professionista MLS divenuto fotografo di fama internazionale
Evocare un’emozione per l’osservatore, catturare contemporaneamente l’emozione dell’atleta: un’emozione già sperimentata in prima persona. La fotografia di Ethan White si concentra su questo dualismo, lo articola con un’esperienza e con un background molto più densi di significato rispetto a quelli di tanti suoi colleghi. Fotografare calcio e fotografare l’arte sportiva, per questo 31enne americano, equivale difatti al fotografare sé stesso.

Solo pochi anni fa Ethan era un calciatore professionista di alto livello. Solo pochi anni fa Ethan dirigeva la linea difensiva del New York City FC e pareva nel mezzo di una brillante carriera interamente sviluppata in MLS, nella Major League Soccer, massima espressione del calcio americano.
Solo pochi anni fa. Poi, d’improvviso, sopraggiungeva una decisione apparentemente incomprensibile, perlomeno per molti colleghi e addetti ai lavori: il ritiro dal calcio ad appena 27 anni per dedicarsi alla lente, all’arte del ritrarre volti, sensazioni ed estetica visiva.
“Una volta diventato giocatore professionista mi sono reso conto quanto fosse importante avere una passione esterna al campo. Documentare la mia vita era un modo per estendere la mia creatività, per aprire la mia mente, per pensare ad altro. Fotografare ha decisamente aiutato la mia carriera calcistica. Le ore giornaliere spese nella creazione di moodboard, nella ricerca artistica e nella fotografia mi permettevano di uscire daun vortice, di alleviare le pressioni. Quando giocavo nei Philadephia Union ho avuto il primo lavoro retribuito con Mitchell & Ness, li entusiasmava il fatto che un calciatore avesse gusto fotografico. Arrivato a New York, nel cuore pulsante del mondo fashion, le opportunità lavorative sono letteralmente esplose, Adidas per esempio mi ha offerto un lavoro senza sapere che fossi ancora un giocatore… Avevo anche pensato di trasferirmi a giocare in Europa, ma alla fine ho deciso di lasciare il calcio per concentrarmi su questa passione”



A due anni Ethan ha indossato le prime scarpe con i tacchetti. In periodo liceale, invece, ha preso in mano la prima macchina fotografica: un’azione legata alla passione per le sneakers e alle dinamiche di reselling legate ad essa. Banalmente: ritrarre al meglio una scarpa per poterla rivendere (all’epoca su Ebay) e comprarne un’altra. Nello stesso periodo la macchina fotografica ha iniziato ad accompagnarlo nelle trasferte con la Nazionale giovanile e ad invadere ogni secondo trascorso all’esterno del campo.
Sport da una parte, lifestyle e fashion dall’altra. Ispirato da Walter Iooss Jr. e dalla sua capacità di ritrarre ogni sfaccettatura della potenza individuale, non solo cestistica, di ‘His Airness’ Michael Jordan, Ethan ha iniziato a camminare in equilibrio sul trait d’union tra coolness e professionismo sportivo, immergendosi in un trend che sta egemonizzando la fotografia e, soprattutto, la moda contemporanea.
“Trovo che calcio e fashion siano due mezzi per esprimere sé stessi. Sono due linguaggi: come comunichi con i piedi, così puoi comunicare con i vestiti. Si tratta di farsi ispirare e di ispirare. Walter Iooss Jr è stato perfetto nel ritrarre l’intimità di MJ, nel mostrare come si vestiva e il progresso della sua vita, per questo è un mio grande punto di riferimento”


Anche Ethan White, a suo modo, è diventato punto di riferimento per tanti compagni di squadra, penetrando la barriera machista tipica dello spogliatoio e mostrando, in particolar modo alle nuove generazioni, la via per una vita che non ruoti unicamente intorno al pallone.
“Alcuni inizialmente storcevano il naso vedendo quanto tempo impiegassi nella fotografia. Bastava però spiegare, mostrare la mia passione e cambiavano immediatamente idea. Il mondo di oggi permette di avere sempre più input, sempre più contenuti che possano modellare te stesso e la tua personalità: per questo sono convinto che si possa essere molto più di semplici atleti. Assistendo al mio ritiro, molti ragazzi hanno anticipato i tempi e hanno iniziato a pensare ad una passione da sviluppare già durante il periodo di professionismo sportivo. In tanti hanno compreso l’importanza di questa presa di coscienza: è un qualcosa di fondamentale per gestire al meglio la fisiologica transizione di fine carriera. Per me, per esempio, il passaggio è stato facilissimo”
Una transizione resa facile da uno status già consolidato nell’universo fotografico newyorchese, dove Ethan negli ultimi mesi da calciatore aveva iniziato a collaborare con brand di spicco, dimostrando una qualità fuori dal comune: quella di creare legami e connessioni profonde con gli atleti fotografati, di creare un atipico rapporto tra ‘pari’ solitamente impossibile per fotografi ‘comuni’.
Il retroterra formativo di Ethan permette al nativo del Maryland di trattare anche il campo in maniera differente rispetto alla canonica fotografia d’azione. L’istinto affinato da protagonista sul prato verde gli impone di indagare ben altro rispetto a gol e tackle: ecco perché i suoi reportage calcistici parlano una lingua fatta di cultura locale, di microstorie, di romanzi personali vissuti attorno e all’interno dei novanta minuti.
"Quando vado a vedere una partita voglio immortalare ogni cosa, come se fosse un film, voglio raccontare l’intera storia. Sono fortunato perché ho vissuto tutto quello che vivono gli atleti che fotografo: so comprendere i loro stati d’animo, cosa gli passa per la testa, e riesco anche a predire cosa succederà in campo… Per farvi capire, molte volte mi ritrovo a inquadrare un punto, una situazione, mentre tutti i miei colleghi stanno inquadrando qualcosa di completamente diverso: tutte le macchine fotografiche sono girate da una parte, tranne la mia. Mi piace essere ‘personale’ con i giocatori e amo osservare i riflessi che le culture nazionali e locali hanno sull’ambiente-stadio. Da club a club, da Paese a Paese: tutto è differente, ogni cultura celebra il calcio in maniera differente”



Da Monterrey, dove ogni domenica prende forma una bollente e carnevalesca forma di devozione per il dio fútbol, alla Giordania, dove Ethan ha trascorso alcuni giorni all’interno di un campo profughi in cui il calcio rappresenta l’unica, seppur momentanea, forma di redenzione. Grazie all’unione delle sue passioni, Ethan sta riuscendo a scoprire e a far scoprire territori, tradizioni, forme di religione calcistica.
Come accaduto lo scorso anno in Italia, a Venezia, dove l’americano è stato a lungo ospite della società lagunare. Una residenza artistica impreziosita dalla promozione in Serie A dei ‘Leoni Alati’ e che, adesso, si è vista concretizzare nell’uscita di una pubblicazione interamente dedicata a quel periodo: ultimo progetto di una seconda carriera che, ormai, ha raggiunto gli stessi livelli d’eccellenza dimostrati in precedenza nei monumentali stadi a stelle e strisce.
“È stata una stagione contemporaneamente strana e spettacolare. Strana perché sono arrivato a Venezia poco prima del lockdown: la città è cambiata rapidamente, i turisti sono scomparsi, così come i tifosi allo stadio. Ho documentato proprio questo cambiamento, questo momento unico nella recente storia cittadina, senza le distrazioni che ci sarebbero state con una Venezia ‘normale’. Spettacolare perché al termine di una lunga cavalcata, passata anche dai playoff, il Venezia è stato promosso nella massima serie. Ora è appena uscito il libro che racconta tutto questo. In futuro voglio continuare ad alimentare questa combinazione tra sport e fashion, dentro di me è rimasta una parte fondamentale dell’Ethan atleta: la volontà di migliorarmi sempre, di continuare a crescere e di diventare il migliore nel mio ambito lavorativo”






Behind the Lights – Anthony Geathers
Restare fedeli alla strada, alla comunità, alle origini. Intervista al fotografo newyorchese
La fotografia di Anthony Geathers è fatta di strada e radici, di quartieri bollenti in cui s’intrecciano leggende popolari e storie mai raccontate. È il gusto della realtà, di una lente senza filtri, fedele a sé stessa e al proprio passato. È la forza dell’autenticità, di un occhio che non vuole scendere a compromessi, che alla semplice bellezza preferisce la narrazione estetica.
“Il mio lavoro non si focalizza solo sullo sport, ma anche sul concetto di comunità, di razza. Voglio mostrare un qualcosa che viene sistematicamente evitato. La mia ricerca fotografica si concentra su storie che i media canonici non trattano, sulla volontà di nobilitare le mie radici. Ho iniziato fotografando muay thai e kickboxing, seguendo atleti neri a cui nessuno dava rilevanza: da quel momento sono stato spinto dalla necessità e dalla volontà di valorizzare le loro gesta, caricandole di connotati sociopolitici, emozionali e, in alcuni casi, spirituali”

Nel portfolio di Anthony nulla è casuale, tutto è il prodotto di una vita iniziata e sviluppata tra i rivoluzionari marciapiedi di Brooklyn, tutto è legato alla multiforme sperimentazione giovanile, al contatto multiculturale, agli incessanti flussi visivi divisi tra hip hop e streetball, tra sport di contatto (wrestling, boxe, karate) e movimenti parapolitici.
“Ho sempre odiato stare a casa. Da piccolo dovevo sempre essere in movimento, ho provato moltissime discipline diverse e, a dimostrazione di questo, ancora oggi porto infiniti segni d’infortuni passati. A scuola ho scoperto la fotografia grazie al mio insegnante di Storia e ad un contest. All’epoca decisi di ritrarre le persone più importanti nel mio quartiere, coloro che ritenevo dei modelli. Durante quel primo reportage ho capito che la fotografia era un mezzo per parlare alle persone, un modo per esprimere la città: Jamel Shabazz mi ha ispirato moltissimo sotto questo punto di vista, lui è sinonimo di New York e di hip hop, è leggendario quanto la Statua della Libertà o gli Yankees…”



Nonostante una precoce infatuazione, la carriera fotografica di Anthony è rimasta a lungo in stand-by a causa di una singola, importante scelta di vita che l’ha condotto oltreoceano, nel pericoloso territorio afgano. Un’ostica parentesi che ha consentito al newyorchese di evolvere la propria capacità di analisi, di comprensione dell’essenza umana: strumenti ideali per quello che sarebbe diventato il suo lavoro una volta rientrato negli States.
“Dopo l’high school sono entrato nei Marines. In Afghanistan ero addetto alla mitragliatrice. Lì non potevo fotografare, mi veniva vietato dai superiori, tutto era caotico e l’unico pensiero fisso era quello di restare vivo. Questo però non mi ha impedito di prendermi del tempo, di tanto in tanto, e guardare le persone e gli ambienti con uno sguardo fotografico, ragionando sulle prospettive e sulle composizioni. Ora i miei lavori sono un riflesso di ciò che ho passato tra l’infanzia a Brooklyn e i Marines. Ho vissuto di tutto e trovo stimolante ritrarre atleti con un trascorso simile al mio, uomini e donne che sono usciti da un passato complesso, come i fighter UFC Angela Hill e Randy Brown”
Rientrato dalla missione militare, Anthony si è iscritto al college. Tra i banchi universitari ha compreso che la fotografia sarebbe potuta diventare una professione e l’ha presto resa tale, affidandosi ad una poetica legata quasi unicamente al bianco e nero


Se nel rapporto di lunga data con AND1 è riuscito a sublimare le proprie intenzioni artistiche, recentemente Gaethers è salito alla ribalta grazie alla campagna Comme des Garçons x Nike Air Foamposite One, interamente prodotta nel suo habitat naturale, le strade della Grande Mela.
“Sono molto orgoglioso della mia collaborazione con AND1, mi hanno dato carta bianca e ho fotografato a modo mio leggende come Skip To My Lou ed AO. Grazie a quel progetto ora tanti brand riconoscono il mio gusto e mi chiedono semplicemente di essere me stesso, di dare il mio tocco, come successo con Nike. Fortunatamente tutti ora vogliono più ‘realness’: il glamour non basta più, la gente vuole sentire e vedere qualcosa di vero, anche nelle pubblicità. Lo stesso vale per la fotografia sportiva pura, dove preferisco il basket dei playground a quello NBA. Nei palazzetti ci sono moltissime restrizioni, non c’è libertà di movimento e, di conseguenza, d’espressione. Quando devo fotografare un giocatore NBA, cerco sempre di costruire una connessione con lui, come faccio con gli streetballer: solo in questo modo si può creare un’estetica vera”

Portare la realtà dove la finzione ha regnato e, in qualche modo continua a regnare. L’obiettivo di Anthony Geathers è chiaro: eliminare l’artificiosità nella narrazione fotografica, renderla il più possibile fedele alla realtà.
Una forma di devozione artistica totalizzante, che ha portato Anthony ad annullarsi volontariamente, a negare la propria immagine e la propria identità al fine di celebrare i suoi soggetti nel modo più efficace.
Non vedrete mai la mia faccia. Se succede, succede molto raramente. Il mio lavoro deve riguardare solo chi fotografo, deve raccontare la sua verità. Ora sto imbastendo un approfondimento sullo streetball e continuo a collaborare in pianta stabile con AND1 e WNBA. Con la notorietà e il maggior numero di lavori dell’ultimo periodo, poi, posso permettermi di pensare a progetti culturali: in cima alla lista ci sono bmx, skate e hip hop. Sicuramente non ci sarà nulla di mainstream…”



