Must watch: ‘Colin in Black & White’

Cultura, razzismo e classismo in una vita da quarterback, quella di Colin Kaepernick

Creata da Ava DuVernay, prima donna afroamericana a ricevere una nomination al Golden Globe per ‘Selma – La strada per la libertà’, e Colin Kaepernick, ex quarterback NFL dei San Francisco 49ers, passato alla storia come primo atleta dei majors sports USA ad inginocchiarsi durante l’esecuzione dell’inno nazionale, ‘Colin in Bianco e Nero’ è una nuova, stimolante miniserie biografica disponibile su Netflix.

All’interno dei 6 episodi, la voce narrante dello stesso Kaepernick accompagna scene della propria adolescenza e profondi ragionamenti sociali. Il quarterback, ostracizzato dai campi NFL per il gesto di ‘kneeling’, forma di protesta contro la repressione delle minoranze statunitensi, mette a nudo la genesi del proprio pensiero, dei propri ideali, descrivendo una parabola cominciata con l’adozione infantile.

Cresciuto da agiati genitori bianchi, Kaepernick elenca una lunga serie di episodi di razzismo, più o meno evidenti, subiti in tenera età e in fase adolescenziale da persone a lui vicine, come allenatori e membri della piccola comunità californiana di Turlock. Episodi che, solo dopo l’acquisizione di una determinata consapevolezza culturale e sociale, hanno permesso a Kaepernick di formulare un lungo viaggio introspettivo e di porre le basi per il suo attivismo ormai noto in tutto il mondo.

Interpretato da Jaden Michael, Kaepernick descrive la sua lunga battaglia per diventare quarterback, una battaglia ostacolata da stereotipi razziali e, paradossalmente, dalla sua fenomenale predisposizione per un altro sport, il baseball. Durante questa difficile trafila sportiva, Kaepernick scopre e abbraccia la ‘black culture’, ispirato da personaggi come Allen Iverson e Spike Lee.

I diversi quadri narrativi ambientati tra casa Kaepernick e la Pitman High School, vengono intervallati da monologhi dello stesso Kaepernick che, impegnato ad osservare il suo percorso umano, crea connessioni tra il suo vissuto ed episodi che hanno segnato la storia afroamericana, non solo a livello sportivo. Le frasi di Kaepernick sono coltelli che s’infilano nelle piaghe della società americana, annotazioni di stampo antropologico dirette ed efficaci, che arrivano a proporre metafore significative, come quella tra lo schiavismo e le condizioni dei giocatori di football attuali.

“Non potevo ribellarmi perché non sapevo come fare. Ora lo so, e lo farò”. La ribellione di Kaepernick è passata dai campi NFL al piccolo schermo. Una ribellione che deve essere guardata, che deve essere compresa.


Il potere del gioco in Steve McCurry

I 10 migliori ritratti ludici del celebre fotografo americano

Cos’é il gioco per Steve McCurry? Cos’é il gioco per una delle lenti più famose della fotografia moderna? Nell’opera del nativo di Philadelphia questo concetto riveste un ruolo fondamentale, sprigiona tutta la propria forza primordiale, la propria capacità evocativa, il proprio fascino rituale.

Quella di McCurry è una rappresentazione huizingiana del gioco, una pratica libera, istintiva, tendente ad un piacere naturale, intrinseco all’essere umano. Classe 1950, il fotoreporter statunitense lungo i suoi numerosi viaggi ha documentato largamente questo fenomeno, studiando popoli e culture anche attraverso il mezzo ludico.

Membro dal 1986 del cenacolo Magnum Photos, McCurry è stato reso immortale dallo scatto ‘Ragazza Afgana’, realizzato in un campo profughi pakistano e rapidamente divenuto la fotografia più riconosciuta nella storia di National Geographic. Alcune delle sue moltissime mostre personali, organizzate a livello globale, hanno visto proprio il gioco come protagonista principale.

Un filo conduttore che qui abbiamo deciso di omaggiare, selezionando 10 scatti emblematici, altamente evocativi, capaci di definire la fotografia ludica di McCurry. Immagini, momenti che uniscono il Madagascar all’India, Il Myanmar al Brasile, in unico enorme parco giochi.


Behind the Lights – Mel D. Cole

Dall’hip hop al calcio internazionale. Intervista al celebre fotografo americano

“La mia visione di fotografia si basa sul creare contemporaneamente un’opera d’arte e una storia. Penso che ognuno nel suo ‘gioco’, nella sua professione, debba avere un certo range, debba dimostrare di sapere e potere fare più di una sola cosa. Non voglio limitarmi ad essere un fotoreporter o un fotografo di musica e sport, voglio essere bravo nel maggior numero di cose possibili”

Sicurezza. Il body language e la rapida parlata di Mel D. Cole lasciano trapelare una genuina, inscalfibile, sicurezza. Insieme ad essa irrompe una consapevolezza che non necessita di filtri zuppi di politicamente corretto e artificiosa umiltà. Una palese qualità, d’altronde, non può essere camuffata da modesta mediocrità.

Il range visivo di questo fotografo statunitense è enorme, così come il suo pedigree. Un pedigree che, solo negli ultimi anni, ha visto unire l’elemento calcistico ad una ricerca artistica inizialmente coltivata nella scena hip hop underground, poi proseguita al fianco dei migliori interpreti del panorama musicale d’oltreoceano e costantemente punteggiata da reportage a sfondo sociale, come quelli legati alle proteste BLM di pochi mesi fa.

Un seme, quello dell’immaginario sportivo, che nella mente e negli occhi del nativo di Syracuse, New York, era in realtà da sempre pronto a germogliare, innaffiato da tradizioni familiari e da anni di pratica e passione.

“Non riesco nemmeno a ricordare a quando risalga la genesi del mio rapporto con lo sport. Mio padre ha giocato a lungo a football, anche al college, e da ragazzino ho seguito il suo esempio. In generale sono sempre stato appassionato di tutte le discipline, dall’atletica al basket, e quando mi capitava di presenziare ad eventi sportivi, portavo sempre con me la macchina fotografica. Poi, una decina d’anni fa, il calcio, il ‘Beautiful Game’, ha fatto irruzione nella mia vita”

Il ‘Beautiful Game’. Uno strano incrocio, una strana fascinazione, una strana transizione, che hanno condotto Mel D. Cole dagli esplosivi concerti di Beyoncé, Kid Cudi, Jay Z e Kanye West, al religioso tumulto delle gradinate dello Stadio Olimpico e al polveroso calcio praticato sulle strade cubane e nei villaggi etiopi.

Il calcio è l’elemento sociale unificatore per eccellenza. In tutto il mondo. Qui negli USA non è popolare, ma osservando campionati come la Premier League, la Serie A e la Liga ho capito quanto fosse rilevante: è un fenomeno molto più grande di qualsiasi major sport americano. Il rapporto tra città e squadre, in molti casi tra quartieri e squadre, è così romantico… Ovunque sia stato ho visto calciare un pallone: a Cuba i bambini giocavano scalzi sull’asfalto, in Angola ho rivissuto la stessa situazione, in un villaggio etiope disperso nel nulla c’era una sola cosa, un pallone che rotolava, inseguito da cani e ragazzini. Sono stato fortunato, l’essere un fotografo conosciuto, anche se a livello musicale, mi ha dato chiavi d’accesso per assistere ad eventi calcistici incredibili: per esempio sono stato ad Anfield a vedere il Liverpool, in questo iconico stadio letteralmente incastrato tra case e cortili, oppure ho vissuto un match della Roma a bordo campo, nel magico Olimpico…”

Ritmi e scivolate. Microfoni e cori. Al mutare degli scenari non è corrisposto un mutamento dell’approccio fotografico di questo artista newyorchese. Mel D. nel prato verde e nei battimani degli ultras cerca le stesse vibrazioni propagate da cantanti e fan hip hop, provando ad immortalare corpi che si muovono armoniosamente, sospinti da suoni e agonismo atletico.

“Fondamentalmente tratto il campo come un palco: un luogo dove posso ritrarre emozioni e corpi in movimento, un luogo circondato da fan che investono anima e cuore, voce e corpo per un’ideale. Con la macchina fotografica provo a concentrarmi su tutto, non solo sui calciatori. Credo che ogni dettaglio sia importante: dagli uomini della security alle bandiere che sventolano, da un calcio di rigore a un contrasto aereo. Nel mio archivio visivo non ho punti di riferimento specifici per la fotografia calcistica, non mi sento ispirato da un fotografo in particolare, ho tutta una serie d’immagini fisse che, in un certo senso, guidano il mio istinto”

Mel D. Cole sta provando, a sua volta, a guidare una sorta di rivoluzione culturale. Da poco ha fondato la Charcoal Pitch F.C., agenzia fotografica calcistica (la prima in questo ambito diretta da un professionista afroamericano) animata dalla volontà di setacciare il dio pallone attraverso un’innovativa lente multirazziale.

Una visione che si sposa perfettamente con l’altro nobile obiettivo del fotografo della Grande Mela: spargere il verbo del ‘Beautiful Game’ tra le nuove generazioni nere americane. Un passaggio, a suo dire, necessario per fare evolvere l’intero movimento del ‘soccer’ statunitense. 

“Voglio usare la mia piattaforma e le mie fotografie per influenzare la comunità afroamericana. Quando ero piccolo solo i bambini bianchi giocavano a calcio: questa mentalità deve cambiare. Se vogliamo progredire a livello internazionale, i nostri migliori atleti devono affacciarsi a questo sport. E quando parlo di migliori atleti, mi riferisco ai giovani neri americani. Pensate per esempio se LeBron James avesse preso in considerazione il calcio da bambino… Attraverso l’arte provo ad ingaggiare, a stimolare, a fornire nuove e differenti prospettive a queste nuove generazioni”

Prospettive che hanno generato l’interesse di celebri club e brand nei confronti di Mel D. Cole. Una visione distante da convenzioni e ortodossie che ha già portato questo fotografo a collaborare con Chelsea, Manchester City, Nike, Adidas e Umbro, a dividere il proprio impegno tra progetti visivi e linee d’abbigliamento.

Investiture multiformi, di altissimo livello, che hanno caricato di responsabilità e pressioni il lavoro di Mel D., ma che, contemporaneamente, ne hanno rafforzato la voglia di incidere nello storytelling calcistico, di evolverlo, di progredire in un significativo percorso personale.

“Poter collaborare con queste realtà significa tantissimo. Sedermi a tavola con i migliori club del mondo, realizzare progetti con brand enormi è estasiante. La pressione mi fa performare. E per continuare a performare devo costantemente mettermi alla prova, lavorare duro e crearmi opportunità: non voglio retrocedere, mettiamola così”

Credits

Mel D. Cole
meldcole.com
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Soccer
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Testi di Gianmarco Pacione


Calisthenics a Londra significa comunità

Il reportage di Bertie Oakes ci parla di muscoli e legami umani

Bertie Oakes ci porta nei parchi londinesi di metallo e asfalto, facendoci scoprire, attraverso immagini e parole, le palestre a cielo aperto dedicate al calisthenics.

Buona visione.

Come molte altre persone, mi sono ritrovato a cercare un modo per stare in forma durante la chiusura delle palestre coincidente con il terzo lockdown britannico del gennaio 2021. Sono stato abbastanza fortunato da trovare di fronte a casa mia una palestra outdoor di calisthenics. Così ho cominciato a usufruirne ogni mattina.

La palestra è stata costruita dagli Steel Warriors, un’associazione benefica che fonde coltelli raccolti nelle strade di Londra e ne riutilizza l’acciaio per costruire le apposite barre.

Queste aree sono costruite in zone particolarmente colpite da crimini che vedono coinvolte proprie le armi da taglio, ma, contemporaneamente, sorgono all’interno di luoghi considerati ‘zone neutrali per le gang’. L’obiettivo è quello di dare ai giovani locali una struttura gratuita per impiegare positivamente il loro tempo. La palestra a Ruskin Park è la seconda di tre strutture costruite a Londra.

Ho iniziato ad allenarmi per rimanere in forma e non impazzire durante la pandemia. Molto rapidamente, però, ho scoperto un mondo completamente nuovo. Il calisthenics non è solo un insieme di esercizi, è uno sport competitivo, con una piccola ma appassionata comunità distribuita tra Londra e il resto del Regno Unito: uomini e donne intenzionati a spargere il verbo di quest’attività.

Durante le mie prime due visite agli Steel Warriors mi sono imbattuto in Jay Chris, tre volte campione nazionale e due volte campione del mondo di freestyle. Chris ha aiutato a progettare le palestre, dove si allena regolarmente offrendo consigli e aiuti ai compagni. La sua estrema disponibilità è un’indicazione chiara di quanto piccolo sia ancora il fenomeno calisthenics in questo Paese: in quali altri sport è possibile scendere per strada, entrare in un parco pubblico, e incrociare il numero uno al mondo durante un suo allenamento?

Allo stesso tempo va detto che questo sport sta indubbiamente crescendo. La palestra Ruskin è la sede del Team Instinct, un nuovo collettivo di atleti di livello elitario guidato da Goku Nsudoh, prodigioso diciannovenne indicato come futuro campione del mondo. Instinct spera di competere a livello internazionale e di sfidare a livello nazionale il team Bar Sparta di Jay, uno dei pionieri del calisthenics nell’intero Regno Unito.

Nelle ultime settimane di questo progetto, purtroppo, mi è stato fatto notare che la Steel Warriors Charity stava per sciogliersi. È altamente ingiusto che un ente di beneficenza capace, durante la pandemia, di dare speranza a così tante persone, sia crollato proprio a causa di essa, abbandonato dal principale partner d’investimento e rimasto a corto di donazioni.

È un enorme peccato che non possano nascere altre palestre di questo tipo a Londra. La comunità creata nella palestra Ruskin continuerà a vivere e la gente continuerà a scoprire e ad usare questo spazio, così come le altre due palestre esistenti. Il ruolo fondamentale che gli Steel Warriors hanno avuto nella crescita del calisthenics all’interno del Regno Unito sicuramente non sarà mai sottovalutato o dimenticato.

Credits

Photo by Bertie Oakes
IG @bertie_oakes

Testi di Gianmarco Pacione


Shawn Stüssy e la genesi dello streetwear

Dalle onde californiane allo skate, dalle strade al ghota del panorama fashion. Storia di un visionario

“Avevo tutto quello che volevo, ma c’erano anche grandi responsabilità. E qual è il senso di avere tutto, se non puoi godertelo?”

Strana scalata, quella di Shawn Stüssy. Strano percorso, quello di un uomo che partendo dalle tavole da surf californiane è arrivato a vestire panorami underground e strade di tutto il mondo, generando di fatto il concetto di streetwear.

Strana scalata, quella di Shawn Stüssy. Strano percorso, quello di un ragazzo prima immerso tra cultura hippy e onde, poi divenuto guru della scena fashion globale, infine allontanatosi da tutto, da fama e riconoscimenti, per crescere i propri figli.

Una scalata anomala, un percorso che, da oltre trent’anni, continua ad ispirare sottoculture e celebri case di moda, skater e designer, stile ed estetica collettiva.

TRA TAVOLE E T-SHIRT, TRA CALIFORNIA E GIAPPONE

Erano i primi anni ’80 a Laguna Beach, erano gli anni di una ribellione già cominciata, mai codificata. Si surfava, si viveva sulla cresta di un’onda fatta di libertà e psichedelia, si cavalcavano creatività e capelli lunghi.

Shawn Stüssy di quello scenario era partecipe e artefice. Nato nel 1954, nipote di un emigrante svizzero, Stüssy aveva presto iniziato a stare in equilibrio sull’oceano e a lavorare su quelle tavole che gli permettevano di scivolare sull’acqua.

Poco più che venticinquenne aprì la propria attività in una sorta di comune hippy. Privo di soldi, ma traboccante di idee, questo artigiano della vetroresina si fece conoscere grazie al passaparola e alla distintiva firma con cui cominciò a contrassegnare ogni prodotto: quel logo scritto a mano, influenzato da tag e graffiti, e quella u arricchita dall’umlaut sarebbero stati la chiave di volta per l’esplosione del brand. Illuminazioni grafiche alla base di tutto, dunque, ma non solo.

Nel 1981 il giovane Shawn ricevette un’offerta lavorativa dal Giappone, da una casa produttrice di tavole da surf che aveva avuto modo di osservare e studiare i suoi gioielli acquatici. Le trasferte nipponiche diventarono per il californiano un modo per affacciarsi all’alta moda, per battere i negozi di tendenza di Tokyo, per assimilare tendenze e gusti estetici.

Ad un anno di distanza il definitivo punto di non ritorno. Stüssy partecipò ad una fiera californiana, l’Action Sports Retail. Lì espose le sue tavole e, contemporaneamente, iniziò a distribuire maglie personalizzate.

“Non ero mai stato a quel tipo di fiera. Quindi mi sono detto di stampare la scritta ‘Stüssy’ bianca su alcune t-shirt nere. In quei giorni vendetti 24 tavole”

UNA TRIBÙ VESTITA STÜSSY

Stüssy divenne fashion designer senza accorgersene. Nel 1984 venne avvicinato da Frank Sinatra Jr. (nessun legame di parentela con ‘The Voice’) e gli venne proposto di lanciare una linea d’abbigliamento.

I suoi prodotti ebbero immediatamente un impatto epidemico su tutta la selva underground di surfer e skater. Il primo, iconico cappello da pittore divenne un oggetto di culto, un must have, così come le t-shirt e le giacche affrescate da grafiche dissacranti, da immagini rubate da altri brand e reinterpretate. La genialità di Shawn Stüssy si esaltò proprio in questo processo di appropriazione e reinvenzione dell’elemento alta moda. L’opera simbolista di Stüssy attinse da Rolex e Chanel, dalla corona e dal celebre No.4, smitizzando l’aura leggendaria aleggiante su questi marchi. Tra punk e Warhol, tra onde e asfalto, la umlaut travalicò prima i confini californiani, con il primo, storico negozio monomarca aperto a New York, poi le acque oceaniche, giungendo in Giappone ed Europa.

Fu un’ascesa vertiginosa, fu la nascita del concetto di streetwear.

Un processo che venne certificato e ingigantito mediaticamente dalla costituzione della cosiddetta International Stüssy Tribe: un cenacolo elitario, formato da guru dello streetwear europeo e mondiale come Luca Benini (Slam Jam), Jules Gayton, Alex Turnbull e Hiroshi Fujiwara. Nomi che ai profani dell’ambiente diranno poco, ma che rientrano a pieni meriti nel gotha delle figure più influenti in questo processo evolutivo del mondo fashion. 

TOCCARE L’APICE PER DIRE ADDIO

Come i più grandi rivoluzionari, una volta sedutosi sulla vetta, una volta raggiunti i vertici di un ambiente che casualmente l’aveva accolto e venerato, Shawn Stüssy decise di lasciare la propria azienda.

Una scelta presa a soli 41 anni. Una scelta dettata dal desiderio di passare il maggior tempo possibile al fianco dei proprio figli: “Volevo essere tanto puro nel crescere i miei figli, quanto lo ero stato nel crescere il mio business”.

Stüssy vendette le quote a Sinatra Jr. nel 1995, chiuse la porta e da allora non si voltò più indietro. Oggi continua a vivere tra Francia, Spagna e Hawaii, in una sorta di buen ritiro permanente. Le sue collaborazioni, le sue firme estetiche, continuano ad essere richieste dai giganti della moda, così come da case di produzione di tavole da surf.

Stüssy non può essere definito eremita a tutti gli effetti, dunque, ma visionario che, a quasi 70 anni, riesce ancora a stuzzicare, ad ispirare, a far desiderare il proprio genio sovversivo, la propria umlaut dipinta da oceani, strade e rivoluzioni culturali, il proprio status di leggenda vivente. 


Behind the Lights – Morgan Maassen

Intervista al poliedrico artista californiano capace di rendere unico l’universo acquatico

“Provo semplicemente a visitare luoghi che mi mettano in relazione e mi facciano esplorare la natura. Voglio incontrare persone, vedere animali, convivere con i vari elementi naturali. Non mi fossilizzo nei contesti cittadini, non ci passo troppo tempo. Fondamentalmente lascio parlare la mia macchina fotografica, voglio condividere tutte la bellezza e le curiosità che incontro lungo il mio percorso”

Le produzioni video-fotografiche di Morgan Maassen parlano un proprio idioma. Sono una lingua altamente comunicativa, profondamente estetica, immediatamente comprensibile.

Bellezza esotica ed umana si mescolano in lavori che sprigionano brezza marina, che ricercano l’estasi del momento, che ritraggono la commistione tra cornice naturale e presenza corporea.

Un’indagine visiva che per questo talento classe ’90 è partita dalla mecca di surf e skate, dal paradiso sensoriale di Santa Barbara, California.

“Ho iniziato a fotografare in un momento adolescenziale in cui ero molto impegnato tra scuola e lavoro. Contemporaneamente, però, sentivo crescere la mia passione per il mondo dell’arte e della cinematografia. Ho passato la maggior parte di quel periodo ad approfondire questi argomenti. Ho anche iniziato a portare con me la macchina fotografica: andavo in bicicletta al lavoro o in skate con gli amici e scattavo foto. Naturalmente i miei progressi sono stati molto lenti, ma ho avuto la fortuna di ritrarre ciò che volevo, ciò che mi piaceva, e di sperimentare moltissimo. Tutto questo mi ha aiutato a raggiungere uno stile che mi soddisfa pienamente”

Uno stile fondato su tre colonne portanti: la cura della composizione, l’influenza minimalista e la necessità di argomentare fedelmente lo storytelling visivo. Basi teoriche che si esprimono, anzi che deflagrano dinanzi a scenari meravigliosi, a palme liquide e onde danzanti, ad abissi e cieli tanto corposi, quanto trasparenti.

“Le composizioni sono fondamentali. Scarto tutte le fotografie che devono essere croppate, amo rispettare prospettive e scatti originali. Gravito sempre attorno al concetto di composizione minimale e condivido unicamente le foto che raccontino una storia. In fondo credo che ognuno abbia una propria visione della fotografia, questo è semplicemente il mio modo di vedere le cose ed è ciò che penso possa essere apprezzato maggiormente dal pubblico”

L’arte del surf, dell’equilibrismo acquatico, è sicuramente il tema principe all’interno della multiforme opera di Maassen. Un surf inteso come tangibile opera teatrale, come intimo gesto scenico. Un surf in cui il palcoscenico naturale risulta tutt’altro che accessorio, diventando spesso primo protagonista.

L’oceano per la lente di Maassen è movimento e stasi, è uno specchio animato che divide le sue visioni, che le stimola. Il mosaico acquatico diventa un quadro che può essere dipinto e studiato da ogni angolazione, da ogni altezza, da ogni strumento tecnologico.

“Fotografia aeree e subacquee, video normali e in Super8… Si tratta solamente di strumenti e dispositivi. Chiaro, cerco sempre di scegliere quello che è più adatto per catturare il momento, ma amo provare anche nuove fotocamere e videocamere per capire se valga la pena utilizzarle. Spesso, però, mi ritrovo ad utilizzare la mia Red camera: mi piace così tanto ritrarre il movimento… Se devo pensare a un dettaglio che amo fotografare, penso alle texture subacquee. Il modo in cui luce, bolle e idrologia lavorano insieme è surreale. A volte resto semplicemente immobile ad osservare!”

Di continente in continente, di spiaggia in spiaggia, di avventura in avventura. La vita di Morgan Maassen è un Grand Tour della bellezza, è un perpetuo viaggio sospinto dalle brezze marine, è un pellegrinaggio alla ricerca della stupefazione. 

Ricerca che non viene minata o condizionato dai lavori a lui commissionati da multinazionali e colossi dell’editoria internazionale.

“Tahiti è sempre la prima meta che mi viene in mente, lì montagna e mare sono così potenti e incontaminati… Le onde a Tahiti sono incredibilmente massicce e l’acqua è la più chiara che abbia mai visto. La Groenlandia e la parte settentrionale dell’Australia sono appena dietro nella mia classifica personale. Per quanto riguarda la mia condizione lavorativa, mi sento molto fortunato nel poter collaborare con aziende di alto profilo. So di avere uno stile unico e, per questo motivo, non adatto a tutti. La realtà è che durante un lavoro non penso al fatto che sto fotografando per un brand, sono sempre irremovibile riguardo le mie scelte stilistiche e la mia metodologia di lavoro viene rispettata. A volte capita di non ottenere lavori, ma agire così mi permette di fotografare nella maniera che mi rende più felice”

Nel prossimo futuro Maassen troverà ancora la felicità personale. Ci riuscirà grazie ad alcuni progetti video già organizzati. Tra questi spiccano un documentario dedicato al free-diving in laghi ghiacciati, un cortometraggio sul fotografo acquatico Ben Thouard e un nuovo film oceanico per il momento segreto. Non possiamo che attendere.

Credits

Ph & video di Morgan Maassen

morganmaassen.com
IG @morganmaassen

Testi di Gianmarco Pacione