L’orso della velocità, Karhu
Da Paavo Nurmi a Emil Zatopek, dagli ori olimpici all’innovazione: storia di un brand iconico
Cominciò tutto dal lancio del giavellotto e del disco, dagli sci, soprattutto dalle scarpe da corsa. Delle origini di Karhu poco si dice, poco si scrive.
Eppure dietro questo marchio venuto dal lontano nord, spinto sui podi olimpici di tutta la prima metà del ‘900, e non solo, da fredde correnti scandinave, si celano volti e gambe entrate indelebilmente nella leggenda sportiva.

TRE STRISCE COME ADIDAS? NO, COME KARHU
Cominciamo questo racconto con una curiosità. Karhu venne fondata come piccola azienda nel cuore di Helsinki: era il 1916, e il primo nome pensato per questa attività fu ‘Oy Urheilutarpeita’, appellativo generico riferito alla produzione di attrezzatura sportiva. Di lì a quattro anni nei locali del piccolo workshop finlandese comparve il primo disegno stilizzato di un orso, ‘Karhu’ in lingua suomi, animale che da quel momento sarebbe diventato epiteto, oltre che simbolo, dell’azienda stessa.
Non è tutto, però. Karhu, immediatamente specializzatasi in discipline come lancio del giavellotto e del disco, sci e corsa, si rese riconoscibile per tre strisce applicate metodicamente su ogni calzatura. Tre strisce: concept grafico che venne acquistato nel 1952 da un particolare imprenditore tedesco, quell’Adolf ‘Adi’ Dassler che dalla crasi di soprannome e cognome diede il là al brand Adidas. Leggenda vuole che le ‘three stripes’ vennero acquistate per l’equivalente di 1600 euro attuali e due bottiglie di whiskey.
Ciò che è certo, è che le menti dietro Karhu non diedero troppo bado a quell’originale baratto, scordando presto le strisce e inventando l’M-Symbol, il simbolo a M celebrante la parola finnica ‘Mestari’, campione, ancora oggi in uso.


PAAVO NURMI E LA FINLANDIA CHE VOLÓ
È complesso provare a spiegare l’impatto di Paavo Nurmi sui Giochi Olimpici di Anversa 1920, Parigi 1924 e Amsterdam 1928. Non basta l’elenco dei 9 ori e dei 3 argenti conquistati dal nativo di Turku, antica capitale finlandese aggrappata al confine svedese, per descrivere un’onnipotenza muscolare che irradiò ed elevò tanti altri suoi connazionali, generando le folate dei cosiddetti ‘Finlandesi Volanti’.
Egemonizzò la corsa internazionale, quel gruppo di frecce nordiche scagliato sulle piste da corsa da chissà quale mito norreno. Nurmi, nello specifico, riuscì in un qualcosa d’impensabile quando nelle Olimpiadi parigine vinse nello spazio di una sola ora i 1500 e i 5000 metri, stabilendo in entrambi i casi il nuovo record olimpico. Lui, Hannes Kolehmainen, Ville Ritola e tutti gli altri corridori su media e lunga distanza finlandesi erano accomunati da un particolare non di poco conto: le scarpe marchiate Karhu.


UNA LOCOMOTIVA DI NOME EMIL ZATOPEK
Lo chiamavano ‘Locomotiva Umana’, sosteneva di avere troppo poco talento per correre e sorridere allo stesso tempo. Emil Zatopek è l’emblema della sofferenza fisica sublimata in risultato sportivo, con il volto inclinato di lato, la lingua a penzoloni e la schiena inarcata è, e sarà sempre, immagine di gloriosa fatica, d’imperfetta eccellenza.
L’apice della sua leggenda atletica giunse, strana coincidenza, ad Helsinki 1952, dove il cecoslovacco vinse tre ori nei 5000, 10000 metri e nella maratona. In tutte le gare, corse con le locali Karhu ai piedi, Zatopek stabilì anche il nuovo record a cinque cerchi. Incredibile constatare come la maratona, l’ultimo grande appuntamento dei Giochi e il più intriso di senso storico, vide Zatopek schierarsi ai nastri di partenza senza alcuna preparazione specifica pregressa. Prima di allora, difatti, il corridore cecoslavacco non aveva mai corso una gara su quella distanza. Il risultato fu uno strepitoso tempo di 2h23’03”.
In quei Giochi scandinavi Karhu ‘vinse’ un totale di 15 ori: un’eredità di cui andare orgogliosi, un passato sportivo che non ha mai smesso di abitare l’essenza di questo brand, come dimostra la prima licenza per Air Cushion su running shoes depositata negli anni ’70, la tecnologia Fulcrum, tesa ad una maggiore spinta propulsoria e studiata lungo il decennio successivo con l’Università di Jyväskylä e la ben più recente invenzione Ort Fix per le suole. Chi l’avrebbe mai detto che quel nordico orso avrebbe condizionato così profondamente l’universo sportivo mondiale…

DAGLI ORI ALL’ORSO CONTEMPORANEO
Come dimostra la prima licenza per Air Cushion su running shoes depositata negli anni ’70, la tecnologia Fulcrum, tesa ad una maggiore spinta propulsoria e studiata lungo il decennio successivo con l’Università di Jyväskylä e la ben più recente invenzione Ort Fix per le suole.
Come dimostrano le recenti capsule ALL-AROUND e LEGEND, in grado di connettere l’heritage sportivo di Karhu con decathlon e universo collegiale. In queste ultime linee del brand di origini finlandesi, la presenza sportiva è costante: in ALL-AROUND questo connubio si concentra sulla disciplina olimpica per eccellenza, il decathlon, in LEGEND, invece, è forte il richiamo al concetto di ‘team’ collegiale e al noto logo dell’orso, reinterpretato come ‘Heslinki Sport Logo’.
Perché lo sport, in Karhu, sarà sempre elemento fondamentale.





Víctor Pecci, il playboy del tennis
Víctor Pecci, il playboy del tennis
«Borg era lo que hoy es Rafael Nadal en tierra batida» (Borg era quello che oggi è Rafa Nadal sulla terra battuta) dice oggi Victor Pecci tornando a quella domenica del 10 giugno di quarant’anni fa, quando nella finale del Garros fece soffrire Ice-Borg. Un metro e novantatré di altezza, criniera nera e mossa, sguardo intenso e penetrante, un Apollo con la racchetta.
Il tocco al phyisique du role, e da tombeur de femmes, glielo dava un diamante al lobo dell’orecchio destro. Alle doti di playboy, Víctor Pecci aggiunse però un dettaglio: sapeva giocare bene a tennis. Gran servizio, tocco morbido e una volèe d’incanto, erano gli ingredienti del suo gioco fantasioso e divertente.
Il limite era l’incostanza, tipico tallone d’Achille dei geni estrosi. Victor nasce ad Asuncion il 15 ottobre del 1955; negli anni del regime di Alfredo Stroessner, dove i ricchi sono sempre più ricchi e i poveri stentano a sfamare i niños, il tennis non è certo uno sport per tutti.
Figlio di un medico, il ragazzo cresce negli agi dell’alta società, e prende lezioni nel circolo più esclusivo della capitale paraguaiana. Divenuto campione nazionale ad appena 15 anni, si lancia nel circuito Atp, vincendo il suo primo titolo a Madrid nel 1976. In quel giugno del 1979, si presenta all’Open di Francia, dopo aver conquistato il torneo di Nizza, dove ha battuto in finale John Alexander. Un bel biglietto da visita, ma non abbastanza da accreditarlo tra i favoriti al Bois de Boulogne. È 35 al mondo e quindi nemmeno testa di serie.

Il tennis ha il suo re; a soli ventitrè anni Bjorn Borg può infatti già vantare sei titoli dello Slam: tre al Roland Garros e tre a Wimbledon. Se a Londra ne ha infilati tre di fila, a Parigi non ha fatto quaterna, perché sconfitto da Adriano Panatta nei quarti del 1976, l’anno magico del tennista romano.
Oltre al numero uno del mondo, signore assoluto della terra rossa, i maggiori pretendenti allo scettro di Francia sono Guillermo Vilas, Vitas Gerulaitis e Jimmy Connors. Borg raggiunge la finale, dopo aver spazzato via tutti gli avversari e aver letteralmente asfaltato Gerulaitis in semifinale.
Pecci supera Jaufftet e Slozil, e non lascia quindi nemmeno un set a Corrado Barazzuti e Harold Solomon (sconfitto da Panatta nella finale del 1976). Nei quarti, lo attende il derby con Guillermo Vilas, ma anche l’argentino si piega in tre set al talentuoso serve&volley del ragazzo di Asuncion.

Adesso bisogna fare i conti con lui, il suo tennis d’attacco gli attira le simpatie del pubblico parigino, le ragazze della Ville Lumiere ne vanno pazze, ma in semifinale incrocia quel cagnaccio di Connors e il pronostico è tutto dalla parte di Jimbo. Succede l’impensabile, a Pecci riesce tutto, la sua Fischer è una bacchetta magica, Connors soffre le sue continue discese a rete, s’innervosisce e va in confusione. Victor non gli dà scampo e vince in quattro set: 7-5/6-4/5-7/6-3.
È ora in finale con Borg. Pare una favola, ma è tutto vero. Dall’altra parte dell’Atlantico, in Paraguay si scatena un pandemonio. A nemmeno 24 anni, Pecci è l’idolo di un’intera nazione. Per la finale con Borg, Canal 9 garantisce ore di diretta televisiva e irradia le immagini del Roland Garros in ogni Barrio di Asuncion, cosa impensabile in un paese che si alimenta di solo calcio.
Il 10 giugno del 1979 il cielo di Parigi è bigio, cade qualche gocciolina di pioggia, che tuttavia non inficia il match. Pecci è contratto, fatica a sciogliere il braccio. Si fa sotto, ma Borg è un muro, ribatte tutto e lo passa con impressionante regolarità. I primi due set sono senza storia, ma nel terzo qualcosa s’inceppa nel tennis robotico dello svedese, ora Pecci riesce finalmente a far breccia.
Ne esce una partita meravigliosa e avvincente, una battaglia ingaggiata punto su punto; il paraguaiano infiamma il catino del Roland Garros tra volèe e acrobazie, trascina Borg al tie-break, e se lo aggiudica 8-6. Nel quarto lotta e gioca alla pari, ma subisce un break che risulta decisivo. Il suo sogno finisce lì: Parigi incorona per la quarta volta Bjorn Borg (arriverà a sei), ma al momento della premiazione riserva una standing ovation a Pecci, il bel ragazzo con l’orecchino che ha eletto suo beniamino e ama come un figlio adottivo.
Quando fa ritorno in patria, Victor ha il Paraguay ai suoi piedi; è giovane, bello, famoso e con un bel conto in banca: allora se la spassa e le partite della vita notturna sono tutte sue. Meno quelle sui campi da tennis, dove non saprà più ripetersi ai livelli del ‘79.

Nel 1981 batte ancora Vilas a Roma, ma si arrende in finale all’altro gaucho Joé Luis Clerc. L’ultima sua impresa la firma nel 1987, quando nella polveriera di Asuncion davanti al generale Stroessner guida la squadra nazionale di Coppa Davis a un clamoroso successo per 3-2 sugli Stati Uniti.
Passano due anni e, mentre in Paraguay dopo 35 anni il dittatore è deposto, Agassi e soci si prendono la rivincita in Florida rifilando ai sudamericani un cappotto.
È la fine della parabola di Pecci, che si ritira nel 1990. Tre matrimoni e due figli, Victor Pecci è tuttora un monumento nel suo paese. Nel 2003 gli hanno affidato la guida della squadra nazionale di Coppa Davis. Ma c’è di più: dopo essere stato eletto sportivo paraguaiano del bicentenario, dal 2013 al 2018 ha ricoperto la carica di ministro dello sport. E pensare che quel 10 giugno del 1979 a Parigi perse. Non osiamo nemmeno immaginare a cosa, se avesse battuto Borg, sarebbe successo. Ma forse, a pensarci bene, questa storia è più bella così.
I 6 migliori film di basket della storia
Da ‘He Got Game’ a ‘Chi non salta bianco è’. Quando il basket diventa leggenda sul grande schermo
“Il basket è come il jazz”, diceva Kareem Abdul-Jabbar. È una forma artistica, dove ritmo e ispirazione scandiscono ogni palleggio, ogni azione.
Il basket è una musa ispiratrice per il mondo della moda, grazie al suo spirito underground, all’universo cool NBA, al suo heritage visivo. Il basket è un soggetto sempre più utilizzato nell’arte contemporanea, ammaliata dalle innumerevoli sfumature del Gioco inventato da James Naismith. Il basket è anche punto di riferimento e spunto ideale per la grande cinematografia
Vi proponiamo quindi una raccolta di film, 6 per l’esattezza, che riteniamo i più grandi capolavori cestistici comparsi sul grande schermo. Buona visione.
He Got Game
La regia di Spike Lee, le interpretazioni di Denzel Washington e Ray Allen. Bastano tre nomi per comprendere la grandezza di una pellicola. In questa chicca divenuta cult, Jesus Shuttlesworth (interpretato da Allen, al tempo giocatore dei Bucks), è uno dei maggiori prospetti liceali della nazione. Fama, donne, oscuri procuratori e grandi college arrivano a bussare alla porta di questo ragazzo privo di genitori. Jesus, difatti, seppur minorenne, deve fungere da uomo di casa e padre per la giovane sorella. Alle sue spalle un terribile episodio: la morte della madre. Jake Shuttlesworth (Denzel Washington), padre di Jesus, è in carcere proprio perché responsabile del tragico omicidio casalingo e, improvvisamente, si trova a tornare tra i campetti di Coney Island per conto del proprio direttore. L’obiettivo? Far scegliere al proprio figlio l’università di Big State, alma mater del governatore statale. Ad innescarsi è una vorticosa serie di eventi, culminata in un complesso e duro riavvicinamento tra un figlio pieno di astio e un padre divorato dai rimorsi. ‘He Got Game’ venne presentato alla Mostra Internazionale Cinematografica di Venezia nel 1998. Da segnalare la meravigliosa colonna sonora in cui s’intrecciano brani di Aaron Copland e ispirati pezzi dei Public Enemy.


Glory Road
La storia dei Texas Western Miners è una pietra miliare nell’evoluzione sociale americana. Il piccolo college texano, grazie alle visionarie decisioni di coach Don Haskins, fu la prima squadra a schierare un quintetto di soli giocatori di colore in una finale NCAA: quella giocata nel 1966 contro la quotatissima Kentucky, corazzata guidata dal conservatore Adolph Rupp. Atti intimidatori, insulti razziali, resistenze pubbliche e desiderio di cambiamento popolano questa pellicola, diretta magistralmente da James Gartner, e l’intera marcia dei Miners fino alla terra promessa del titolo nazionale. Il film, fondamentale testimonianza storica, oltre che sportiva, venne nominato per il celebre Humanitas Prize, premio per la scrittura di film destinati a promuovere la dignità umana e la libertà, e vinse l’ESPY Award nel 2006.


White Men Can’t Jump
A Los Angeles il playground è folklore e trash-talking, è dollari in palio e outfit sgargianti. Lo era già negli anni ’90, come testimoniato dalla mitica pellicola White Men Can’t Jump. Nell’iconico campetto di Venice Beach s’incontrano Billy Hoyle (Woody Harrelson) e Sidney Dean (Wesley Snipes): streetballer agli antipodi, non solo per il colore della pelle. Tra i due nasce un’amicizia particolare, un’affinità cestistica che li condurrà in un ironico e vincente viaggio tra i playground più noti della Città degli Angeli: un viaggio alla ricerca di soldi facili. Come sfondo della storia un pregiudizio da sempre presente nella pallacanestro: la mancanza di atletismo nei giocatori bianchi. È solo un’agognata schiacciata a porre fine, forse, a questa diatriba secolare.


La legacy di Space Jam
Da Michael Jordan a LeBron James, da una pallacanestro giocata al ritmo dei grandi Bulls alla contemporaneità ipertecnologica vissuta come un videogame, dai Looney Toons ai Looney Toons. Il secondo capitolo di Space Jam (A New Legacy), da poco uscito nella sale, ha fatto storcere il naso a molti puristi, eppure sembra incarnare l’evoluzione 2.0 di una pellicola che ha deliziato generazioni di appassionati della palla a spicchi. James, ‘Re’ del basket attuale, indossa la corona consegnatagli da ‘Sua Altezza Aerea’ MJ anche sul grande schermo, trovandosi a salvare il mondo al fianco della compagine cartoonesca griffata Warner Bros. In questo nuovo capitolo i vari Charles Barkley, Patrick Ewing, Larry Johnson, Muggsy Bogues e Shawn Bradley vengono sostituiti da Anthony Davis, Damian Lillard, Klay Thompson, Nneka Ogwumike e Diana Taurasi. La presenza femminile nella Goon Squad è solo una delle tante novità innestate nel secondo Space Jam, ambientato in un mondo totalmente cibernetico, in cui prendono forma i sempre divertenti Bugs Bunny, Daffy Duck, Porky Pig e soci.


Coach Carter
Altra pellicola ispirata ad una storia vera, in questo spaccato biografico Samuel L. Jackson interpreta il coach Ken Carter, impegnato nel migliorare come giocatori e, soprattutto, come studenti e uomini, i ragazzi della Richmond High School. Carter sparge tra i suoi giovani atleti, vicini ad ambienti violenti e criminali, il verbo dell’istruzione, ponendo i risultati scolastici davanti a quelli sportivi. Gli Oilers, squadra dall’indiscusso talento, si trovano addirittura a dover saltare delle partite per concentrarsi sullo studio: scelta che pose coach Carter in mezzo ad una bufera di polemiche, ma che consentì a tantissimi suoi ragazzi di ottenere borse di studio universitarie. Anche in questo caso il basket diventa strumento per raccontare una meravigliosa storia sociale.


Hoosiers
Film più datato rispetto a quelli già elencati, Hoosiers è un capolavoro del 1986, diretto da David Anspaugh e candidato ai Premi Oscar per il miglior attore non protagonista (Dennis Hopper) e per la colonna sonora. Gene Hackman interpreta coach Norman Dale, allenatore messo ai margini dal sistema collegiale, che si ritrova a dirigere la squadra di una piccola scuola dell’Indiana, conducendola ad un inatteso successo statale. La storia, ispirata a quella della Milan High School, narra di rapporti umani ed intrecci sociali all’interno della comunità di Hickory. Ne viene fuori un intenso affresco dei criptici Stati Uniti rurali, un ritratto talmente intenso dall’essere stato scelto dalla United States National Film Registry come “opera d’arte culturalmente, storicamente e esteticamente significativa”, risultando, proprio per questo, soggetto alla preservazione della Biblioteca del Congresso.

