Le donne che hanno cambiato l’estetica del tennis

Dagli abiti Vittoriani alle sorelle Williams. Chi ha rivoluzionato il tennis femminile?

Corsetti, busti, gonne enormi che sfioravano terra. Il tennis femminile in epoca Vittoriana non lasciava spazio a creatività e libertà di movimento. Il tempo ha però cambiato radicalmente l’idea di outfit tennistico per il gentil sesso: un cambiamento arrivato grazie a dei momenti di rottura, ad alcune figure che sotto rete hanno coraggiosamente deciso d’infrangere tabù sociali e visivi, calpestando l’erba di Wimbledon e i terreni degli altri Slam vestite di novità, di ribellione, di evoluzione.

Qui abbiamo deciso di elencarvi alcune delle donne capaci di cambiare l’immaginario di abbigliamento sportivo femminile, spesso incappando in critiche e boicottaggi: idealiste spinte da un vento femminista, da un vento progressista. Atlete che hanno segnato il proprio sport non solo grazie alla racchetta.

Suzanne Lenglen

La ‘Divine’, la divina francese che dominò il tennis negli anni ’20, conquistando 25 titoli del Grande Slam, un oro olimpico ad Anversa e perdendo solo 7 partite in carriera. Prima celebrità femminile del tennis, per la stampa d’oltralpe e internazionale fu inesauribile calamita d’attenzioni: il suo gioco tendente al futuro, unito alla sua passione per il mondo glamour e all’intensità umorale mostrata in campo, portò le grandi masse a seguire il tennis femminile, prima di allora vissuto solo marginalmente.

In particolare, nel gran gala bianco di Wimbledon 1920, la Lenglen stupì organizzatori e spettatori presentandosi con un vestito che non copriva avambracci e polpacci: scelta assolutamente incomprensibile per l’epoca. In occasione di quel torneo londinese, la ‘Divina’ venne anche osservata bere del brandy alla fine di ogni set.

Di lì a qualche anno avrebbe smesso di giocare, non ancora trentenne: “In dodici anni in cui sono stata campionessa ho guadagnato milioni di franchi, e ne ho spesi altrettanti per viaggiare e disputare i tornei. Non ho guadagnato un centesimo dalla mia specialità, dal mio percorso di vita, dal tennis. Secondo assurde e antiquate idee solo una persona ricca può competere ad alti livelli e solo le persone ricche riescono a farlo. È giusto? Questo fa progredire il nostro sport?”, furono le sue laconiche parole.

Gussie Moran

Tennista di certo distante dai risultati straordinari della Lenglen, questa californiana resta cristallizzata nella storia sportiva per un particolare crossover avvenuto in occasione di Wimbledon ’49.

L’atleta statunitense, allora 26enne, chiese al celebre stilista Ted Tinling di disegnare il primo abito corto nella storia del tennis femminile. Rigorosamente bianco, come previsto dal ferreo regolamento di Wimbledon, l’abito della Moran venne creato in modo da far risaltare delle mutandine con risvolti in pizzo.

Lo scandalo fu enorme, e l’esibizione della ribattezzata ‘Gorgeous Gussie’, arrivò addirittura all’interno del Parlamento britannico. La prima musa ispiratrice di Tinling, legatissimo anche all’italiana Lea Pericoli, venne accusata dall’All England Lawn Tennis and Croquet Club di aver introdotto “volgarità e peccato nel tennis”.

Billie Jean King

Tornando nel gotha del tennis, non si può evitare di nominare l’immensa Billy Jean King, vincitrice di 78 titoli WTA e, soprattutto, figura di riferimento nella lotta contro il sessismo sia nella società, che nello sport.

Durante il match del 20 settembre 1973 giocato contro Bobby Riggs e passato alla storia come il più importante dei tre capitoli della ‘Battaglia dei Sessi’ tennistica (recentemente trasposto anche sul grande schermo), la King indossò un vestito disegnato proprio dal già citato Ted Tinling.

Quell’outfit divenne simbolo della rivalsa tennistica femminile: una rivalsa certificata dalla vittoria della King ai danni di Riggs, davanti ad oltre 30mila presenti e 90 milioni di persone incollate alla televisione.

Anne White

Wimbledon, 1985 edition: when Anne White took a leap into the future. The American athlete showed up in the green temple of world tennis with a one-piece suit, branded Pony, entirely made of Lycra. The outfit enchanted audiences and photographers, and sparked a huge wave of controversy.

L’incontro venne fermato sul punteggio di un set pari, al calare della sera, e l’arbitro intimò alla White di cambiare abbigliamento per il giorno seguente, optando per un completo più ‘appropriato’. La White acconsentì alla richiesta e perse la partita. Le foto della sua tuta ‘spaziale’, però, vennero pubblicate da tutte le maggiori testate del mondo.

Venus & Serena Williams

Un altro salto temporale, questa volta direttamente nel XXI secolo, dove una coppia di sorelle è stata in grado di raccogliere tutti questi lampi del passato, unendoli tra loro e liberando definitivamente il corpo delle proprie colleghe da preconcetti e demonizzazioni estetiche.

Lingerie e colori, personalità ed eleganza, Reebok e Nike: è così che Venus e Serena hanno definitivamente abbattuto il muro dell’ortodossia visiva tennistica, elevando i concetti di libertà decisionale e di femminilità atletica, impreziosendoli con oltre 300 settimane (combinate) trascorse in vetta alla classifica WTA.

Atipiche e iconiche, come il loro percorso, iniziato nella difficile realtà di Compton: una lunga marcia tra stereotipi e pregiudizi di ogni tipo, che queste due giganti della racchetta sono riuscite a polverizzare grazie a talento ed etica lavorativa.


5 film imperdibili sulla boxe

Le più affascinanti biografie del ring raccontate dalla settima arte

Abbiamo deciso di rendere omaggio alla nobile arte del ring, un’arte in grado di regalare affascinanti storie umane, oltre che sportive. Storie che hanno ispirato grandi registi e alcuni dei più luminosi capolavori comparsi sul grande schermo. Ne abbiamo selezionati 5, attingendo dalla cinematografia contemporanea e passata: tutti sono ispirati a biografie di pugili realmente esistiti. Buona visione.

Hurricane – Il grido dell’innocenza

Film basato sulla vita di Rubin Carter, per l’occasione interpretato da un sublime Denzel Washington. In questa pellicola diretta da Norman Jewison viene descritta la scalata mondiale di Carter, preceduta e seguita da un complesso rapporto con la giustizia. Carter, accusato di triplice omicidio all’apice della sua carriera, si trova vittima di un incredibile errore giudiziario, riuscendo a dimostrare la propria innocenza solo al termine di una lunghissima battaglia personale.

Toro scatenato

Capolavoro di Martin Scorsese, con Robert De Niro nei panni di Jake LaMotta. L’interpretazione di De Niro, premiata con l’Oscar, raggiunge picchi di rara intensità, mostrando i lati più brillanti e più bui del leggendario peso medio italo-americano. Con ogni probabilità il miglior film sportivo della storia, questa perla analizza demoni e vittorie del ‘Raging Bull’ del Bronx, narrandone la vita estrema.

Bleed – Più forte del destino

Film più recente rispetto ai due precedenti, Bleed ripercorre la vita di Vinny Paz, il ‘Pazmanian Devil’ campione del mondo dei pesi leggeri e superwelter. La pellicola ruota attorno al gravissimo infortunio stradale che rischiò di paralizzare completamente il pugile di Cranston, obbligandolo ad un recupero impossibile da pronosticare e ad una lotta con i limiti imposti dalla medicina, oltre che dal proprio corpo.

The Fighter

Un complesso affresco familiare, una drammatica dipendenza, un intenso legame fraterno. Mark Wahlberg e Christian Bale interpretano in questa pellicola i fratellastri Micky Ward e Dicky Eklund. Eklund, entrato nel vortice del crack dopo un’ottima ma breve carriera pugilistica, prova a spingere il proprio fratellastro al vertice del panorama pugilistico mondiale, instaurando però un rapporto deleterio e distruttivo. La redenzione, il riavvicinamento e la conquista del titolo mondiale WBU dei pesi leggeri arriveranno solo al termine di una detenzione e di una durissima presa di coscienza.

Lassù qualcuno mi ama

La vita da romanzo di Thomas Rocco Barbella, per tutti Rocky Graziano, viene interpretata da Paul Newman in questo film prodotto nel 1956. Furti e risse, gang e carcere, esercito e ring: il vortice umano di questo mitico pugile italoamericano funge da plot per questo capolavoro vincitore di due Academy Awards.


Analog football is better

Sabi Singh ci spiega come e perché la fotografia analogica sta conquistando lo sport, di nuovo

Il fascino della pellicola, l’effetto di un tempo tanto passato, quanto presente. È la ciclicità dell’espressione fotografica, è la potenza senza tempo dello scatto analogico.

Abbiamo chiesto a Sabi Singh, fotografo legato ai progetti Analog Football e Analog Sport, di raccontarci come questa pratica stia ridefinendo i canoni visivo-sportivi contemporanei. Alle sue parole abbiamo aggiunto una gallery dei suoi scatti. Buona visione!

Come hai scoperto la fotografia analogica? Perché hai deciso di utilizzarla per ritrarre lo sport e, soprattutto, il calcio?

Ho scoperto la fotografia analogica grazie al progetto Analog Sport. Penso che la fotografia analogica sia perfetta per lo sport. Normalmente si usa una fotocamera veloce per fotografare gli attimi sportivi, con l’analogico è il contrario, il processo è più lento, devi prenderti il tuo tempo e, anche sei in qualche modo limitato, il risultato è stupendo. Penso che l’unione di analogico e sport sia perfetta.

Puoi dirci qualcosa sui progetti Analog Football e Analog Sport?

Analog Football è il primo media dedicato alla fotografia su pellicola di calcio, riunisce una comunità mondiale appassionata di calcio e fotografia analogica. Analog Sport è un progetto che mira a formare i giovani nella fotografia sportiva analogica in vista delle Olimpiadi e delle Paralimpiadi del 2024.

Quali pensi siano i lati positivi di questo tipo di approccio fotografico? E quali sono, invece, le difficoltà che riscontri?

È sicuramente positivo il fatto che si abbiano a disposizione tante pellicole e che da queste si possano ottenere sempre risultati diversi. Inoltre l’intero processo è gratificante (è fantastico vedere apparire belle foto dopo aver aspettato l’elaborazione della pellicola stessa). La fotografia analogica ti aiuta anche con la composizione, perché sei limitato a 36 scatti per pellicola, quindi ti devi assicurare che ogni scatto abbia un senso: devi stare attento a quel click. Gli svantaggi sono probabilmente i prezzi delle pellicole e delle fotocamere… Stanno aumentando tantissimo.

Nelle tue foto alterni ritratti di calcio giocato al pallone fashion. Cosa ricerchi in questi due mondi così vicini e, allo stesso tempo, così distanti tra loro?

Voglio semplicemente dimostrare che il calcio è ovunque. Non devi essere in una partita di calcio per ‘rappresentarlo’. Puoi essere ovunque, basta che ci sia una divisa o un pallone… E il calcio prende forma. Normalmente non sono bravo a tradurre i miei pensieri in parole, quindi uso la fotografia per riuscire a fare un qualcosa di analogo.

Pensi che gli scatti analogici possano impreziosire l’estetica delle maglie da calcio?

Sì, assolutamente. penso che la combinazione fotografia analogica + maglie da calcio sia stupenda. Ha qualcosa di speciale. In generale, poi, ricordo sempre che un’immagine analogica ha più valore di un’immagine digitale.

Qual è il kit più bello che hai fotografato?

Domanda difficile! Direi il kit ‘rinascimentale’ italiano: a breve dovrò utilizzarlo per un altro nuovo fotografico. A questo aggiungerei anche la divisa che la Norvegia usa in trasferta.

Sabi Singh
IG @sabsinghh

Testi di Gianmarco Pacione


‘Uccio’ Salucci, con le moto e con i giovani non si scherza

Dall’infanzia con Valentino Rossi al Motor Ranch di Tavullia. Siamo entrati nel mondo del DS della VR46 Riders Academy

“Sono giovani, giovanissimi, e con i giovani non si scherza”

Parola di Alessio ‘Uccio’ Salucci, direttore sportivo della VR46 Riders Academy. Quando pronuncia questa frase si è appena staccato da un gruppo d’insistenti appassionati, bramosi di attingere dalla sua inesauribile fonte di conoscenza, di folklore motoristico, di segreti e indiscrezioni dal sapore d’asfalto.

È complesso, d’altronde, trovare persone che abbiano vissuto più in profondità di lui questo ambiente, è complesso trovare uomini in grado di lambire differenti ere motociclistiche sempre in prima fila, sempre al fianco di team e piloti.

È una figura alla vecchia maniera, ‘Uccio’, di quelli che trattano le due ruote come epicentro della propria vita.

Regala confidenza e sorrisi, romagnolo nei modi di fare e nel pensiero: un pensiero vorticoso, sempre in movimento, sempre concentrato sulle criptiche dinamiche di box e pista, sui vari pupilli da lanciare o già lanciati nel paradiso del Motomondiale.

La sua genuinità è temperata da una maturità trovata nel tempo, oggi particolarmente fondamentale per la gestione di giovani uomini dal talento innato.

“All’Academy la cura del lato umano è preponderante. Concentriamo la stragrande maggioranza delle nostre riunioni e delle nostre riflessioni su questo tema. All’inizio eravamo in due, tre persone. Ora siamo una ventina a gestire tutto quanto. Ai miei collaboratori ricordo sempre che abbiamo a che fare con ragazzi giovanissimi, a cui possiamo cambiare la vita sotto tutti i punti di vista: sportivamente, certo, ma anche a livello personale e privato. Dobbiamo sempre stare allerta, ponderare ciò che facciamo, ciò che diciamo. Questi giovani si fidano ciecamente e non possiamo permetterci di deluderli, magari promettendo loro cose che non possiamo mantenere… E non parlo solamente di grandi cose, ma anche di minuscoli dettagli, come una pizza per cena. La fiducia non è uno scherzo”

E di fiducia ‘Uccio’ se ne intende. Basti considerare quella riposta in lui dall’amico fraterno Valentino Rossi, il leggendario ‘Dottore’ a cui è legato da un rapporto impossibile da scalfire.

Un rapporto coltivato fin dall’infanzia, fin da quando ai pomeriggi sulla riviera, i due preferivano interminabili ore in sella.

“Da piccolo mi piaceva girare con qualsiasi cosa andasse forte. Soprattutto in discesa.  Molti dei miei amici giocavano a calcio, anch’io per un po’ l’ho fatto, come penso altri quaranta milioni di bambini italiani. Però non era quella la mia storia, dovevo andare con le due ruote per divertirmi veramente. Poi il mio compagno di merende, Vale, si è rivelato abbastanza veloce… Ma quello non l’ho capito subito. Oggi il rapporto con la moto non è cambiato, nutro massimo rispetto verso quell’oggetto, vengo invaso da un misto di adrenalina e goduria solo a guardarlo. Gli anni sono passati, io e Vale siamo diventati grandi e, con estrema naturalezza, questo amore è diventato un lavoro. Però devo essere sincero, non riesco a considerarlo tale: diciamo 90% passione e 10% lavoro”

Quel 10%, è innegabile, porta una marea di responsabilità gestionali nella vita di ‘Uccio’.

Responsabilità che vanno dalla semplice cura organizzativa del Motor Ranch, a quella mentale dei giovanissimi selezionati e cresciuti dall’Academy, alla pianificazione di un futuro che potrebbe aprire le porte di questa virtuosa realtà tricolore ad atleti stranieri.

“Ai ragazzi diamo tutto il supporto possibile. Sono consapevole del fatto che siano obbligati a crescere in fretta, devono abituarsi a stare lontani di casa, devono affrontare le prime pressioni… Noi li accompagniamo in questo percorso, consigliamo loro i team migliori. Gli ingredienti fondamentali che cerchiamo in un pilota sono l’educazione e il rispetto per tutte le persone che gli gravitano attorno: meccanici, tecnici, tifosi e avversari. Chi non ha queste caratteristiche non può far parte della nostra realtà, l’abbiamo già dimostrato con alcune scelte. Il Motor Ranch è la patria del divertimento, ogni giorno è un’esperienza, ma è anche molto complesso da far funzionare. Di certo in Italia e, penso, in Europa, impianti del genere non ce ne sono. Per questo in futuro potremmo aprire le porte anche a giovani piloti stranieri. Per il momento vogliamo concentrarci sui ragazzi che abbiamo e su un paio di innesti italiani. Dopo l’arrivo di Celestino Vietti ci siamo fermati per strutturarci e direi che ce l’abbiamo fatta, siamo pronti per un altro passo in avanti”


5 playground dove il basket diventa design

Nike, Hennessy, Puma, Adidas e Pigalle. Brand e pallacanestro sposano la creatività

In un periodo storico in cui è sempre maggiore la febbre da design sportivo e, soprattutto, cestistico, abbiamo selezionato 5 campetti dall’enorme impatto visivo.

Costruiti o rinnovati recentemente, queste perle del basket urbano sono tutte state commissionate da grandi brand mondiali: una pratica virtuosa, atta a riqualificare zone difficili o, semplicemente, a spargere il verbo del Gioco nel modo più estetico possibile.

Sheki Lei Grind Court, Hong Kong

Situato nel quartiere popolare di Kwai Chung, questo playground, inaugurato da Nike lo scorso giugno, è situato in una zona nevralgica dell’ex colonia britannica. Nelle sue prossimità, difatti, sono presenti 14 scuole elementari e medie. I motivi cartooneschi sono stati dipinti dell’artista britannico James Jarvis.

NBA Hennessy basketball court, Sidney

Il noto brand di liquori Hennessy, global spirits partner NBA, ha confezionato una perla cestistica sulla costa di Sidney. La vernice nera voluta dallo Studio Messa ha preso il posto delle piscine del rinomato Bondi Icebergs Club, creando una suggestiva visione sportiva.

Children’s Village Community Center, New York

In occasione del lancio delle signature DON 3, la stella degli Utah Jazz Donovan Mitchell, supportato da Adidas, ha regalato una serie di campetti alla comunità del Children’s Community Village di Dobbs Ferry, New York.

Puma Unity Corner, Kiev

L’apertura del campo Puma Unity Corner, nel cuore di Kiev, è coincisa con il lancio della campagna globale UNITY. All’interno di questo scorcio urbano ucraino si alternano le immagini di monumenti di tutto il mondo, sottolineando il messaggio alla base della campagna ideata dal brand tedesco.

Pigalle playgrounds, Parigi e Pechino

La collezione Nike Pigalle Converse ha dato il là all’ennesimo processo creativo di Stéphane Ashpool e soci. Oltre al rinnovamento dello storico e caratteristico campo parigino, roccaforte del brand francese, Pigalle per la prima volta ha varcato i confini europei, arrivando a Pechino. Un nuovo capitolo dedicato interamente alle nuove generazioni, come dichiarato da Ashpool stesso.


Behind the Lights – Filippo Maffei

Il surf, lo skate, i ritratti. Viaggio nel mondo del talentuoso fotografo viareggino

“Credo che per fotografare il surf sia fondamentale conoscerlo a fondo. È un qualcosa che vale per tutti gli sport di nicchia. Bisogna essere in grado di percepire il gesto tecnico, di saperlo comprendere. Spesso paragono il surf alla danza. Se dovessi fare uno shooting di danza avrei bisogno di studiare molto tempo per capire il momento preciso in cui il corpo diventa elegante, in cui raggiunge una posizione perfetta. Ci sono dei canoni da rispettare, dei canoni di bellezza…”

Il surf di Filippo Maffei è un inno alla gentilezza estetica, all’istante estatico. Nelle composizioni fotografiche di questo artista viareggino le onde diventano set dal significato raro, ricercato, studiato.

Questione di abitudine, questione di richiamo naturale, di passione giovanile sublimata nella creatività, nel gusto visivo. Una passione sbocciata sui vuoti pontili della Toscana invernale, dove le tavole da skate si alternavano all’equilibrismo ondoso.

“Sono cresciuto con il mare davanti ai miei occhi. L’ho vissuto soprattutto nel periodo autunnale, invernale, quando i turisti lasciavano la città. Da settembre in poi il lungomare diventava deserto, tornava ad essere unicamente nostro. La passeggiata, le piazze, tutto era vuoto e veniva illuminato da tramonti spettacolari. In questi contesti ho iniziato prima ad andare in skate, più tardi a surfare. Lì è nata anche la passione per la fotografia”

Ispirato dalla scena urbana viareggina, dai lunghi pomeriggi trascorsi a cavalacare asfalto e architettura, Filippo prende in mano una Kinon di famiglia e inizia il suo percorso artistico.

“È successo tutto in maniera progressiva. Uscivo in skate e portavo la macchina con me. Ho iniziato scattando in pellicola. A 18 anni mi sono infortunato alla caviglia e sono stato fermo per un lungo periodo, in quel momento ho capito che ero più bravo come fotografo. Contestualmente si è inanellata una serie di eventi che mi ha spinto verso la fotografia: la creazione della mia camera oscura, per esempio, e l’uscita di ‘The Strongest of the Strange’ prodotto da Pontus Alv, un video innovativo, che esplorava una sfera emotiva diversa del mondo skate e che ha dato il via ad un filone visivo innovativo, cupo, con molto utilizzo del bianco e nero”.

Un filone che negli scatti di Filippo s’intreccia presto alla pratica ritrattistica, alla ricerca del dettaglio umano, emozionale, prima che sportivo.

“Quando ho iniziato a comprare i libri di Bresson e Avedon mi si sono spalancate le porte di un nuovo mondo. Ho studiato i loro ritratti e ho capito che quel tipo di ricerca faceva già parte della mia fotografia. Durante le giornate passate a fotografare gli amici in skate, mi era sempre piaciuto ritrarli quando si rilassavano, quando si sedevano, quando parlavano tra loro. Pensavo fossero momenti più significativi rispetto ad un salto di una scalinata o ad un grind. L’intimità è difficile da esplorare, il gesto atletico invece è lì, è palese”

Il processo di scoperta, di esplorazione, per Filippo viene impreziosito da una serie di viaggi oltreoceano, gite mirate nell’eldorado californiano, dove skate e surf trovano la loro culla, dove Filippo comprende di poter fare delle proprie composizioni un lavoro.

“In California rivivo l’ambiente di casa mia, però ingigantito e sull’oceano. Ogni volta è un convergere di passioni, di emozioni, di stimoli: ho ancora le foto stampate del primo viaggio fatto con il mio amico surfista Alessandro Ponzanelli, sono un punto fermo della mia carriera. In quel periodo stavo facendo l’Università a Pisa, dove ho studiato Lingue per poi iniziare a lavorare nell’azienda di mio padre. Lui fortunatamente ha sempre lasciato spazio alla mia passione e, quando si è delineata la possibilità di renderla un lavoro, mi sono preso un anno per dedicarmi completamente alla fotografia”

Il vero punto di svolta arriva con la campagna globale di Sundek, enorme trampolino di lancio per Filippo e il suo stile fotografico. Nell’universo commerciale, al contrario di molti colleghi, il viareggino pare da subito non snaturarsi, restando fedele alla propria espressione artistica e, anzi, vedendosi incentivato nel farlo

“Credo di avere sviluppato uno stile abbastanza personale negli anni. Sono fortunato, chi mi cerca lo fa perché è interessato a ciò che faccio. Spesso ho carta bianca, libertà d’espressione… E questa cosa crea equilibrio tra la parte creativa e quella lavorativa. Nell’ultimo periodo molti lavori sono saltati per la crisi pandemica, che ha praticamente azzerato la possibilità di viaggiare. Ho sfruttato il momento storico per aprire un mio studio fotografico a Camaiore, nell’attesa che si sblocchi questa fase di stallo”

Tornerà presto a viaggiare, Filippo, tornerà presto alla ricerca dell’onda perfetta. Quell’onda teorizzata sui pontili di Viareggio, ammirata tra le Hawaii e l’Islanda, il Messico e la California. Un’onda che ha profili e caratteristiche ben chiare nella mente di questo talentuoso fotografo acquatico.

“Amo quando c’è il vento da terra, l’onda è liscia, e si crea una patina di vetro sulla superficie. Sono onde perfette da ritrarre quando c’è poca luce, all’alba o al tramonto. Si crea una parte scenica dell’onda, la cresta viene spazzata via dal vento, e nel frame c’è pulizia, ricchezza d’immagine. A questa visione associo un surf classico, che rimanda agli anni ’70, distante da gare, competizioni e derive moderne: il surf perfetto”

Photo Credits: Filippo Maffei

video di:
Agency // AQuest
Production Director // Tommaso Artegiani
Executive Producer // Moira Spotorno
Film Direction // Francesco Bonato & Nicola Rossi
Camera & Editing // Nicola Rossi
Original Soundtrack & Sound Design // Alessandro Franceschini

Text by: Gianmarco Pacione


5 docufilm sul tennis da vedere

La racchetta raccontata sullo schermo. Avete altri consigli?

È recentemente uscito su Netflix lo speciale della serie ‘Untold’ dedicato a Mardy Fish. Un viaggio nell’intimità del tennista statunitense, un intenso approfondimento relativo ai problemi mentali che ne hanno condizionato carriera e vita privata: dinamiche trattate con particolare attenzione soprattutto nel tennis moderno, come dimostrato dal recente caso Osaka.

Abbiamo deciso di selezionare alcuni ritratti visivi, documentari e film, che possano aiutarci a comprendere più a fondo questo lato della racchetta, che esaltino e analizzino la solitudine della riga di fondo, che descrivano spaccati di storia tennistica ed individuale.

UNTOLD: BREAKING POINT

Le aspettative di un’intera nazione ancora inebriata dai vari McEnroe, Sampras, Agassi e Courier. Il rapporto d’amicizia e aiuto reciproco con Andy Roddick. La rapida ascesa nella top 10 mondiale e l’inattesa paralisi psicoemotiva. ‘Breaking Point’, ennesimo capolavoro della collana Netflix ‘Untold’, ritrae la parabola di Mardy Fish. Una parabola, quella dell’ex numero uno USA, segnata dalla battaglia contro sé stesso, contro la propria mente. Un lavoro introspettivo di enorme spessore, fondamentale per comprendere pensieri e problemi risultati troppo a lungo tabù nel circuito ATP.

ANDY MURRAY: RESURFACING

Questo documentario disponibile sulla piattaforma Prime Video si focalizza sulla lunga e logorante odissea vissuta da Andy Murray. Anni trascorsi tra sale operatorie e centri riabilitativi per curare un infortunio gravissimo. Anni in cui il tennis, per il tennista britannico, si è tramutato in un’oscura spirale.

BORG MCENROE

La rivalità per eccellenza del tennis romantico, un affresco di due personalità rimaste scolpite nella leggenda sportiva. L’epica di questa dualità, sublimata nella finale di Wimbledon 1980, viene raccontata dalla lente di Janus Metz in un film tanto attuale, quanto dal sapore nostalgico.

NAOMI OSAKA

La docuserie Netflix dedicata a Naomi Osaka ci regala uno spaccato di una delle tenniste più dominanti sul campo e, contemporaneamente, più ricche di sfumature psicoemotive, più capaci d’incidere sulla società globale. Puntata dopo puntata la giapponese viene seguita dalle telecamere nelle sue battaglie sociali e sportive, nelle pressioni esterne e nei frenetici viaggi. Un modo per comprendere ancora di più, soprattutto alla luce delle ultime significative azioni pubbliche, il carattere e la sensibilità dell’ex numero uno al mondo.

VILAS: TUTTO O NIENTE

Eduardo Puppo è un noto giornalista argentino pronto a dedicare una consistente parte della propria vita per rendere merito ad un mito della racchetta, Guillermo Vilas. L’obiettivo delle instancabili ricerche di Puppo? Regalare a Vilas la vetta del ranking ATP nel 1977, un primato che gli era stato negato per un’inspiegabile serie di eventi. Il fascino di questa pellicola Netflix, però, non sta solo nella ricerca di dati e testimonianze storiche, ma esonda nella descrizione biografica del re sudamericano della terra rossa. Una vita da scoprire, da assaporare, come un tempo era il suo tennis.


Hamid Rahimi, sono pronto a morire per l’Afghanistan

Intervista al più grande pugile della storia afgana, al volto sportivo della lotta ai talebani

“Molti pensano che sia solo un problema afghano, se ne lavano le mani, voltano le spalle ad un popolo che ha paura, che davanti a sé vede solo l’oscurità. La situazione è tragica. L’Afghanistan è uno dei Paesi più giovani al mondo, le nuove generazioni subiranno un costante lavaggio del cervello perpetrato da folli, da terroristi con le mani sporche di sangue. Diventerà un problema globale, lo sta già diventando, eppure tutti restano immobili”

La voce infuocata, palpitante, di Hamid Rahimi ci raggiunge dall’anseatica Amburgo. Le sue parole si muovono veloci, impossibili da schivare, paiono una pianificata sfuriata all’ultimo round, una tanto imprudente, quanto debordante combinazione inferta all’angolo ad un avversario impossibile da fronteggiare, da sconfiggere.

Hamid è il più grande pugile della storia afghana, a testimoniarlo un titolo Intercontinentale WBO dei pesi medi in bacheca e una carriera in grado di spalancare le porte degli sport da combattimento a migliaia di suoi connazionali; Hamid è, con ogni probabilità, il più celebre atleta generatosi ai piedi dell’aspro Hindu Kush

La sua testimonianza è quella di un emigrato profondamente connesso alla terra natia, di un uomo che in Germania ha trovato fama e gloria pugilistica da esule, attendendo la serenità del proprio Paese, sperando in una stabilità socio-politica che mai come oggi sembra distante ed evanescente.

“L’Afghanistan significa moltissimo per me. Sono nato a Kabul nel 1983, nel cuore della guerra, a otto anni ho visto morire il mio migliore amico a causa di una bomba: per l’esplosione sono stato ricoverato otto mesi in ospedale. Poco tempo dopo, nel 1994, ho lasciato il Paese con la famiglia. Ci siamo stabiliti ad Amburgo come rifugiati, attendendo a lungo che quella drammatica parentesi finisse, salvo poi vederne iniziare un’altra. In Germania ho portato la guerra dentro di me, per questo sono finito in un carcere minorile. Lì ho scoperto la boxe, la migliore delle terapie, e ho trovato la pace”

Una pace che Hamid ha provato ad esportare nella sua terra, utilizzando la nobile arte come mezzo per unire e ispirare.

Le sue due più grandi intuizioni, vere e proprie creazioni personali, sono state il match titolato contro il tanzaniano Said Mbelewa, primo incontro professionistico di boxe organizzato sul suolo di Kabul e dell’intero Afghanistan, e un’associazione, la ‘Fight 4 Peace’, impegnata da anni nell’allevare a bordo ring ragazzi e, soprattutto, ragazze afgane.

Scelte invise a coloro che nelle ultime settimane hanno preso controllo del Paese sventolando vessilli bianchi. Scelte che hanno portato a minacce di morte, ad attentati materiali a cui Hamid è sempre riuscito a scampare, e ad un odio viscerale nutrito nei suoi confronti dalle frange estremiste.

“30 ottobre 2012, per una notte in Afghanistan non ci sono state bombe e armi, gli occhi di tutti erano concentrati oltre le quattro corde. Una notte magica, che ho desiderato con tutto me stesso. Volevo combattere davanti alla mia gente, volevo dimostrare che anche a Kabul i sogni si possono realizzare. È fondamentale che i ragazzini abbiano degli idoli, soprattutto in un Paese come il nostro. Se hai degli idoli ti poni degli obiettivi e gli obiettivi impediscono agli altri di corrompere la tua mente. All’epoca potevo combattere in Germania e ovunque nel mondo, potevo guadagnare molto, ma i soldi non sono tutto. Organizzare l’evento è stato estremamente complesso: in tantissimi sostenevano che fosse impossibile per questioni di sicurezza, per il pericolo talebano, per l’improbabile presenza di un avversario e di un arbitro… Io sono andato in tv, mi sono esposto, ho dialogato con eserciti e governi, e ho dimostrato che si può essere forti anche senza armi: basta sollevare una cintura al cielo. Poco dopo ho dato vita al progetto ‘Fight 4 Peace’, una chiara dichiarazione politica e sociale. Nelle palestre F4P non ci sono differenze di sesso, di etnia, di religione, in breve tempo ci siamo espansi in tutto il Paese e oggi molti miei collaboratori rischiano di essere uccisi. Io stesso sono stato vittima di svariati attentati nel recente passato…”

Se si sfiora il tema della morte, dell’effettivo pericolo corso da Hamid nell’esporsi apertamente su temi così delicati, l’ex campione intercontinentale fa un intenso sospiro, fa appello alla fede. Parla di un utopico futuro costruito all’esterno del Paese da probi viri emigrati come lui, uomini e donne cresciuti in Europa umanamente e professionalmente, rimasti legati però alla propria patria in maniera indelebile.

“Credo in Dio e so bene cosa si vive in guerra, so cosa si prova quando si è disarmati sotto tutti i punti di vista, quando nessuno si fa avanti per aiutarti. Un giorno morirò. Se avessi paura, però, morirei ogni giorno. Per questo in televisione e sui social descrivo il vero volto dei talebani, la loro ideologia tesa unicamente al guadagno economico, distantissima dai precetti religiosi che ipocritamente professano. Non c’è nulla di democratico in loro, mai ci sarà. Io non mollo, nella mia testa la situazione è destinata a cambiare, proverò io stesso a cambiarla, ad esempio già nelle prossime settimane tornerò a Kabul. Faccio parte di un gruppo di emigrati che vogliono costruire l’Afghanistan del futuro, siamo costantemente in contatto: sono professionisti tedeschi ed europei che, come me e come tantissimi nostri connazionali bloccati in patria, non accettano il regime talebano. Ora abbiamo bisogno di un aiuto esterno per concretizzare le nostre idee e, con ogni probabilità, saremo costretti a vivere l’orrore di una guerra civile”

Quando ragiona su un potenziale aiuto esterno, Hamid lo fa con estrema cautela, criticando la gestione dell’ultimo decennio di missione congiunta tra ONU e USA, evidenziando proprio nell’incapacità di comprendere e supportare il lato buono dell’Afghanistan la causa magna dell’ultima spirale d’inattesi eventi.

Critiche fondate, seguite da un appassionato e lancinante monito rivolto alla coscienza occidentale, una coscienza sopita troppo rapidamente.

“I Paesi occidentali non hanno abbastanza esperienza per comprendere la tradizione e il pensiero afgano. Hanno investito miliardi e, contemporaneamente, hanno sempre appoggiato i politici sbagliati: anche personaggi con chiare derive razziste. Hanno emarginato il governo nazionale, l’hanno relegato in un angolo, privandolo di potere decisionale e autonomia. I ventenni di oggi, che nel 2001 erano appena nati e che avevano solo sentito parlare dell’ombra talebana, ora sono nel panico più totale. Cambierà tutto: l’istruzione, la libertà personale, la condizione delle donne. Ecco spiegate le scene degli aerei in partenza da Kabul, ecco spiegata la mia, la nostra urgenza di risollevare le sorti dell’Afghanistan. Ricordo a tutti che i talebani hanno in mano un Paese grande due volte la Germania e traboccante di armi. Il problema non sarà vostro nel brevissimo termine, ma credetemi, quello che succederà nei prossimi mesi avrà esiti sul mondo intero”

Hamid Rahimi
IG @iamhamidrahimi

Testi di Gianmarco Pacione


Lee-Ann Curren, l’oceano è la mia musica

Il surf, la musica, la creazione di contenuti. Intervista alla poliedrica artista francese delle acque

“L’oceano è stato essenziale nel coltivare la mia anima artistica. Penso che più di tutto mi abbia aiutato come essere umano. Nell’oceano non puoi forzare nulla, devi attenerti a ciò che decidono le onde, a ciò che decide l’elemento che ti circonda, che ti sostiene. Si tratta di energia. Accade lo stesso nella vita, nella musica”

Equilibri oceanici, equilibri sinfonici. Surfare sulle note, suonare tra le onde. Lee-Ann Curren è chitarra e tavola, è una giovane donna divisa tra sport e musica: una doppia anima coltivata per lungo tempo e oggi giunta ad una perfetta maturità, una maturità libera da vincoli imposti e obblighi di prestazione, una maturità indipendente e creativa.

Figlia d’arte della leggenda mondiale del surf Tom Curren, Lee-Ann è cresciuta in una famiglia che delle correnti oceaniche ha fatto la propria casa, oltre che la propria fortuna. La madre, gli zii, persino i nonni, tutte figure in qualche modo legate all’antica pratica sportiva polinesiana, tutte figure che hanno permesso a Lee-Ann di comprendere precocemente il valore dell’eterna danza acquatica.

“Sono stata fortunata a crescere nell’acqua. Ora non posso vivere lontano dall’oceano. Fa parte della mia vita, del mio tutto. Quando sono tra le onde mi pervade una profonda sensazione di calma, osservo la linea dell’orizzonte e ammiro il movimento tranquillo, evocativo, di tutto ciò che la circonda. Appena vedo un’onda provo le stesse sensazioni di quando avevo 6 anni, penso sia un qualcosa di stupendo”

Per Lee-Ann era impossibile pensare ad un’infanzia distante dalla tavola da surf. Questione di sangue, questione di predisposizione naturale. Eccola così entrare ben presto nei grandi circuiti mondiali, in quelle vorticose competizioni che dagli equilibristi delle acque pretendono risultati, oltre che leggerezza.

Risultati che, inevitabilmente, conducono a pressioni, che in alcuni casi possono snaturare gli ideali alla base di una forma atletico-culturale, prima che sportiva. Un processo che Lee-Ann ha preferito fermare, preferendo alla gloria di una medaglia la libertà della proprie passioni, del proprio poliedrico estro.

“Ho raggiunto l’apice delle mie competizioni sportive verso i 18 anni, ero sempre in viaggio, sempre impegnata in qualche gara, mi sono resa conto che mi mancavano troppe cose. Più di tutto mi mancava la musica. Ho cominciato a suonare a 12-13 anni. Con mia madre ascoltavamo musica tutto il tempo, mio padre invece suonava: lui viveva in California, io ero in Francia, ricordo che quando andavo a trovarlo entravo sempre in garage per provare i suoi strumenti. Il surf ad alto livello mi aveva portato fuori fuoco, quando surfi troppo e troppo a lungo si perde un po’ di magia. Così ho deciso di riconnettermi con la mia band liceale e di ricominciare a registrare. La mia vita è immediatamente cambiata in meglio, contemporaneamente però la mia mente non riusciva più ad essere focalizzata sulle gare. A quel punto ho deciso di concentrarmi sul free surfing e sulla musica”

La musica di Lee-Ann, cantautrice dalla voce e dalle capacità compositive estremamente raffinate, non ha voltato le spalle alle onde, anzi, ne ha tratto e ne trae costantemente ispirazione.

“Crescendo tutte le mie canzoni preferite erano in qualche modo legate a film e video di surf. Le due cose per me sono sempre state connesse. D’altronde imparare a surfare è come imparare a suonare uno strumento: ci vuole pazienza, devi spendere molto tempo e impegno, devi desiderarlo interiormente. Inoltre c’è un influenza cinematografica molto forte, documentari e film inerenti alla cultura del surf sono sempre accompagnati da colonne sonore stupende, da canzoni iconiche: per questo motivo, credo, tanti surfer sono vicini alla musica. Le ultime canzoni che ho pubblicato sono composizioni piuttosto lunghe. ‘Conversations’, per esempio, parla della mia evoluzione e di diversi periodi della vita. È un pezzo molto introspettivo, dentro cui ho messo tutto. Ora voglio provare a scrivere canzoni più brevi che centrino direttamente il punto”

Oltre a surf e musica, i recenti impegni lavorativi hanno condotto Lee-Ann anche nell’ambito della creazione di contenuti. Spinta e sponsorizzata da Vans, questa 32enne francese alterna le sue giornate tra sala prove, onde e produzioni video. Una vita piena, multiforme, sicuramente stimolante

“Sono molto fortunata nell’avere uno sponsor che mi permette di fare tutto questo. Ora, per esempio, con Vans sto portando avanti un progetto tutto al femminile, ‘Cadavre Exquis’. È la produzione di un video concentrato sulle esperienze di diverse surfiste sparse per il mondo. Sento di essere in un costante learning-mode, sento di volermi sporcare le mani, e mi piace. Ovvio, a volte non sento di surfare o suonare al meglio, ma l’importante è essere consapevole del fatto che posso esprimere pienamente me stessa. Oltre a questo progetto con Vans, che spero possa essere replicato l’anno prossima, tra pochi mesi usciranno delle mie nuove canzoni e spero di tornare a suonare live, con qualche concerto. In tutto questo il surf continuerà ad essere una componente fondamentale della mia vita, delle mie giornate”

Credits

Lee-Ann Curren
IG @lacurren

Ph by Thomas Lodin
IG @thomaslodin

Testi di Gianmarco Pacione

Video Youtube


Luca Marini, migliorare me stesso per la MotoGP

Studio, sacrifici, convinzioni. Intervista al pilota della Sky VR46 Avintia

“Ho pochi ricordi della mia infanzia, ma ho un momento preciso cristallizzato nella memoria. È una delle mie prime volte sulle minimoto, sulla pista del Motor Park di Cattolica, vicino casa mia. Volevo provare quell’esperienza, lo volevo tantissimo, perché quando passavo lì vicino con la macchina vedevo sempre qualcuno che girava. Allora ho chiesto insistentemente ai miei genitori e mi sono ritrovato sulle due ruote, con l’aiuto delle rotelline. Andavo piano piano, con una persona che mi teneva dietro, forse era mio padre: il gas aveva il fermo, non potevi dargliene di più…”

Luca Marini ha una nobiltà innata, visibile, gestuale. Occhi azzurri ed eloquio forbito, gambe lunghe, affusolate, distanti anni luce dallo stereotipo morfologico degli equilibristi delle due ruote. All’ombra del paddock WithU si sistema il lungo ciuffo biondo con movimenti lenti, misurati, antitetici rispetto alle velocità raggiunte con la sua Ducati in questa prima stagione di classe regina.

Luca Marini ha, soprattutto, un pensiero fisso: migliorarsi, diventare la migliore versione di sé stesso. Un processo iniziato tempo addietro, quando il classe ’97 dovette prendere una decisione definitiva, abbandonando l’altra sua grande passione, il pallone, per dedicarsi anima e corpo ai motori.

“Ho vissuto sempre un dualismo tra calcio e moto. Il pallone mi piaceva tanto e giocavo nella squadra del mio paese. Ero anche bravo… Sapevo benissimo, però, che con il calcio non avrei avuto l’opportunità di sfondare ad alti livelli. Con le moto, invece, sentivo di aver intrapreso il percorso corretto per poter puntare in alto. Così a 14 anni ho iniziato ad allenarmi in maniera più specifica, a considerare la moto come un lavoro, e questo mi ha portato ad abbandonare il calcio”

Step dopo step, marcia dopo marcia, piega dopo piega. Fondamentale nella parabola motociclistica di Luca Marini è stato il passaggio dalla VR46 Academy, da quel magico ranch-incubatrice popolato da giovani talenti affamati di conoscenza tecnica e velocità.

“L’Academy è una bellissima realtà, un contesto unico, in cui sono state brave le persone che ci hanno lavorato, a partire da mio fratello Valentino. All’inizio c’erano tante idee, tanti sogni, ma poi bisogna riuscire a concretizzare tutto, e non è facile. Abbiamo avuto la possibilità di crescere tutti insieme, per noi piloti era una continua sfida, ogni giorno subentravano delle dinamiche che portavano inevitabilmente ad un’evoluzione personale: dovevi girare più veloce dell’altro, sollevare più pesi dell’altro… Mi emoziona riflettere sul fatto che l’Academy ha fatto crescere noi piloti, è vero, ma anche noi piloti abbiamo permesso all’Academy di crescere”

Una crescita reciproca, dunque, che nel caso di Luca si è concretizzata con una rapida transizione in Moto3, una lunga parentesi in Moto2, culminata nel secondo posto in classifica generale della passata stagione, e con l’approdo nel paradiso della MotoGP di pochi mesi fa.

È stato un ingresso complesso quello nell’asfaltato salone delle feste, Luca non lo nega, ne parla con estrema lucidità, con la consapevolezza di trovarsi in un gotha popolato da mostri sacri, superuomini e, come dice lui stesso, ‘animali da pista’.

“All’approdo in MotoGP ho subito notato che tutto quello che avevo fatto negli anni precedenti non era abbastanza. Dovevo fare un altro scatto in avanti, molti scatti in avanti, come pilota e come persona: era ed è l’unica via per raggiungere il mio massimo livello, la mia versione migliore. Per esempio ci sono tanti aspetti del mio carattere che non mi piacciono e che finiscono per intaccare le mie prestazioni sportive, sto cercando di cambiare in meglio anche sotto questo punto di vista e di ammorbidire la mia introversione. Limare e curare ogni dettaglio è l’unico modo per riuscire a competere con quelli che ritengo a tutti gli effetti ‘animali da pista’. Prima li guardavo in tv, da questa stagione li vedo di fianco, davanti, dietro, provo a capire come riescano a portare la moto al limite: studio le traiettorie, le posizioni in curva, le tipologie di frenate… Provo a fare miei i loro punti di forza, in modo da diventare più forte di loro”

Inondato dalle immagini dei suoi ultimi Gran Premi, Luca ruota a lungo attorno ad un concetto specifico, quello di DNA motociclistico, di DNA del singolo pilota: nozione che mai come quest’anno ha avuto modo di teorizzare approfonditamente, nozione che mai come nel suo caso ha rimandi pratici, oltre che teorici, alla luce del ben noto legame genetico con Valentino Rossi.

Un DNA polisemico che, se coltivato nel giusto modo, nel prossimo futuro potrebbe portare Marini alla definitiva esplosione e ad una stabile presenza ai vertici della MotoGP.

“Mi sono reso conto che il DNA di un pilota MotoGP non varia negli anni, quello è e quello rimane. I ragazzi che correvano con me in Moto3 e Moto2 e che oggi ritrovo qui si sono evoluti sotto molti punti di vista, ma sono rimasti fedeli allo stile di sempre, alla loro essenza. Anch’io provo ad esserlo. Adesso dovrò fare esperienza e fare ogni passo richiesto dalla categoria. Poi, quando avrò un pacchetto tecnico che mi permetterà di esprimermi al meglio, dovrò farmi trovare pronto e dimostrare con i risultati. Sono convinto di poter arrivare molto in alto anche qui”

Luca Marini
IG @luca_marini_97

Intervista di Gianmarco Pacione

Photo credits:Rise Up Duo, Riccardo Romani