We are waiting
L’interminabile attesa di un attimo, la meravigliosa attesa di una pedalata. Reportage di Alberto Grasso
“È tutto un complesso di cose
Che fa sì che io mi fermi qui”
– Paolo Conte
Ore di attesa. Ore spese a cercare di colmare quel momento che ci separa dall’arrivo dei ciclisti. Aspettando e sognando. ‘We are waiting’ è la ricerca fotografica di questo momento specifico: l’attesa.
L’attesa è ore di guida e ore di arrampicata in cima alle montagne. L’attesa è dormire nel freddo in mezzo alla nebbia. Gelo, sole e pioggia, non importa. Si aspetta insieme. Ore trascorse, gli uni vicini agli altri, condividendo lo stesso freddo e scaldandosi sotto lo stesso sole. Bevendo lo stesso vino e mangiando lo stesso cibo.
Tutto questo per cosa?
Solo per una manciata di minuti. Pochi attimi in cui cercare di alleviare la fatica dei propri eroi ed aiutarli a muovere i pedali. Pochissimi minuti in cui condividere il loro desiderio di vittoria, la loro forza e la loro passione. Si diventa tutt’uno con loro. Una grande entità che scavalca montagne e taglia le pianure.
Dopo, quando i ciclisti sono passati, silenziosamente ci si prepara a tornare. Si raccolgono le proprie cose, si pulisce e ordinatamente si scende la montagna o si ricuce la pianura. Tutti sereni, stanchi e felici. Come dopo un pedalata. Tutti pensando che ne è valsa l’attesa.

Salita per il Colle dell’Agnello – Tappa 19 Pinerolo – Risoul – 28 maggio 2016 – Tappa vinta da Vincenzo Nibali

Colle della Lombarda – Tappa 20 – Guillestre – Sant’Anna di Vinadio – 28 maggio 2016 – Tappa vinta da Vincenzo Nibali

Salita per il Passo dello Stelvio – Tappa 16 Rovetta – Bormio – 23 maggio 2017 – Tappa vinta da Vincenzo Nibali

Salita per il Passo dello Stelvio – Tappa 16 Rovetta – Bormio – 23 maggio 2017 – Tappa vinta da Vincenzo Nibali

Salita per il Passo dello Stelvio – Tappa 16 Rovetta – Bormio – 23 maggio 2017 – Tappa vinta da Vincenzo Nibali

Colle delle Finestre – Tappa 19 – Venaria Reale – Bardonecchia – 25 maggio 2018 – Tappa vinta da Chris Froome

Salita per il Passo dello Stelvio – Tappa 16 Rovetta – Bormio – 23 maggio 2017 – Tappa vinta da Vincenzo Nibali

Salita per il Passo dello Stelvio – Tappa 16 Rovetta – Bormio – 23 maggio 2017 – Tappa vinta da Vincenzo Nibali

Colle delle Finestre – Tappa 19 – Venaria Reale – Bardonecchia – 25 maggio 2018 – Tappa vinta da Chris Froome

Salita per il Passo dello Stelvio – Tappa 16 Rovetta – Bormio – 23 maggio 2017 – Tappa vinta da Vincenzo Nibali

Salita per il Colle dell’Agnello – Tappa 19 Pinerolo – Risoul – 28 maggio 2016 – Tappa vinta da Vincenzo Nibali

Prato Nevoso – Tappa 18 – Abbiategrasso – Prato Nevoso – 24 maggio 2018 – Tappa vinta da Maximilian Schachmann

Colle delle Finestre – Tappa 19 – Venaria Reale – Bardonecchia – 25 maggio 2018 – Tappa vinta da Chris Froome

Salita per il Passo dello Stelvio – Tappa 16 Rovetta – Bormio – 23 maggio 2017 – Tappa vinta da Vincenzo Nibali

Prato Nevoso – Tappa 18 – Abbiategrasso – Prato Nevoso – 24 maggio 2018 – Tappa vinta da Maximilian Schachmann
‘To Give and Take’, l’arte di Alvin Armstrong
Lo sport come mezzo di produzione artistica e di riflessione sociale. Intervista all’artista americano
‘To Give and Take’ è la nuova serie di dipinti prodotta da Alvin Armstrong, attualmente esposta all’Anna Zorina Gallery di New York.
Un’immersione visiva nel concetto di icona sportiva afroamericana, una riflessione sulla vulnerabilità della popolazione nera del Paese a stelle e strisce, sulla giustapposizione tra eccellenza atletica e irrilevanza sociale.
Abbiamo raggiunto l’artista nativo di San Diego, per approfondire significati e significanti delle sue opere, per comprendere la posizione assunta dallo sport all’interno della sua vita e della sua produzione artistica.

Il rapporto tra arte e sport: come è nata l’idea di utilizzare lo sport come mezzo di comunicazione artistica?
Penso che per molte persone sia facile connettersi visivamente con lo sport, anche per coloro che non sono particolarmente interessati a un gioco specifico o alle regole di esso. Lo sport è quasi come un linguaggio universale. Trovo sia particolarmente interessante trasmettere l’energia sprigionata da esso attraverso le arti visive, indipendentemente dal mezzo specifico. Ovviamente non sono il primo artista a essere ispirato dall’azione, dalla potenza e dall’aspetto socio-politico veicolato dagli sport agonistici. Vista la mia esperienza come atleta praticante, poi, questa probabilmente continuerà ad essere una linea guida fondamentale nel mio lavoro.

Noi pensiamo che lo sport sia cultura. Per te, invece, cosa rappresenta?
Mio padre ha ottenuto una borsa di studio completa per il college grazie al basket. Quell’opportunità ha cambiato la sua vita: gli ha permesso di uscire da una zona critica come South Central, a Los Angeles. Io e i miei fratelli abbiamo sempre visto lo sport come una via da percorrere verso il successo e la stabilità. Abbiamo capito fin da piccoli che eccellere nello sport poteva potenzialmente significare istruzione gratuita e, di conseguenza, miglioramento delle nostre condizioni. Lo sport è stato lo sfondo costante della mia vita e ha stabilito degli standard di risultati che si sono tradotti nella mia pratica pittorica. Penso che gli sport, in particolare quelli professionistici, svolgano un ruolo complesso negli Stati Uniti. Gli americani vengono spesso uniti dallo sport, ma c’è ancora molto lavoro da fare.

Il tuo lavoro mette in risalto l’eccellenza atletica degli sportivi afroamericani da un lato e la vulnerabilità della loro comunità dall’altro. Puoi dirci qualcosa riguardo la critica sociale che viene si evidenzia in “To Give and Take”?
Le caratteristiche degli atleti neri – forza, velocità, agilità, capacità di lottare e di dominare – vengono celebrati quando sono in campo, ma quando non è presente un’uniforme (sportiva), quegli stessi attributi diventano minacce per la società. Il titolo deriva dall’idea che gli afroamericani, in questo Paese, devono essere straordinari per ottenere diritti umani fondamentali come il rispetto e la sicurezza personale. La dualità intrinseca nei neri americani, così celebrati come atleti e, contemporaneamente, così vessati dalla polizia e privati di risorse per emergere, è stata l’ispirazione per “To Give and Take”.

Quali sono le influenze alla base del tuo stile pittorico e da cosa dipende l’uso di certi colori? Ti sei ispirato ad altri artisti che hanno analizzato il tema sportivo per lavorare a questa serie?
Per gli artisti che sono venuti prima e per i miei contemporanei nutro enorme rispetto, gratitudine. Penso che chiunque si renda tanto vulnerabile da esprimere il proprio pensiero al mondo, accettando di essere osservato e criticato dal pubblico, meriti il nostro rispetto. Alcuni dei miei eroi artistici sono Henry Taylor, Benny Andrews e Noah Davis. Ciò che apprezzo di più, oltre al loro incredibile talento, è la loro impavidità. Il loro lavoro mette in mostra un connubio di rischio e capacità espressiva. Nel mio lavoro cerco di non nutrire paura, cerco di fidarmi del mio intuito, di muovermi all’interno di esso e di esternarlo.
Cosa ne pensi dell’esponenziale impegno socio-politico degli atleti di alto livello? Sportivi e artisti possono cambiare la società con le loro azioni, parole e opere?
Penso che sport e arte possano influenzare la società in modo significativo. Artisti e atleti, quando hanno successo, possono far forza su un prezioso seguito, su piattaforme che possono essere utilizzate per denunciare le condizioni dei più emarginati. Penso che da un grande potere derivino grandi responsabilità, non credo che artisti o atleti possano avere il lusso di rimanere fuori dal discorso socio-politico, soprattutto negli USA del 2021.

Credi che lo sport fungerà da ispirazione anche per la tua futura produzione artistica?
Lo sport influenzerà sempre la mia pratica: se non letteralmente, anche solo nel modo in cui dipingo. Mi piace però restare aperto a vari scenari e ispirazioni riguardo al futuro. Mi entusiasma l’energia collettiva che sento trapelare da tanti miei contemporanei, in particolare dagli artisti afroamericani. Non vedo l’ora di continuare a crescere ed evolvermi; le possibilità sono infinite.
Credits
Alvin Armstrong
@eyesrevive
Testi di Gianmarco Pacione
Ph by Anna Zorina Gallery
IG @annazorinagallery
annazorinagallery.com
Portrait by Jordan Lee courtesy of the artist and Anna Zorina Gallery
Suzanne Lenglen secondo Henri Lartigue
Il rapporto tra l’inventore della fotografia sportiva e la ‘Divina’ del tennis
Ogni gioco implica il senso del limite. Oggettivamente, nello sport, limiti sono la regola e il campo. Il campo è l’isola di realtà dove valgono le regole del gioco. Il fotografo sportivo conosce bene questo tipo di demarcazione.
Relegato nella buca, al di qua del confine invalicabile dell’azione, sopporta, nascosto nell’ombra delle sue visiere e dei suoi gilet, l’impossibilità di avvalersi dell’aureo consiglio dei Robert Capa e Bruce Gilden: “Se non è buona, non eri abbastanza vicino”. L’unica vicinanza possibile per il fotografo sportivo è di tipo ottico, non fisico. È un’epica di cannoni bianchi, l’immagine dei teleobiettivi nella trincea del bordocampo.
Lartigue, che ha inventato la fotografia sportiva, sicuramente non aveva familiarità né con i confini, né con i teleobiettivi. È stato un pioniere dello scatto a mano libera, delle lenti rapide, dei primi apparecchi tascabili. La sua era una poetica della presenza, oltre che della vicinanza. Così dimostra il suo straordinario ritratto a Suzanne Lenglen, la ‘Divina’ del tennis.

Il segno nello spazio che astrattamente divide il gioco dal restante complesso di faccende relative alla vita umana, nel tennis è particolarmente marcato.La rappresentazione della linea, laterale e trasversale, ha un senso quasi escatologico. Nel finale di Match Point, l’esitazione della pallina che rimbalza sul filo della rete racchiude in sé il destino di un’intera esistenza.
Mai nessun confine ludico è stato misurato con tale ossessione tecnica come nel tennis. A cominciare dal numero di giudici presenti in campo: cinque per lato, oltre il giudice di rete – l’omino che sommessamente nasconde la testa dietro il paletto, prima che il giocatore serva, con due dita sul nastro per sentirne il minimo tocco – e il giudice di sedia che supervisiona dall’alto.
Ancora: la ritualità del controllo del segno sui campi di terra battuta, e l’occhio allo sbuffo di gesso bianco per le linee di polvere sull’erba di Wimbledon. L’introduzione della tecnologia ha amplificato gli effetti di questo tipo di gestione delle regole. Il sensore elettronico del let sostituisce il giudice di rete. L’uso della chiamata sonora, nella stagione bum bum dei Becker, Ivanisevic e Sampras, accorcia i tempi di reazione degli arbitri di linea.
Alla fine arriva il trionfo dell’Hawk-Eye, versione grafica del dilemma tra IN e OUT, esasperato a una precisione millimetrica: uno stratagemma diabolicamente rivoluzionario, che ascrive la serietà come unica prerogativa possibile dell’arbitraggio di una partita di tennis. “You Cannot Be Serious” diventa un ricordo dei nostalgici.
C’è, in questo sistema di “isolamento” del campo, una certa atmosfera del sacro. In effetti la delimitazione, antropologicamente parlando, è la primissima caratteristica di ogni azione sacra. Formalmente tale funzione di delimitazione è assolutamente una e identica per un fine sacro o per un puro gioco. Scrive Huizinga in Homo Ludens: «L’ippodromo, il campo di tennis, il pallottoliere, la scacchiera funzionalmente non si differenziano dal tempio o dal cerchio magico».

Il segno nello spazio che astrattamente divide il gioco dal restante complesso di faccende relative alla vita umana, nel tennis è particolarmente marcato.La rappresentazione della linea, laterale e trasversale, ha un senso quasi escatologico. Nel finale di Match Point, l’esitazione della pallina che rimbalza sul filo della rete racchiude in sé il destino di un’intera esistenza.
Mai nessun confine ludico è stato misurato con tale ossessione tecnica come nel tennis. A cominciare dal numero di giudici presenti in campo: cinque per lato, oltre il giudice di rete – l’omino che sommessamente nasconde la testa dietro il paletto, prima che il giocatore serva, con due dita sul nastro per sentirne il minimo tocco – e il giudice di sedia che supervisiona dall’alto.
Ancora: la ritualità del controllo del segno sui campi di terra battuta, e l’occhio allo sbuffo di gesso bianco per le linee di polvere sull’erba di Wimbledon. L’introduzione della tecnologia ha amplificato gli effetti di questo tipo di gestione delle regole. Il sensore elettronico del let sostituisce il giudice di rete. L’uso della chiamata sonora, nella stagione bum bum dei Becker, Ivanisevic e Sampras, accorcia i tempi di reazione degli arbitri di linea.
Alla fine arriva il trionfo dell’Hawk-Eye, versione grafica del dilemma tra IN e OUT, esasperato a una precisione millimetrica: uno stratagemma diabolicamente rivoluzionario, che ascrive la serietà come unica prerogativa possibile dell’arbitraggio di una partita di tennis. “You Cannot Be Serious” diventa un ricordo dei nostalgici.
C’è, in questo sistema di “isolamento” del campo, una certa atmosfera del sacro. In effetti la delimitazione, antropologicamente parlando, è la primissima caratteristica di ogni azione sacra. Formalmente tale funzione di delimitazione è assolutamente una e identica per un fine sacro o per un puro gioco. Scrive Huizinga in Homo Ludens: «L’ippodromo, il campo di tennis, il pallottoliere, la scacchiera funzionalmente non si differenziano dal tempio o dal cerchio magico».

Il qui e l’adesso, l’hic et nunc, è la chiave dell’opera di Lartigue. Attraverso questa dedizione assoluta, traduce dal passato, fino ad oggi, nella sua intatta purezza, la divina essenza atletica di Suzanne Lenglen.
Leggermente spostata a destra della linea centrale del rettangolo di battuta, Lenglen sta giocando la sua volata di rovescio, ad almeno un metro da terra, il corpo interamente proteso in avanti, la racchetta in netto anticipo che cerca la giusta posizione per il controllo dell’impatto. Ma non è certo la plasticità il messaggio di questa fotografia. Almeno, non solo. Lartigue è dentro il campo. La focale normale descrive un’ambientazione privata, con la palizzata sullo sfondo che chiaramente ci situa su un campo di allenamento. Lartigue assiste quasi con un piede sulla linea esterna del corridoio, come un compagno di doppio. Ha una prospettiva appena abbassata. Forse è seduto.
Come spiegano bene i podcast di Denis Curti sulla recente retrospettiva alla Casa dei tre Oci a Venezia, Lartigue soltanto in tarda età ha cominciato a lavorare su commissione, almeno dopo la sua mostra al MoMA del 1963, curata da Richard Avedon. La sua produzione è stata invece interamente destinata a 126 album di famiglia, divisi per annualità, dal 1900 al 1986, oggi donati al Ministero della Cultura francese e pubblicati gratuitamente online.
Lartigue è, a sua volta, uno sportivo. Come ogni sportivo, sa bene che, se il limite oggettivo del suo gioco sono il campo e la regola, il limite soggettivo sono il corpo e l’attrezzo. Non è possibile paragonare Laver a Federer, da un punto di vista della performance sportiva, per la differenza tecnica delle rispettive attrezzature. Il valore assoluto di un atleta non può dipendere dallo strumento che le contingenze temporali gli consentono di utilizzare. Il messaggio di un atleta che scavalca il tempo, la sua opera migliore, per dirla in termini artistici, è l’uso che fa del suo corpo.

La fotografia della volata di Lenglen racconta il combattimento dell’atleta con i limiti del suo corpo, e del corpo con i limiti dell’attrezzatura che la tecnologia della sua epoca gli fornisce. Sentiamo epidermicamente, attraverso la sensibilità di Lartigue, il genere di costrizione di una pesante gonna di stoffa sopra un paio di calze bianche.
Per capire meglio, la British Pathé dedica un film a Lenglen, intitolato ‘How I play Tennis – by Mlle. Suzanne Lenglen’. Un’analisi in movimento della sua tecnica di gioco. Nella sequenza di immagini al rallentatore, Suzanne danza. Il film è muto, ma sembra di sentire ugualmente il frullare delle suole sul terreno, come in un video di Federer, o di Laver.
Lenglen non è mai ferma. Si solleva sulle punte dei piedi. Molleggia sulle ginocchia. Carica incessantemente la propria forza dinamica, come un elastico, per colpire in anticipo la palla, dice correttamente la didascalia del film Pathé. Per liberarsi dei limiti della sua racchetta, dei suoi abiti, del suo corpo, dice la fotografia di Lartigue.
La cultura sportiva della Belle Epoque francese, in Pierre de Coubertin rinnova lo spirito della tradizione agonistica classica, attraverso la scoperta archeologica delle rovine di Olimpia, e in Georges Hébert trova l’attuatore tecnico del moderno concetto di educazione fisica civile, come strumento di emancipazione femminile.
È la generazione che prepara le basi della rivoluzione intima della liberazione del corpo, così come la celebra nei suoi romanzi Henri-Pierre Roché, da cui Truffaut trarrà il suo capolavoro ‘Jules e Jim’. Immersa in tutta la sua eleganza in questo fervido humus culturale, Suzanne Lenglen disegna per sé i suoi abiti. Accorcia le sue gonne, inventa lo stile del futuro.
Lartigue che la fotografa, ha capito che non sta volando per sé stessa, ma per ogni donna prima e dopo di lei. La sua è una metafora del volo, il suo mito, come il volo della crisalide fuori dal suo involucro protettivo. È questo che la rende divina. Un uomo come Lartigue non può che renderle omaggio, con il suo personale bouquet di fiori.
Ernesto Tedeschi
Nicolò Martinenghi, atipico come il suo nuoto
Ranista dei record, grande speranza olimpica tricolore. Il ventunenne che sfrutta primati e medaglie per maturare come essere umano
“Conosco ogni angolo del mio mondo natatorio, vorrei cominciare a conoscere tantissimo anche al di fuori di esso. Mi auguro di esplorare sempre più tutto ciò che mi circonda, tutto ciò che c’è oltre la vasca, oltre questa meravigliosa bolla in cui mi trovo”
Di Nicolò Martinenghi stupiscono la maturità, le capacità e qualità riflessive, la volontà di contestualizzarsi in un panorama più ampio rispetto a quello acquatico, rispetto all’etereo mondo dell’agonismo natatorio.

In fondo questo interprete prodigioso della rana non ne avrebbe bisogno, potrebbe limitarsi a limare secondi e imperfezioni, a focalizzare il suo pensiero sui cinque cerchi, a godere di uno status impreziosito dal doppio record nazionale stabilito a Riccione poche settimane fa, coprendo in 26”39 i 50 metri e in 58”37 i 100.
Potrebbe, per l’appunto. Eppure il classe ’99 pare essere atipico per indole, per natura: un’atipicità riassunta dall’inconsueto stile scelto per competere ai massimi livelli internazionali, scelto per divorare metri fendendo correnti, fatica e cronometri.
“Ironicamente dico che non sono io ad aver scelto la rana: è la rana ad aver scelto me. Credo che questa sia la specialità più folle del nuoto, è molto tecnica, è estremamente atipica, non prevede una nuotata perfetta in senso assoluto: ognuno deve adattarsi secondo le proprie caratteristiche…”

Nicolò quelle caratteristiche le ha scoperte in tenera età, affrontando e superando un’iniziale repulsione per l’elemento che, con lo scorrere delle stagioni, avrebbe iniziato ad ospitarlo quotidianamente, monopolizzandone la vita. Preferiva giocare a pallacanestro, l’espansivo classe ’99, preferiva seguire le orme paterne nel florido territorio cestistico varesino. Poi l’epifania della linea nera, la volontà d’incidere totalmente sul risultato, di affrontare in prima persona, come unico attore protagonista, glorie e delusioni.
“Da piccolino odiavo l’idea di entrare in acqua, amavo stare sui parquet, ero spinto dal desiderio di emulare mio padre Samuele e i suoi trascorsi da guardia nella Ignis Varese. Ad un certo punto quell’odio è svanito e sono presto arrivato ad un punto di non ritorno: non potevo continuare ad intrecciare entrambi gli sport. Per scegliere mi sono basato sui risultati oggettivi e sul fatto che, in vasca, glorie e delusioni le potevo avere tutte per me stesso: nella corsia tutto sarebbe dipeso da me”
Dopo questa presa di coscienza, il climax sportivo di Nicolò inizia ad essere vertiginosamente ascendente, inizia a regalare risultati superlativi, a veder caricare le sue bracciate di aspettative e attenzioni mediatiche: ombre emotive frenate da un maturo e saldo contatto con la realtà.
“Ho sempre cercato di restare fedele al Nicolò quattordicenne, al ragazzo che non vuole semplicemente andare forte in acqua, ma che vuole restare a contatto con il mondo esterno, con gli amici di sempre. Ripeto, so di essere stato risucchiato da tempo dentro questa bolla magica: nella mia carriera agonistica tutto è e sarà perfetto al di là dei risultati, tutto è e sarà teso al distacco dalla realtà: rendersene conto e provare a restare connessi ad essa credo sia fondamentale. In questo critico percorso adolescenziale mi ha sicuramente aiutato l’allenarmi vicino a casa e il poter fare affidamento dai 12 anni in poi su un unico allenatore”

Il rapporto con Marco Pedoja, difatti, esula dal classico legame coach-atleta. È un sorta di rapporto fraterno, quello dei due, coltivato con costanza da circa un decennio: un rapporto colorato da un accrescimento reciproco vissuto a pelo d’acqua. Al fianco di questa figura Nicolò ha visto aggiungersi altri tipi di aiuto, come quello essenziale di uno specialista della mente, di un esperto in grado di far incidere il fattore psico-emotivo sul gesto muscolare.
“Marco mi ha visto crescere, credo sia una carta vincente il fatto di aver condiviso e condividere tantissimo tempo con una persona che mi conosce così a fondo. Quando ha iniziato a seguirmi aveva poco più di vent’anni e lo vedevo come un fratello maggiore, poi il nostro rapporto si è ulteriormente evoluto. Un’altra carta vincente è la presenza di un mental coach, Lorenzo Marconi: a questi livelli lotti contro i minimi dettagli e psicologicamente non è facile. Sono arrivato ad un punto della maturazione agonistica dove, se voglio migliorare, devo concentrarmi su miliardi di cose, miliardi di vere e proprie piccolezze. Devo stare molto attento a quello che penso, perché ogni parola e ogni riflessione possono tramutarsi in grandi problemi: la serenità mentale è l’unica chiave per raggiungere grandi risultati”

Serenità mentale e grandi risultati, un’equazione che Nicolò ha risolto alla perfezione nelle acque di Riccione, da cui è uscito con un doppio record italiano nel palmarés e con un inequivocabile segnale lanciato ad Adam Peaty e colleghi in vista delle Olimpiadi illuminate dal Sol Levante.
“Volevo andare forte, non lo nego, ma migliorarmi in quel modo è stato stupendo, sono uscito dall’acqua quasi allibito… È bello essere consapevoli di quello che si può fare, ma è ancora più bello superarsi. Questi tempi non mi danno maggiore benzina, semplicemente aumentano la serenità in vista di Tokyo. Mi aiuta vivere il nuoto in questo modo, con una leggerezza che mai si tramuta in mancanza di serietà, con la consapevolezza di essere fortunato nel lavorare divertendomi…”


Non è un peso, per Nicolò, entrare in vasca ogni mattina, non sono un peso le interminabili ore scandite da respirazioni e virate. Nelle parole di quest’eccellenza Azzurra allenamenti e conseguenti medaglie sembrano più che altro mezzi: mezzi di scoperta, mezzi di formazione.
“Il nuoto mi permette di viaggiare per il mondo, di conoscere posti, culture, di ampliare la mente. Toccando così tanti contesti differenti mi arricchisco, analizzo e capisco cose che anche solo il giorno prima mi sembravano assurde o sbagliate. Se in un futuro dovessi avere un figlio, non vorrei parlargli semplicemente di etica lavorativa e di sacrifici sportivi, vorrei dimostrargli di avere una visione molto più ampia”
Sono concetti penetranti, quelli sviscerati dal ranista tricolore. Concetti intimi, preziosi come i gioielli trattati sapientemente da suo padre nello studio orafo di famiglia. E il nuoto di Nicolò, in fondo, sembra ricalcare l’attività paterna, sembra trovare fondamento nella medesima passione e cura del dettaglio.

Un’associazione implicita, un’associazione doverosa, messa in risalto dal trasporto con cui l’atleta varesino ci parla di quest’antica arte tramandata di parola in parola, di artigiano in artigiano, di Martinenghi in Martinenghi.
“Un mestiere del genere non lo impari studiando, lo impari facendo, è molto manuale e nozionistico. Se chiudo gli occhi e penso a un mio futuro non mi dispiacerebbe trovarmi al posto di papà. È sicuramente stimolante l’idea di poter tramandare questa tradizione familiare: non lo nego, sono pensieri che di tanto in tanto mi attraversano. Pur rimanendo consapevole della mia età, voglio comunque pensare a dei piani, a degli interessi, a delle certezze su cui fare affidamento quando il mio fisico arriverà al limite. Ma manca ancora molto tempo prima che arrivi questo momento, posso stare tranquillo…”








Sì, a mancare è ancora moltissimo tempo e Nicolò ce lo lascia intendere sorridendo. All’appena ventunenne mancano innumerevoli medaglie da indossare e record da conseguire, luoghi da visitare e piscine da dominare. Mancano, soprattutto, monumentali obiettivi da centrare.
Per il momento questo lombardo dalle stupefacenti bracciate può rimandare l’appuntamento con diamanti e gioielli: può focalizzarsi sul più prezioso dei metalli, questo sì, provando ad incidere l’oro con i cinque cerchi, con l’eterno simbolo d’Olimpismo e leggenda sportiva.
Credits
Ph RISE UP
IG @riseupduo
riseupstudio.com
Arena Italia
@arenaitalia
Arena Water Instinct
@arenawaterinstinct
Dao
@dao_sport
Nicolò Martinenghi
IG @nicolomartinenghi
Text Gianmarco Pacione
Scatto fisso è sinonimo di design
A Copenaghen il ‘brakeless’ è un’ispirazione quotidiana. A spiegarcelo è Karl Tranberg
Forme pulite ed evocative. Sfondi urbani animati da oggetti rapidi ed eleganti, da pezzi d’artigianato minimalista. Nella capitale danese lo scatto fisso rappresenta molto più di un vezzo ciclistico. A rivelarcelo è Karl Tranberg, il designer che trasforma le proprie bici in opere d’arte da costruire e fotografare, in mezzi di trasporto da trattare come preziose e ispirate costruzioni personali. Vi portiamo all’interno del suo mondo, dei suoi ritratti, delle sue parole. Buona lettura.

Come sei entrato in contatto con la bici a scatto fisso e perché hai scelto di utilizzarla?
A Copenaghen lo scatto fisso è stato molto popolare dalla metà degli anni 2000 fino al 2013 circa. Come tanti altri ragazzi sono stato ispirato dai film di MASH SF e ho trovato intrigante l’idea di potermi costruire una bici da solo e di riuscire a padroneggiare la totale assenza di freni. All’epoca avevo già un trascorso con la mountain bike (una Cannondale Caffeine hardtail da 26″, di cui sono innamorato ancora oggi), quindi è stato molto naturale provare questo diverso tipo di bici. Durante un viaggio a New York, nel 2012, ho setacciato un numero infinito di negozi di biciclette, alla ricerca di una bici da pista o di un telaio da portare a casa: dopo lunghe ricerche ho finalmente trovato il mio telaio Masi Speciale Sprint nel retrobottega di Continuum Cycles, un accogliente negozio di biciclette nell’Avenue B ad Alphabet City.




Che ruolo gioca questo tipo di bicicletta nel contesto urbano di Copenaghen e che tipo di comunità si è creata negli anni?
Copenaghen ha un’incredibile cultura ciclistica. La viabilità della città è in gran parte progettata a misura di ciclista e in molti luoghi le piste ciclabili sono più larghe delle strade. La normale conseguenza è che tutti possiedono una bicicletta e le piste ciclabili vengono spesso affollate da pendolari e turisti. Ciò significa che, guidando senza freni, hai una grande responsabilità, non puoi permetterti di mettere in pericolo l’incolumità altrui. Andare in bici a Copenaghen vuol dire anche scivolare giù dalle colline (nonostante ce ne siano pochissime), in quel caso in mezzo utilizzando la normale carreggiata. Qui, però, le cose si complicano: i conducenti non sono abituati a condividere la strada con i ciclisti e il risultato è spesso un caotico mix di clacson, frenate e imprecazioni… Fatta eccezione per alcune riconosciute figure locali e alcuni testardi nerd (categoria di cui faccio parte), la scena dello scatto fisso a Copenaghen è stata praticamente in letargo per quasi un decennio. Al momento, tuttavia, stiamo riscontrando un crescente interesse che spero possa coincidere con un ripopolamento della comunità. Va detto anche che la scena attuale si presenta in maniera molto differente. In passato si mescolavano telai e ruote colorate per creare combinazioni divertenti, mentre ora le persone sembrano concentrarsi su componenti di qualità superiore e costruzioni più semplici, basiche.
Except for some of the local messengers and a few stubborn nerds (myself included), the fixed-gear scene in Copenhagen has pretty much been in hibernation for almost a decade. At the moment we’re experiencing a local growing interest in fixed-gear, though, and I’m hoping it could mean the community is slowly returning. It’s a very different scene now, however. It used to be about mixing colourful frames and wheels in fun combinations whereas now people seem to focus on higher quality components and simpler builds.

Cosa rappresenta per te questo tipo di bici? Pensi che questo oggetto abbia anche un’anima artistica?
La bici a scatto fisso rappresenta per definizione il minimalismo ciclistico: è impossibile rimuovere un singolo componente della bici senza compromettere in modo critico la sua funzionalità complessiva. A Copenaghen studio Furniture and Object design: la mia ispirazione accademica si radica nel funzionalismo e nel minimalismo scandinavo-giapponese. Amo un tipo di design artigianale, visivamente leggero, e apprezzo quando la forma abbraccia la funzionalità. Adoro le linee semplici e pulite dei vecchi telai in acciaio e alluminio. Nutro una fascinazione particolare per la bici da pista, perché è di gran lunga la bici più facile da mantenere: la linea della catena è diritta e la trasmissione è più voluminosa per resistere a un enorme trasferimento di potenza, quindi è destinata a durare più a lungo. L’unica parte che sostituisco molto spesso nelle mie bici sono le gomme posteriori.

Cosa rappresenta per te questo tipo di bici? Pensi che questo oggetto abbia anche un’anima artistica?
La bici a scatto fisso rappresenta per definizione il minimalismo ciclistico: è impossibile rimuovere un singolo componente della bici senza compromettere in modo critico la sua funzionalità complessiva. A Copenaghen studio Furniture and Object design: la mia ispirazione accademica si radica nel funzionalismo e nel minimalismo scandinavo-giapponese. Amo un tipo di design artigianale, visivamente leggero, e apprezzo quando la forma abbraccia la funzionalità. Adoro le linee semplici e pulite dei vecchi telai in acciaio e alluminio. Nutro una fascinazione particolare per la bici da pista, perché è di gran lunga la bici più facile da mantenere: la linea della catena è diritta e la trasmissione è più voluminosa per resistere a un enorme trasferimento di potenza, quindi è destinata a durare più a lungo. L’unica parte che sostituisco molto spesso nelle mie bici sono le gomme posteriori.

Cosa rappresenta per te questo tipo di bici? Pensi che questo oggetto abbia anche un’anima artistica? La bici a scatto fisso rappresenta per definizione il minimalismo ciclistico: è impossibile rimuovere un singolo componente della bici senza compromettere in modo critico la sua funzionalità complessiva. A Copenaghen studio Furniture and Object design: la mia ispirazione accademica si radica nel funzionalismo e nel minimalismo scandinavo-giapponese. Amo un tipo di design artigianale, visivamente leggero, e apprezzo quando la forma abbraccia la funzionalità. Adoro le linee semplici e pulite dei vecchi telai in acciaio e alluminio. Nutro una fascinazione particolare per la bici da pista, perché è di gran lunga la bici più facile da mantenere: la linea della catena è diritta e la trasmissione è più voluminosa per resistere a un enorme trasferimento di potenza, quindi è destinata a durare più a lungo. L’unica parte che sostituisco molto spesso nelle mie bici sono le gomme posteriori.
Credits
Alberto Grasso
IG @alberto.grasso
albertograsso.com
Magnus Bang
IG @magnus_bang
Karl Tranberg
IG @fixiekarl
Testi di Gianmarco Pacione
SkatePal, lo skateboard come aiuto sociale
L’organizzazione no-profit che in Palestina ha trasformato la tavola in mezzo d’incontro e sollievo
In un momento così drammatico e turbolento per il popolo palestinese, siamo entrati in contatto con SkatePal, un’organizzazione no-profit profondamente impegnata nel sostenere la comunità attraverso lo sport.


Dal 2013 ad oggi i progetti realizzati da SkatePal hanno raggiunto centinaia di giovani in tutta la Cisgiordania e hanno ottenuto l’appoggio di sostenitori di tutto il mondo. L’obiettivo primario di quest’organizzazione è migliorare la vita dei giovani abitanti di questi territori critici, promuovendo i benefici fisici, psicologici e pedagogici di cui lo skateboard si fa veicolo.
SkatePal lavora con realtà sociali pesantemente colpite dal conflitto in corso. Oltre la metà della popolazione palestinese presente nei territori occupati ha meno di 21 anni. Per molti di questi giovani le possibilità di accesso a strutture culturali, educative e sportive sono fortemente limitate.


In this context, skateboarding has the potential to dissolve the barriers between classes, races, ages and sexes. Charlie Davis, founder of SkatePal, talks about it.
“Facevo volontariato come insegnante d’inglese in Palestina e avevo portato con me il mio skate. Dopo ogni lezione giravo per la città in cui mi trovavo all’epoca, Jenin, e avevo sempre attorno a me sciami di ragazzini che volevano provare la tavola. Alla fine sono stato ben poco da solo… Il potenziale dello skateboard è stato evidente da subito, sin dal mio primo soggiorno palestinese. Dopo essere rientrato in Gran Bretagna mi sono laureato in lingua araba e ho cominciato una serie di viaggi in Palestina, dando vita al primo camp nel 2013”
I was volunteering as an English teacher in Palestine after school and I had brought my skateboard with me. After classes I would skate around the town I was in, Jenin, and would always have a group of kids wanting to have a go. I didn’t end up skating much myself but there was no shortage of excited kids trying it out. The potential of skateboard was evident from that first trip, and after returning to the UK, getting a degree in Arabic and making several subsequent visits back to Palestine I started with a summer camp in 2013 to see how it would take off.

Cos’ha significato essere un volontario in Palestina e raggiungere i territori del West Bank? Il vostro impegno ha causato reazioni negative?
“Annualmente abbiamo circa una sessantina di volontari internazionali che si presentano per delle session organizzate in varie location del West Bank. Diamo loro un alloggio e il principale obiettivo diventa immediatamente quello di affiancare skater locali. Sì, abbiamo trovato degli ostacoli, per esempio nel far arrivare l’attrezzatura. Lo skateboard qui è stato accolto con enorme entusiasmo da giovani e non solo. Al contrario di altri Paesi ci sono poche restrizioni e si può andare ovunque: la gente preferisce guardare gli skater, piuttosto che cacciarli da un luogo”



Siete stati supportati da skater di alto livello e da ragazzi israeliani?
“Abbiamo ricevuto molto supporto da persone impegnate nei più svariati ambiti. Per esempio Rick McCrank è venuto a girare un episodio della serie ‘Post Radical’ di Viceland. Alcuni skater professionisti hanno fatto i volontari per il nostro progetto, i nostri ambasciatori principali sono Chris Jones e Ryan Lay. E sì, ci sono anche skater israeliani che, osservando la crescita della scena palestinese, non hanno fatto mancare il loro supporto”
Il Covid quanto ha inciso sui vostri progetti?
Purtroppo dal marzo dello scorso anno siamo obbligati ad una lunga pausa. È frustrante, con il nostro manager locale Aram, però, ci stiamo concenctrando su una ripartenza rapida e incisiva. I ragazzi stanno comunque andando in skate e la scena è ancora attivissima, ma non vediamo l’ora che le cose tornino alla normalità per ricominciare!


Acquistando i prodotti SkatePal puoi sostenere direttamente questo progetto. SAHTEN – The SkatePal Cookbook – è, per esempio, uno dei nuovi prodotti acquistabili. SAHTEN dipinge un quadro della scena skate palestinese: un libro dal format originale, popolato da fotografie raccolte lungo gli anni dai volontari di SkatePal.
Credits
SkatePal
skatepal.co.uk
IG @skate_pal
Keisha Finai
@keishafinai
Emil Agerskov
@ikenskid_fotograf
John Barker
Testi di Giamarco Pacione
Carmen Rocchino, danzare nell'acqua
Vent’anni e 24 ori. La giovane Azzurra che in vasca tende le punte, creando una forma d’arte
Scandire la grazia in otto tempi, scandire la grazia tendendo punte, sfiorando con esse acqua e sinfonie musicali. Sono corpi dalle linee nobili, quelli delle sincronette, strutture flebili, muscolarmente raffinate. Sono menti alla costante ricerca della perfezione sincronica, della combinazione impeccabile.
Carmen Rocchino ha solo vent’anni e 24 ori nazionali in bacheca, è una danzatrice acquatica che sta rincorrendo, esercizio dopo esercizio, l’immagine dei cinque cerchi a pelo d’acqua. Una rincorsa partita, per puro caso, in età infantile all’interno delle piscine genovesi.
“Da piccola facevo dei semplici corsi di nuoto, poi, quasi per sbaglio, mi sono capitati dei volantini tra le mani. Parlavano di nuoto sincronizzato e per gioco ho iniziato quest’avventura. Avevo all’incirca 7 anni, ricordo che i primi tempi ero sempre l’ultima della fila, non avevo ben chiaro cosa fosse questo sport, avevo solo visto qualche immagine durante le manifestazioni olimpiche… Con il passare del tempo sono iniziate le prime gare e verso i 13 anni sono passata alla Rari Nantes Savona: un punto di svolta per il mio rapporto con questa disciplina”

Un rapporto che diventa presto totalizzante, continuando ad esserlo ancora oggi. Nella fase adolescenziale l’acqua si tramuta nella seconda, anzi, nella prima casa di Carmen. Un’abitazione fluida, dove ad alternarsi sono allenamenti infiniti e note da inseguire energicamente.
“L’acqua può cambiare volto, alcuni giorni è amica, altri nemica. A volte ti fa sentire benissimo, ti permette di galleggiare senza fatica, altre volte hai la sensazione di affogare, vorresti uscire, è quasi soffocante. Credo sia comprensibile questo legame ambivalente: da anni trascorro quasi tutte le mie giornate dentro la vasca. D’altro canto, se resto un paio di giorni lontana da questo elemento, sento di perdere la mia acquaticità, percepisco la velocissima perdita di abitudine del mio corpo a quella che, nel tempo, è diventata una casa”
Una casa da condividere con giovani coinquiline, mosse da un eguale desiderio di eccellenza. Il collettivo delle Azzurre del futuro, una sorta di cantera acquatica nazionale, vede ragazze appena maggiorenni che, tra le increspature dell’acqua, provano a comporre ispirate pièces sportivo-teatrali, a colmare il gap con chi di questa energica forma artistica ha scritto la storia.
“Viviamo tutte insieme. Le nostre giornate si dividono tra condizionamento atletico, pesi, ginnastica ritmica, nuoto normale o specifico e cura dei dettagli tecnici. Ore ed ore che diventano propedeutiche per l’esecuzione di un singolo esercizio: una lunga preparazione necessaria per automatizzare ogni passaggio, per pulire l’esecuzione dai minimi errori, per evitare di andare in affanno nel tanto tempo che passiamo con la testa sott’acqua. Se nelle esibizioni singole prende il sopravvento la mia personalità, in quelle di squadra sento un’intensa connessione collettiva. Una connessione che dobbiamo migliorare costantemente, con l’unico obiettivo di limare il divario che ci separa da superpotenze come Cina e Russia”

Quest’opera di miglioramento, a cui diede il là nei lontani anni ’70 la pioniera del sincro Romilde Cucchetti, trova oggi in profili come quello di Carmen Rocchino la naturale e rispettosa prosecuzione.
Una nuova generazione, o meglio, una nuova ondata di giovani acrobate delle vasche capaci di osservare diligentemente chi sta posando le basi per un ciclo futuro, capaci di sognare razionalmente le acque transalpine di Parigi 2024.
“Siamo state selezionate e stiamo crescendo come squadra Nazionale B, questo ci dà una certa visibilità e ci carica di responsabilità per il prossimo futuro. Il nostro obiettivo è riuscire a diventare il nucleo della Nazionale Maggiore che verrà. Per il momento prendiamo ispirazione dalle ragazze che si esibiranno a Tokyo e lavoriamo duramente per scendere in vasca a Parigi tra tre anni. Prima dei cinque cerchi ci saranno altri eventi come i Mondiali e gli Europei assoluti, dove proveremo a continuare la scalata che, nell’ultimo periodo, ha visto arrivare la scuola italiana a ridosso delle migliori interpreti di questa disciplina”

Scandire la grazia in otto tempi, scandire la grazia con sogni vividi e imponenti. Carmen Rocchino ha solo vent’anni, ma nelle sue punte tese ha già la consapevolezza di chi, in quegli otto tempi, vuole trovare la grandezza sportiva. Vasca dopo vasca. Esercizio dopo esercizio.

“Pop some manus”
Benvenuti al molo di Okahu Bay, dove bambini e adolescenti provano a trasformarsi in uccelli da generazioni.
Grazie agli scatti e alla testimonianza di Zico O’Neill, assistito da Naomi Perry, scopriamo un’originale tradizione neozelandese, quella del ‘manu’: il tuffo perfetto che, da generazioni, segna le acque e le menti dei giovani locali. Buona visione.



Ad Aotearoa, in Nuova Zelanda, dirigersi verso lo specchio d’acqua più vicino al grido di “pop some manus” è il passatempo estivo per eccellenza. Per generazioni, in tutto il paese, nel caldo soffocante, bambini e adolescenti si sono riuniti attorno a pontili e moli con un’unica missione: creare il più grande schizzo acquatico possibile.
‘Manu’ in Māori (la lingua madre della Nuova Zelanda) significa ‘uccello’. L’obiettivo è semplice: saltare da un’altezza qualsiasi in acqua e creare uno splash più grande possibile. Un ‘manu’ non è un tuffo a bomba o palla di cannone. Per eseguire il ‘manu’ perfetto devi piegare il tuo corpo a forma di V, poi, mentre il tuo sedere colpisce l’acqua, devi calciare fuori le gambe nel momento perfetto per creare lo splash ottimale. La tecnica è tutto e la competizione può essere feroce. Se eseguito correttamente, però, c’è una la manovra è splendidamente elegante.

Durante la mia infanzia ho fatto visita a mio padre a Nelson, trascorrendo interminabili giornate estive a guardare invidiosamente i bambini più grandi che praticavano i loro ‘manus’ in alcuni punti del fiume locale. Da adolescente a Tauranga, i miei amici e io dopo la scuola andavamo direttamente in acqua con il solo obiettivo di eseguire il manu perfetto.
Avendo trascorso la maggior parte degli ultimi 10 anni all’estero, il ritorno in Nuova Zelanda mi ha visto coinvolto in una costante ricerca di un progetto che mi permettesse sia di riconnettermi con ciò che mi circondava, sia di esplorare la cultura Māori. Sono cresciuto con l’eredità Māori, ma mi sono sempre posto domande sulla mia identità e sul mio posto all’interno di questa cultura.


Quando, due estati fa, ho iniziato a visitare il molo della baia di Okahu a Tāmaki Makaurau e a fotografare i ragazzini che si riunivano lì ogni pomeriggio soleggiato, sono rimasto colpito da quanto di me stesso rivedessi in loro. Mi sono reso conto che avrei potuto usare il ‘manu’ (un qualcosa di già familiare) come mezzo per iniziare a riconnettermi e ad apprezzare le mie origini.
Il molo della baia di Okahu mi ricorda i luoghi che bazzicavo quando avevo l’età di questi ragazzi. È un momento diverso, un luogo diverso, ma l’eccitazione e il tipo di legami rimangono gli stessi. Un gruppo di amici riuniti al molo in una giornata afosa per rinfrescarsi, gridare e ridere, per assistere alla competizione e, perché no, eseguire il manu perfetto.


Credits
Photos and text by Zico O’Neill-Rutene
zicooneillrutene.com
IG @zicooneillrutene
Text edited by Naomi Perry