Hillary Allen, the voice of resilience

Touch death and the desire to run again. The endurance runner who defeated destiny with words and willpower

The sky can become a chasm in a few steps, in a few seconds. The clouds, barely touched, can become crevasse, fear, pain, darkness. It’s right there, in the dark mountainous bowels of the Trømso Hamperokken Sky Race, where everything can become a tragedy, where a life can change by changing that of others as well.

Hillary Allen is an international endurance runner and North Face athlete. In 2017 she was at the top of the prestigious Sky Running World Series, then, on the sharp Scandinavian heights, she slipped off a steep rocky ridge, miraculously remaining alive after falling over 150 feet.

Less than a year later, after numerous operations and intense rehabilitation, she tied her running shoes again and came back to skim the sky at maximum speed. The story of this Colorado athlete is a story of courage and resilience: a tale that she has decided to tell in a book, ‘Out and Back’, finding in writing a means to help herself and others.

“Writing is a safe place for me. I have a master’s degree in Neuroscience and through my studies I have discovered the power of this action. During the long recovery I wanted to be honest with myself, with the process I was going through: writing was cathartic, it became therapeutic. The apex of this process was when I came back to Trømso for racing again: that’s why I dedicated the last chapter of the book to that experience”

Survival, the power of self-confidence and passion, the ability to bend adverse opinions and conditions. ‘Out and Back’ page after page transcends autobiography, becoming an intimate metaphor of human strength, of the battle against limits and fears, of the acceptance of them.

“I think my favorite chapter is ‘The Power of Belief’. Given my critical condition, sometimes I thought it was useless to tell myself that every day should be a better day. But this mantra has accompanied me for a year, it has accompanied every little detail of my daily life. I believe that the ability to believe in yourself is there, inside you, even if you can’t see it: it’s hidden, like the roots of a tree, but it’s what gives strength to that tree to grow. I’ve never completely lost this component, I just had to find it again. I’ve faced dark times, I’ve worn the cast for three months, I’ve lived through pain, but that spark of ‘belief’ was finally ignited when I reurned to running for the first time: thirty, simple, seconds were enough. A few months later I won the Lavaredo Ultrarail and it was incredible”

Hillary’s relationship with running and with that natural context is also incredible: an element, the natural one, that has never ceased to be the cornerstone of her life. A deep love, generated already in her childhood, thanks to excursions in Colorado and campsites around the USA.

“On the trails I practically learned to walk. I grew up in the Rocky Mountains of Colorado and my parents introduced me to the natural beauty of the United States from an early age. I’ve always loved running out there. I live my sport as a form of communion with nature: in those landscapes I feel insignificant and, at the same time, I am connected with myself, with the world and the people around me. When I have to train I don’t think about fatigue, I think about spending a day in the mountains admiring and respecting Mother Nature”

A respect that in Hillary’s words extends itself to human nature, to the intimate existence of men and women who, distant from each other, are united by the desire and strength to overcome challenges and adversities.

“I think we, as humans, are the most resilient species. We just have to discover it and use our challenges to improve, to grow. On this path I’ve discovered a lot of myself, I’ve opened myself to vulnerability, I’ve found unknown strengths and attitudes. I don’t really like talking about a ‘comeback’: the reality is that a completely different woman emerged from this personal ascent”

A woman who today, in addition to competing at the highest levels of endurance run, combines her sporting activity with university teaching, the role of coach and a notable activity as a blogger.

Between social posts and personal works, Hillary has built around her a positive community, interested in personal growth, as well as sports.

“In my blog I deal with topics such as athletic and mental preparation, physical and emotional recovery and ‘positive self talk’. My story doesn’t have to be a story of physical recovery, I want it to be a testament to human resilience. For me it’s about people first, in all walks of life, from teaching to coaching. The messages, letters and closeness I received from people all over the world were the driving force that inspired me to be a voice”

A voice stronger than the tragedy. A voice that deserves to be heard.

Credits

Hillary Allen
IG @hillygoat_climbs
hillaryallen.com

PH
Luke Webster
Blair Speed Creative
Jose Miguel Muñoz

Text Gianmarco Pacione

Thanks to bluestarpress.com


Lucien Laurent, il primo gol Mondiale

Un operaio della Peugeot gonfiò la prima rete Mondiale. Dopo averlo fatto fu prigioniero di guerra e aprì una birreria

“Stavamo affrontando il Messico e nevicava, dato che nell’emisfero meridionale era inverno. Uno dei miei compagni crossò il pallone e io ne seguii con attenzione il movimento, colpendolo al volo di destro. Fummo tutti contenti, ma non esultammo, nessuno comprese che eravamo passati alla storia. Una veloce stretta di mano e proseguimmo l’incontro. Non ci fu neanche dato un compenso: all’epoca eravamo dilettanti a tutti gli effetti”

Esattamente quindici anni fa ci lasciava Lucien Laurent. Nato a Saint-Maur-des-Fossés nel 1907, era in pensione dal 1972, anno in cui lasciò la storica birreria che aveva preso in gestione nel dopoguerra.

Lucient Laurent, però, non era un pensionato qualunque, in lui si celava una figura storica, pioneristica per l’intero panorama calcistico: quel signore dell’Île-de-France era l’uomo che per primo riuscì a gonfiare la rete in una Coppa del Mondo.

Lo fece il 13 luglio 1930, all’Estadio Pocitos di Montevideo; lo fece nella prima storica edizione del grande ballo delle stelle internazionali del football, manifestazione intensamente voluta da Jules Rimet.

A Montevideo quel pomeriggio di luglio faceva freddo, un freddo pungente, l’attesa era spasmodica e alle ore 15.00 si diede inizio, contemporaneamente, a Francia-Messico e Stati Uniti-Belgio. Erano altri tempi, erano altre divise da gioco, era un altro calcio.

Al minuto 19 arrivò dal nulla un gesto tecnico apparentemente banale, un destro al volo che consegnò il vantaggio ai francesi. Ad esultare, più che altro, furono le migliaia di affascinati uruguaiani assiepati attorno al campo.

Laurent non si rese conto dello storico momento. Atteggiamento comprensibile per un uomo che, all’epoca, giocava come semiprofessionista nella massima serie francese.

Si era preso un permesso lavorativo di due mesi, Laurent, per essere presente a quell’esordio Mondiale. L’aveva chiesto alla sua azienda, la Peugeot.

Era passato al Sochaux proprio per questo, per ottenere un impiego connesso al calcio. I ‘Les Lionceaux’, difatti, erano stati fondati appena due anni prima da Jean-Pierre Peugeot stesso.

Insieme ai connazionali intraprese un viaggio epico su un piroscafo italiano, il Conte Verde: mezzo acquatico che salpò da Genova, ospitando le comitive rumena, francese e belga insieme ad altri normali passeggeri, a Jules Rimet e alla coppa stessa.

“Trascorremmo 15 giorni nel Conte Verde per raggiungere il Sud America. Gli esercizi di base li facevamo di sotto e ci allenavamo sulla coperta della nave. Il nostro allenatore non ci parlò mai di tattica…”, spiegò a distanza di anni Laurent stesso.

Laurent non si rese conto dello storico momento. Atteggiamento comprensibile per un uomo che, all’epoca, giocava come semiprofessionista nella massima serie francese.

Si era preso un permesso lavorativo di due mesi, Laurent, per essere presente a quell’esordio Mondiale. L’aveva chiesto alla sua azienda, la Peugeot.

Era passato al Sochaux proprio per questo, per ottenere un impiego connesso al calcio. I ‘Les Lionceaux’, difatti, erano stati fondati appena due anni prima da Jean-Pierre Peugeot stesso.

Insieme ai connazionali intraprese un viaggio epico su un piroscafo italiano, il Conte Verde: mezzo acquatico che salpò da Genova, ospitando le comitive rumena, francese e belga insieme ad altri normali passeggeri, a Jules Rimet e alla coppa stessa.

“Trascorremmo 15 giorni nel Conte Verde per raggiungere il Sud America. Gli esercizi di base li facevamo di sotto e ci allenavamo sulla coperta della nave. Il nostro allenatore non ci parlò mai di tattica…”, spiegò a distanza di anni Laurent stesso.

Dopo il 4-1 ai danni del ‘Tricolor’, i francesi poterono riposarsi per meno di 48 ore, trovandosi di fronte alla quotata argentina. Al termine di una partita controversa, i transalpini capitolarono, compromettendo il proseguo della competizione.

Jules Rimet, dopo oltre due settimane di partite, consegnò la Coppa ai padroni di casa, dando il via a una giornata di festa nazionale.

Lucien Laurent tornò in Francia al suo Sochaux, alla sua Peugeot.

Per lungo tempo non ebbe la piena consapevolezza del valore inestimabile del proprio gol: sigillo eterno e irreplicabile.

Il calcio per il centrocampista che, negli anni, si spostò anche a Parigi e Rennes, venne presto accantonato davanti al dramma bellico.

Laurent durante la II Guerra Mondiale visse, come ospite forzato dei tedeschi, quasi 3 anni e mezzo di prigionia in Sassonia.

Una volta liberato, tornò brevemente al calcio giocato, precisamente al Racing Besançon, dove occupò anche il ruolo di allenatore fino al 1950.

Lasciati i prati verdi si dedicò pienamente alla propria birreria. Solo l’inesorabile scorrere degli anni fece comprendere all’ex operaio della Peugeot la grandezza e il valore simbolico di quel destro al volo. Un istante di calcio inevitabilmente destinato a durare per sempre.

Redazione


野球, il baseball a Osaka

In Giappone il diamante è una piacevole ossessione

Il baseball arrivò in Giappone come un alito di vento, come una parola detta sottovoce. Una parola pronunciata per la prima volta da un migrante statunitense, l’educatore Horace Wilson, e trasformata rapidamente in 野球.

Mazze e diamanti invasero le prefetture del Sol Levante dal 1872, attecchendo nel sistema scolastico nazionale e creando quello che, oggi, risulta essere lo sport più popolare di tutta la nazione.

Nelle foto di Sam Benard prende forma questa piacevole ossessione sportiva. Un’ossessione che, istante dopo istantanea, si tinge d’arancione: colore sociale di una squadra giovanile della città d’Osaka.

Qui, nella terza area metropolitana giapponese, il campo polveroso viene scrutato da un’architettura razionalista. Qui, nella storica capitale commerciale del Paese, la vorticosa e organizzata confusione quotidiana trova un’oasi di pace tra basi e home run.

Credits

 

Sam Bénard

IG @sambenard
sambenard.com

April 29, 2021


Omar Martinello, una natura da condividere

Dalla Pianura Padana alla montagna e ai grandi cammini. Con Omero la fatica è un mezzo per raggiungere l’estasi

Il silenzio di un bivacco abbandonato al soffio del vento, il terreno incerto su cui poggiare piedi, ruote, riflessioni. È l’atavica ricerca dell’abbandono sensoriale, della comunione con la natura, della simbiosi con l’elemento selvaggio.

È l’intima scoperta. Oltre la retorica, oltre la banalizzazione di essa.

“In alcuni luoghi riesci a meditare e a trovare te stesso”, dice Omar Martinello. Ha i capelli lunghi e il sorriso tipico di una ribellione cristallizzata nel tempo, innocente e sincera, mai sopita.

“In montagna riesci ad assaporare la natura, le sue forme semplici. Riesci a trovare nella spontaneità dei piccoli gesti, come accendere un fuoco, il modo per stringere legami sociali, connessioni umane”

Omero, questo il suo soprannome, ha deciso di narrare visivamente i suoi viaggi, le sue meditazioni. L’ha fatto sfuggendo alla piatta Pianura Padana, alla routine lavorativa di una pasticceria di provincia.

“Volevo prendermi un anno sabbatico dopo un lungo periodo di lavoro. Ho creato un canale YouTube dedicato alla montagna e ho iniziato a produrre video di viaggi low cost. Bivacchi, paesaggi, sentieri, strade impervie sulle due ruote… Volevo dimostrare che si possono fare moltissime avventure anche partendo da casa, dalla mia Caselle di Selvazzano, per esempio”

Una telecamera in mano, un drone a fendere le nuvole, una bici e le proprie scarpe a tastare terre segrete, terre sottovalutate. Quelli ritratti da Omar Martinello sono patrimoni da trasmettere, ricchezze raramente svelate.

Sono i Monti Sibillini, le Tètriche rupi cantate da Virgilio, sono il bivacco Luca Vuerich, rifugio nel cuore delle aspre Alpi Giulie, il Groppa Pastour, arrossato punto metallico nelle Prealpi Bellunesi.

Sono luoghi fuori dal tempo, tanto modesti, quanto di valore inestimabile. Beni di facile accesso, che Omero si è fatto carico di cantare tramite montaggi accorti e incalzanti, restituendo ad una community amplificatasi negli anni confidenze sia pratiche, che intime.

“Cerco cime e montagne che normalmente interessano a pochi, cerco luoghi sperduti o sconosciuti. Mi fa stare bene il riuscire a trasmettere quello che provo durante queste avventure. Solitamente non ho scalette, tutto è inventiva, tutto è adattamento a ciò che succede. Poi, quando torno a casa, mi metto subito a lavorare sui file: voglio che le emozioni siano ancora fresche e che diano un’impronta al video. Vedere che tante persone vengono smosse e, in qualche modo, ispirate da ciò che faccio mi rende felice”

Oltre ad ispirare, i video del ventiseienne padovano hanno spinto una parte dei suoi affezionati ad infrangere le barriere virtuali e a chiedere l’organizzazione di uscite condivise.

Ómero in queste avventure di gruppo ha percepito, forte e pervasiva, la maturazione di un altro grande capitolo della propria vita: quello da guida escursionistica professionista.

“È stata un’affascinante e costante evoluzione di ciò che avevo iniziato a fare senza troppe pretese. Se prima potevo comunicare con il mio pubblico solo attraverso uno schermo, poi ho iniziato a camminare al fianco delle persone che mi seguivano sui social e, infine, ho sentito la volontà e la necessità di rendere questa passione un lavoro. Chi viaggia con me credo apprezzi il mio essere genuinamente socievole, il fatto che provi a creare rapporti privi di sovrastrutture, molto semplici”

Migliaia di visualizzazioni, migliaia di chilometri. Per Omar la fatica si è tramutata in mezzo per raggiungere l’estasi, il sublime. Mete impossibili da analizzare con gps e cardiofrequenzimetri, mete emotive, mete che hanno condotto lo zaino di Omero anche sullo sterrato cammino di Santiago e che, nel prossimo futuro, lo porteranno a fronteggiare i lunghi cammini italiani e americani.

“Mi alleno ogni giorno correndo, andando in bici e arrampicando. La preparazione atletica mi permette di viaggiare con tranquillità, di non sentire la stanchezza, di vivere bene il viaggio nella sua interezza. Ora voglio dedicarmi in primis all’Italia: ci sono moltissime parti che non ho ancora visitato ed è assurdo quante cose ci siano da vedere nel nostro Paese. Per esempio alcune alte vie e il cammino ‘Con le Ali ai Piedi’ sono i miei prossimi obiettivi. Poi penserò a progetti più grossi, come tornare sul cammino di Santiago partendo in bici direttamente da casa, o come qualche cammino molto impegnativo americano, tipo il PCT”

È l’intima scoperta. Oltre la retorica, oltre la banalizzazione di essa. Trapela questo dalla voce di Omar Martinello, trapela la volontà di condividere qualcosa in più di un semplice percorso, di un panorama fine a sé stesso.

La sua, in fondo, è una ribellione particolare. È la ribellione della condivisione, è la ribellione di una simbiosi con la natura che non può e non vuole essere un atto egoistico.

Credits

Ph RISE UP
IG @riseupduo
riseupstudio.com

Text Gianmarco Pacione

Omar Martinello
IG @omarmartinello
YOUTUBE CHANNEL bit.ly/OMEROyoutube

BROOKS ENGLAND
brooksengland.com


Youth Speedway

“Ci vogliono dei bambini speciali per fare questo”. Viaggio nel mondo dello speedway giovanile

Raramente un gruppo di ragazzi è stato così importante per la sopravvivenza del proprio sport. In effetti, non costa un enorme sforzo dire che l’esistenza stessa dello speedway dipenda da questi giovani.

A soli sette anni dal suo centenario, il circuito britannico di speedway è in una fase di stallo. La stagione 2020 è stata spazzata via dal Coronavirus e un esodo di talenti ha visto decimare le squadre della lega britannica.

Il lato positivo della nube nera: il campionato britannico giovanile di speedway, pronto a fornire giovani piloti per riempire le squadre e realizzare i propri sogni.

Lo Speedway, per chi non lo sapesse, è una delle forme più pazze di corse motociclistiche. I piloti rallentano e sterzano su mezzi senza freni, aprendo il gas e costringendo la ruota posteriore a cercare di appaiarsi a quella anteriore. Chi è più bravo a controllare tutto questo caos vince. È come driftare con un’auto: solo una moltitudine di volte più complesso e senza una scatola di metallo che ti protegga. Quando va storto, ci si fa inevitabilmente male.

I bambini di appena otto anni affinano le loro abilità sulle moto da 125 cc, prima di passare alla 250 cc e poi finalmente utilizzare gli stessi motori da 500 cc utilizzati dai professionisti. L’organizzatore del campionato giovanile di speedway Neil Vatcher dice: “Durante una gara pare di stare in un grande cortile scolastico. In pista i ragazzi vogliono tutti vincere, ma vanno molto d’accordo e si prendono cura l’uno dell’altro”.

Gli incidenti sono comuni. Per fortuna le lesioni gravi, al contrario di lividi e contusioni, lo sono meno. Tuttavia, uno dei primi test sta proprio in questo: in quanto velocemente questi ragazzi riescano a tornare in sella. “Ci vuole una razza di bambino piuttosto speciale per farlo”, dice Vatcher.

Dei 33 motociclisti che hanno popolato l’obiettivo del fotografo Paul Calver sulla pista di Rye House nel 2017, in 13 oggi si ritrovano ad essere pro. A modo loro questi giovani stanno delineando un percorso da seguire per i loro successori.

Per ulteriori informazioni sullo speedway giovanile britannico, visitate younglionsspeedway.co.uk

Credits

Ph Paul Calver
paulcalver.cc
IG @calverphoto

Text Tony Hoare

April 23, 2021


Behind the Lights - Maxime Le Pihif

Il football americano ha anche tinte francesi. Una chiacchierata con l’innovativo fotografo transalpino

La fotografia di Maxime Le Pihif è ragionata ed istintiva. È uno schema chiamato da un quarterback nel cuore di un huddle. È figlia di un’ispirazione razionale, alla costante ricerca di un touchdown visivo, di una yard emotiva da conquistare.

Il suo focus principale è su uno dei major major sport americani, quello dei mastodontici Dome e del scintillante SuperBowl. Un focus particolare, soprattutto perché vissuto in una terra vergine, la Normandia, dove di kick-off e field goal si è iniziato a parlare solo da pochi anni.

Maxime ha iniziato un’opera di trasmissione e valorizzazione di questa novità sportiva, ergendosi a pittore di una disciplina che nel Vecchio Continente sta trovando sempre più spazio, sempre più affermazione.

“Uno dei miei obiettivi è aiutare la crescita del football in Francia e in Europa. Da giovane ero un wide receiver e ho abbandonato i campi per dedicarmi allo studio della fotografia. Credo sia importante creare un immaginario potente per avvicinare i giovani a questo sport: uno sport atipico per il nostro continente. Ad oggi sono in pochi i ‘professionisti’, i miei connazionali che possono dire di vivere di football. Nei prossimi anni sono convinto che questa situazione muterà, già alcuni ragazzi hanno attraversato l’Atlantico per giocare in NCAA e a breve vedremo il primo francese in NFL”

Atipico è anche l’incontro di Maxime con la palla ovale, un’epifania adolescenziale arrivata durante un viaggio transoceanico e concretizzata sull’estremità occidentale dell’Europa continentale.

“In un viaggio negli Stati Uniti ho comprato alcune maglie NFL, da quel momento ho iniziato a guardare le partite in televisione. Prima dell’incontro con il football, nella mia Brest, cittadina della Bretagna dove sono cresciuto, ero appassionato di motori e di vela, quest’ultima una tradizione storica del luogo. Poi ho scoperto questo gioco e me ne sono innamorato. Con la squadra giovanile locale ho viaggiato in lungo e in largo all’interno della regione: nella zona all’epoca non c’erano molte società. Contemporaneamente a 15 anni ho chiesto come regalo di Natale una macchina fotografica e da quel momento ho cominciato ad unire le due cose”

Un’unione fruttuosa. In pochi anni Maxime raggiunge addirittura il gotha NFL, transitando dalle linee laterali dei campi di provincia francesi ai sovrappopolati stadi americani, per poi tornare ad immortalare i massimi livelli europei.

“Nel 2017 ho avuto la fortuna di seguire i Detroit Lions al fianco del fotografo ufficiale Gavin Smith. Per me è stata la concretizzazione di un sogno: l’ingresso in una sorta di università fotografica. Non avevo particolari responsabilità, quindi ho vissuto quel periodo con grande serenità: potevo fare quello che volevo in contesti stupendi, a volte smettevo di fotografare e semplicemente ascoltavo il suono dei tifosi. Tornato in Francia ho viaggiato al fianco del mio amico Pierre Courageaux, una delle migliori safety d’Europa. L’ho raggiunto anche a Copenaghen, dove giocava in maglia Towers”

Le diapositive di Maxime sono animate dall’idea d’innovazione, da una curiosità per luci e movimento alimentata dalla passione per il mondo artistico in toto. Una curiosità che viene attratta costantemente dall’intimità del gesto, dalla potenza del rituale.

“Amo scattare foto a persone che pregano prima di una partita, magari tenendo in mano un particolare oggetto. Tendenzialmente uso i colori per le foto singole, mentre per le serie preferisco la monocromia: credo sia più facile per uno spettatore identificarle. Voglio che i miei scatti creino una reazione, che si differenzino dalla normale fotografia sportiva. Il lato creativo è fondamentale, così come fondamentale è non concentrarsi unicamente sul gesto tecnico, esplorare lo spogliatoio, le piccole cose che accompagnano le performance di un atleta. Sono appassionato di arte in generale: scultura, quadri, installazioni, probabilmente il mio lavoro è contaminato da ciò e, proprio per questo, ha una naturale inclinazione all’innovazione”

Intimità, innovazione e movimento. Un paradigma multiforme che Maxime ha seguito nei ritratti più disparati: da Megan Rapinoe a Valentino Rossi, da Odell Beckham Junior al pattinaggio su ghiaccio.

Una scuola di pensiero fondata sui lavori, sugli esempi di fotografi contemporanei particolarmente rilevanti per la sensibilità artistica del giovane francese.

“Amo le composizioni di Shawn Hubbard: la sua pulizia tecnica, le storie raccontate grazie ad un singolo scatto, la cura del dettaglio… Quest’ultima la ritrovo anche nel Lewis Hamilton ritratto da Vladimir Rys. Di Andy Kenutis mi colpisce la costante capacità di trovare nuovi angoli, di giocare con i colori, di risultare sempre creativo. L’Harry Kane fotografato da David Ramos è qualcosa di fantastico, non so che tecnica abbia usato, forse una doppia esposizione. Lui, come Eliot Blondet, si concentra anche all’esterno del mondo sportivo: sono fotoreporter in grado di trovarsi sempre al posto giusto al momento giusto”

Shawn Hubbard

All’esterno del mondo del football è impegnato anche Maxime, collaboratore a tempo pieno di un’agenzia fotografica nel nord della Francia. Un lavoro che a linee di scrimmage e special team vede alternare piste d’atletica e ippodromi.

“Al di là del football, amo tutti gli sport. Quando pianifico un lavoro in uno sport che conosco poco, comincio a guardare i lavori dei migliori fotografi specializzati in quell’ambito. Poi studio le luci, che variano di palestra in palestra, di stadio in stadio. Provo in qualche modo ad anticipare, ma alla fine si tratta per lo più dell’istinto”

Joseep Martinson
Andy Kenutis
Harry Kane by David Ramos
Eliot Blondet
Vladimir Rys

Ancora nel magico decennio dei vent’anni, Maxime e la sua macchina fotografica possono permettersi di sognare in grande: sogni a stelle e strisce, sogni di un ritorno definitivo nella terra promessa del football americano.

“Negli States mi avevano proposto un contratto per continuare a fotografare i Lions. Ho fatto richiesta del visto che, per il momento, mi è stata negato. Per i prossimi anni continuerò a coprire eventi sportivi qui in Francia, ma il mio obiettivo americano resta concreto e continuerò a fare richiesta del visto per poter tornare nei dome USA”

E chissà, probabilmente al primo giocatore NFL francese si affiancherà il primo fotografo transalpino.

Credits

Ph Maxime LePihif

IG @maxjs7
maximelepihif.com

Text Gianmarco Pacione


Behind the Lights – Alexander Aguiar

Divinità sportive e pratiche di nicchia, Anthony Joshua e le corride messicane, vi portiamo nel mondo di un giovante talento della fotografia

Riuscire a far convivere divinità sportive e pratiche di nicchia, alternare sapientemente la produzione commerciale con l’approfondimento della passione, dell’arte per sé stessi.

La giovane e intensa storia di Alexander Aguiar insegna che l’apice della fotografia sportiva può essere toccato, vissuto e ritratto con coscienza: non per forza, difatti, questo apice deve deteriorare ricerca ed etica personale, non per forza deve obbligare a scendere a compromessi con la propria curiosità, con la propria espansione artistica.

È la stessa selezione fotografica inviataci da Alexander a mostrarci un’opera atipica: scatti in cui ad alternarsi sono Anthony Joshua, il dio Marte del quadrato, e un anonimo fantino della Florida Meridionale, Stephen Curry, l’Hermes dei parquet NBA, e uno sconosciuto giocatore di jai alai (antica pratica basca).

Jockey from South Florida

Estremi che finiscono per coincidere, incorniciati da un senso d’intimità, d’indagine dell’uomo, prima che dell’atleta. Una cifra stilistica di cui Aguiar ha provato, consapevolmente, a farsi testimone.

“A legare i miei lavori credo sia proprio questo concetto: il senso d’intimità. È un qualcosa che ritrovo nelle piccole realtà sportive: contesti dove ho pieno accesso, dove posso vivere liberamente il dietro le quinte, lo spogliatoio. Allo stesso tempo è un qualcosa che ritrovo stando a contatto con atleti di altissimo livello: prima del rapporto fotografico cerco sempre d’instaurare una relazione personale, lascio perdere temi fuorvianti come l’idolatria e la celebrità. Tratto questi atleti superesposti come persone normali, come genitori, come uomini e donne semplicemente bravi in ciò che fanno, e credo che questo mi aiuti a creare un tipo di connessione diversa”

Intimità, ma anche gusto per il dettaglio, attesa e comprensione del corretto momento da immortalare. Nelle parole di Alexander pare prendere forma un tipo di fotografia assimilabile all’attività sportiva stessa: fatta di sacrificio e intuito. Non potrebbe essere diversamente, soprattutto alla luce dei suoi trascorsi con una racchetta in mano.

“Sono cresciuto giocando un tennis di alto livello, provando a seguire gli esempi di Roger Federer, Marat Safin e Fabrice Santoro. Mi allenavo anche sette ore al giorno, ma non sono riuscito a sfondare. Ho investito tanto in qualcosa che amavo e sono rimasto scottato, per questo con la fotografia mi sto comportando diversamente: nei suoi confronti sento di avere un grado di protezione, di cura superiore. Credo che questa base sportiva mi abbia instillato l’etica del lavoro, la disciplina, il comprendere cosa significhi focalizzarsi su qualcosa. È un background rilevante, che forma la tua personalità e, conseguentemente, il tuo modus operandi”

Rafael Nadal

A plasmare la professionalità di Alexander sono gli anni trascorsi alla corte di Under Armour. Periodo che ha permesso al non ancora trentenne di maturare rapidamente una brillante carriera fotografica. 

Un legame, quello con il brand americano, iniziato quasi per caso nel campus di Maryland e che, in breve tempo, lo conduce ad immortalare giganti dello sport globale, a penetrare nelle anguste e brillanti vite di Tom Brady, Michael Phelps, Joel Embiid, Stephen Curry e, soprattutto, Anthony Joshua.

Con il fenomeno britannico dei guantoni Alexander trascorre un lungo periodo di vicinanza. Una finestra di due anni in cui, oltre al perfetto momento da immortalare, l’attenzione del giovane fotografo si deve concentrare sulla propria integrità morale, sul non lasciarsi travolgere di riflesso dallo tsunami della popolarità.

“Essere vicino ad AJ è stato stupendo. Lui è genuino, non si è fatto cambiare da soldi e successo. Quello che gli gravita attorno, però, è difficile da controllare. Ho camminato con lui verso il ring davanti a centomila persone, sono salito su jet privati, ho visto fans di tutto il mondo acclamarlo… Sarebbe stato molto facile finire fuori fuoco, abbandonarsi all’eccitazione del contesto. L’importante in realtà è realizzare e tenere sempre a mente che la persona fondamentale è un’altra: come fotografo devi sottodimensionarti, devi comprendere che la tua è un’importanza relativa. Il rischio sta nell’iniziare a pensare che tutto ti sia dovuto: non devi dimenticare che dentro al ring non ci sei tu, che non sei tu il vero protagonista”

Stephen Curry

Sottodimensionarsi, dunque, per innalzare in qualche modo il pathos della propria opera fotografica, per fondersi, rispettosamente, con l’istante che potrebbe cambiare un’intera epoca sportiva.

“La parte più incantevole e adrenalinica dello stare a contatto con un atleta della caratura di Joshua sta nel fatto che non puoi mai sapere quando si concretizzerà un momento epico. Prima del match con Klitschko, per esempio, mi sono preparato capillarmente, ripetendomi che dovevo essere tanto bravo nella fotografia quanto AJ sul ring. Penso anche alla fortuna che ho avuto nel fotografare Michael Phelps nel suo habitat naturale, in piscina, o al tour asiatico vissuto con Tom Brady… Se ti trovi tante volte in queste situazioni possono sembrarti normali, ma non lo sono”

Normale potrebbe diventare l’abbandonare la propria ricerca fotografica per dedicarsi completamente ai lavori commerciali. Una scelta quasi scontata, almeno all’apparenza, che Alexander però ha sempre rifiutato, inseguendo la propria curiosità visiva e culturale.

“Nei lavori pubblicitari hai meno libertà, è ovvio, quindi bisogna trovare un preciso equilibrio tra il lato lavorativo e i progetti personali. Ti faccio un esempio, qualche tempo fa mi hanno chiesto di fotografare la squadra di football dei Miami Hurricanes. Non era un grande affare, ma ho subito detto di sì: il motivo era semplice, a 12 anni mi potevi trovare sugli spalti a osservare gli Hurricanes più forti di tutti i tempi e fotografarli mi ha permesso di far riaffiorare quelle emozioni. Ci sono molte cose che faccio senza essere pagato, per puro piacere: cose che poi si possono rivelare utili anche per il lavoro. Ricordo un mio viaggio in Giappone in cui decisi di scoprire fotograficamente il sumo: l’azienda per cui lavoravo all’epoca non l’aveva trovato uno spunto interessante, a lavoro finito mi chiesero di tornare sul dohyō insieme a Tom Brady… Trovo sia questa la corretta evoluzione delle due sfere, il riuscire a fare collimare lavoro e interesse personale, creare una connessione tra esse”

Florida Panthers hockey player

Una connessione che per Alexander non deve soffermarsi sul gesto tecnico o sul semplice ritratto: concetti teorizzati e messi in pratica dai suoi punti di riferimento storici. Occhi, quelli selezionati dal talentuoso americano, che nelle pellicole hanno impresso storie, sensazioni, pensieri capaci di esulare dal presente, dal tangibile, dallo sport.

“Ho scelto Robert Capa per la sua inusuale visione del Tour de France. È un fotografo di guerra prestato al ciclismo e qui svolge il suo lavoro in maniera non letterale: non fotografa i corridori, non fotografa quello che possono vedere tutti. Astrae, esplora opzioni differenti: è una cosa che mi piace fare soprattutto quando sono a contatto con gli sport minori. Lo stesso vale per lo scatto di Harry Gruyaert, in cui si manifesta un momento bizzarro, surreale del Tour del 1982. Alla ‘Grand Boucle’ ho dedicato un reportage, trascorrendo due settimane in Francia per scoprire le unicità di questa corsa meravigliosa. Su Walter Iooss Jr. c’è poco da dire, ha fotografato tutte le leggende sportive degli ultimi cinquant’anni: credo che far durare la propria fotografia nel tempo sia un obiettivo comune a tutti noi. Lui l’ha fatto con Michael Jordan e molti altri, qui ho portato un suo fermo immagine di un fantastico dugout di fumatori. Con l’Ali di Dry mi ricollego al discorso sui momenti iconici, sulla capacità di gravitare attorno ad una legacy ed impreziosirla”

Tour de France – 1939 by Robert Capa
Tour de France – 1939 by Robert Capa
Tour de France – 1982 by Harry Gruyaert
Dave Parker by Walter Iooss Jr
Muhammad Ali – 1976 by Dan Dry

E impreziosire l’ignoto è il prossimo obiettivo di Alexander Aguiar: un ignoto esotico, che vada oltre i major sport americani, che si manifesti in un universo sportivo ancora da scoprire, ancora da esplorare.

“Alla fine di questo stallo pandemico vorrei ricominciare a viaggiare per scoprire. Vorrei indagare culture differenti, come ho già fatto con le corride messicane. Vorrei tornare a sentirmi confuso davanti a pratiche sconosciute, a contesti affascinanti”

Jai alai player

Credits

Alexander Aguiar

IG @alexevanaguiar
alexevanaguiar.com


Fishing like Jesus

Sono pescatori e camminano sull’acqua. Viaggio nel mondo dell’icefishing

“Gesù ha camminato sull’acqua una volta, io lo faccio ogni inverno” questa citazione si può trovare su iceshanty, un popolare blog di icefishing.

Alla prima lettura ho trovato questa citazione incredibilmente divertente e intrigante, è stata inviata su un gruppo WhatsApp a cui sono stato aggiunto dal mio amico Martino. Il nome del gruppo era ‘Better served on ice’, all’interno di esso c’erano molte persone che non conoscevo. Stavano progettando di acquistare oggetti come canne da pesca, tende, stufe a gas, e stivali: parlavano di slitte, birre, caffè con grappa, salame, spessore del ghiaccio ed esche.

All’inizio tutto era abbastanza confuso, ma sono una persona curiosa per natura, quindi mi sono subito inserito nel progetto. Una volta che dici che sei dentro, si sa, sei dentro, e quando ‘Il Capitano’ è uno come Ben, sai che ti contatterà a breve.

Così ecco Ben inviare un elenco incredibilmente dettagliato di cose che bisogna avere. Ogni singolo oggetto elencato è seguito da un link con la migliore offerta disponibile: puoi ottenere il tuo kit di sopravvivenza per la pesca sul ghiaccio con meno di 200 $. Ottenuto il mio, mi sono presentato alla riunione delle 4:00 di mattina a Brooklyn, dando ufficialmente inizio alla mia avventura nell’icefishing.

Per prima cosa si arriva al lago, fa freddo, fa davvero freddo. Poi si cerca di capire se il bollettino dice la verità e se il ghiaccio è abbastanza spesso: sono sicuro che ci siano modi più professionali per stabilirlo, ma il lancio di un grosso masso sembra bastare. Terzo passo: è necessario fidarsi di calpestare il ghiaccio, vanno fatti pochi passi e va aperto un buco per verificare quanto sia effettivamente profondo.

Quarto: una volta che sei pronto per muoverti, carichi la tua slitta con tutto ciò di cui potresti aver bisogno per la giornata e inizi a camminare sull’acqua gelata.

Ogni lago ha i suoi pesci e ogni pesce vive e caccia a diversi livelli di profondità, il pescatore fa del suo meglio per cercare d’ipotizzare queste variabili e sceglie il posto che a suo avviso sarà quello di maggior successo.

Quindi si prepara il campo, si fanno dei buchi, si posizionano le Tip-ups (trappole segnalatorie), si dispongono le canne da pesca e si attende. Quando ho chiesto nel gruppo: “Ehi, ragazzi, perché continuiamo ad andare a pescare sul ghiaccio?” (questo è il nostro terzo anno), la risposta è stata “Per qualche pesce, per molte birre e per il caffè corretto”.

La pesca sul ghiaccio è diventata uno di quegli appuntamenti annuali che tutti noi aspettiamo. Questo progetto documenta i nostri progressi e le nostre giornate segnate da questo nuovo sport.

Credits

Paolo Testa

IG @paolo.testa
paolo-testa.com