Giuseppe Ticozzelli, storia di un mito italiano

Giocò in Nazionale e corse il Giro d’Italia, dedicando la vita a calcio e ciclismo. Questa è la leggenda del gigante dalle gambe di marmo
Chissà cosa si diceva a Castelnovetto, alfiere abitativo nel cuore della Lomellina agricola, nei primi anni del ‘900. Chissà cosa si vociferava, nei pressi della chiesa di Santa Maria delle Grazie, osservando una giovane locomotiva, dai baffi appena accennati, a bordo della propria Maino.
Giuseppe Ticozzelli curava come un figlio la sua amata bicicletta. Lo si vedeva uscire dalla cascina di famiglia poco dopo l’alba, pronto a pedalare in equilibrio tra vaste distese di risaie, accompagnato dall’instancabile lavorio delle mondine, dai loro canti sinceri e operosi.

Le mani fisse sul manubrio, le gambe che mulinavano strapotenti. La direzione preferita era il campo sportivo, o meglio, lo spiazzo adibito al gioco del pallone in quel di Sartirana. La Sartiranense, oggi dispersa nelle categorie meno nobili del calcio nostrano, è difatti una delle squadre più antiche d’Italia: oltre cento anni di storia calcistica all’ombra del Castello Visconteo.
Ticozzelli calciava qui, a pochi metri dal confine piemontese, i suoi primi palloni. Calciava forte, molto forte. Già in età adolescenziale, difatti, ‘Tico’ dimostrava una presenza corporea distante da qualsiasi canone pregresso. Quasi un metro e novanta d’altezza, più di novanta chili di massa muscolare. Nella provincia pavese si stagliava una quercia nata per l’eccellenza sportiva, un superuomo rubato a circhi ambulanti e freak show.
Aveva un giro coscia di 84 centimetri, il gigante Giuseppe Ticozzelli, 84 centimetri attestati anche dai propri figli in svariate interviste. Un dato incredibile, quasi fiabesco.
Dettaglio che permetteva al terzino destro di colpire la palla con una veemenza irreplicabile e, probabilmente, irreplicata. Dettaglio che permetteva al lomellinese di percorrere i cento metri in poco più di dodici secondi.

Ticozzelli amava il football, quella pratica sferica inglese giunta da poco nel Bel Paese. Lo amava a tal punto da desiderarne la proliferazione. Si legò così all’Alessandria, prese parte alla fondazione della società, fu pedina fondamentale fuori e dentro il campo, dove divenne titolare inamovibile.
A lui spettò anche una decisione storica, i ‘Grigi’ diventarono tali dopo una sua proposta. Volle associare a tutti i costi il colore della Maino alla realtà calcistica alessandrina: d’altronde l’azienda ciclistica forniva ad ogni acquirente anche una maglia grigia, particolare organizzativo che andava assolutamente sfruttato.
Tra il 1914 e il 1921, nonostante la forzata pausa bellica da cui l’ufficiale Ticozzelli tornò plurimedagliato, il suo nome entrò rapidamente nel gotha del pallone italiano. Le gesta del lomellinese trovarono risalto nello Stivale in una particolare occasione, quando realizzò un gol da 75 metri di distanza. Una soluzione balistica da record, ancora oggi probabilmente ineguagliata.
‘Tico’ venne presto convocato in Nazionale. Prese parte allo storico Italia-Francia 9-4 del 18 gennaio 1920. Il terzino destro arrivò a Milano in bicicletta, portando con sé un panino e una gazosa: irrinunciabile kit di sopravvivenza per i lunghi viaggi sulle due ruote.
Partì da Alessandria la mattina della gara, coprì rapidamente i cento chilometri che lo separavano dal Velodromo di Sempione, appoggiò la sua Maino all’esterno del campo e giocò una delle partite più memorabili della storia calcistica italiana.
Davanti ai 14mila del Velodromo fu l’unico a indossare pantaloncini neri, se li portò da casa: quelli bianchi, usati dal resto della Nazionale, erano troppo stretti per le sue cosce.

Dopo una parentesi a Ferrara in maglia SPAL, dove Ticozzelli ricoprì anche il ruolo di allenatore, il mirabolante atleta lomellinese si riavvicinò a casa, vestendo la maglia nerostellata del già scudettato Casale per stare al fianco del padre ammalato.
All’epoca il Piemonte era terra di grande, grandissimo calcio: Casale, Novara, Pro Vercelli e Alessandria nei primi del ‘900 formarono a lungo il cosiddetto ‘Quadrilatero Piemontese’, fertile microcosmo del pallone tricolore.
A Casale Monferrato balenò in Ticozzelli l’idea di prendere parte al Giro d’Italia. Un’idea assurda, se traslata ai giorni nostri.
In realtà ‘Tico’ alternava regolarmente i propri impegni calcistici a gare ciclistiche locali, mettendo al servizio dei pedali le sue gambe strapotenti, fendendo con continuità le polverose strade dell’Italia postbellica.
Era amico fraterno di Girardengo, Ticozzelli, e pare che proprio il ‘Campionissimo’ gli consigliò di provare il grande salto nella corsa regina d’Italia, ammettendo con amici e conoscenti che, in pianura, fosse oggettivamente impossibile tenere il passo del ‘footballer’.
Il gigante pavese, così, si presentò con il dorsale numero 152 ai nastri di partenza della 14º ‘Corsa Rosa’. Lo fece da diseredato, termine in uso all’epoca per definire i corridori che non appartenevano a squadre specifiche, che correvano da indipendenti.
In fondo era quello che Ticozzelli aveva sempre fatto: correre da solo, correre per sé stesso, per l’estasi del sacrificio e della fatica.

Quello degli anni ’20 era un Giro diverso da quello attuale, un’autentica marcia epica, lunghissimo pianosequenza di fatiche e sforzi sovrumani: dodici tappe, da Milano a Milano, 3429 chilometri di strade dissestate e allucinazioni.
Il 15 maggio 1926, a 32 anni compiuti, Giuseppe Ticozzelli inaugurò le prime pedalate rosa, percorrendo i 275 chilometri della prima tappa tra Milano e Torino. Anche in quell’occasione fece sposare l’universo calcistico con quello ciclistico, vestendo la maglia nera con stella bianca sul cuore del Casale.
Il percorso tra Lombardia e Piemonte fu letteralmente un massacro, un’ecatombe ciclistica. Domenico Piemontesi, della Alcyon-Dunlop, tagliò per primo il traguardo in 10 ore, 58 minuti e 50 secondi. Ticozzelli arrivò con 2 ore e 8 minuti di ritardo rispetto al ciclista di Borgomanero, chiudendo 94º su 115 ciclisti giunti all’arrivo. Un centinaio degli iscritti abdicò durante il percorso.

Un giorno di riposo, poi la Torino-Genova, altri 250 chilometri. Se il primo appuntamento risultò essere una strage, il secondo non fu da meno: solo 94 ciclisti videro il rettilineo finale. ‘Tico’, sempre bardato in maglia nerostellata, migliorò la sua posizione arrivando 68º, a 2 ore e 8 minuti dall’ancora vittorioso Piemontesi.
La lotta per la sopravvivenza continuò due giorni dopo, in un’odissea di 312 chilometri tra Genova e Firenze. Qui il mito di Ticozzelli prese definitivamente forma.
La quercia lomellina si fece coraggio, ripensando alle parole di Girardengo, e tentò la fuga approfittando di ampi tratti pianeggianti. Forte delle marmoree gambe forgiate tra le risaie pavesi, guadagnò un’ora sul gruppo degli inseguitori. Poi, in carenza di liquidi e alimenti, decise di fermarsi nei pressi del passo del Bracco. Prese d’assalto un’osteria, posizionando il tavolo sul ciglio della strada e ordinando un ricco pranzo.
Come il più umano degli dei, ‘Tico’ scambiò cordiali parole con le persone assiepate attorno a lui e, appena scorti i primi inseguitori, rimontò in sella concludendo la tappa. La pausa gastronomica gli costò un 60º posto sui 67 giunti nella città culla del Rinascimento.
Si concluse proprio a Firenze la coraggiosa impresa di Ticozzelli, investito all’inizio della tappa successiva da un motociclista. I motivi della collisione non furono mai del tutto chiariti. In tanti, Ticozzelli compreso, ritennero fosse stato un volontario e deliberato gesto di un militante politico, convinto che la maglia nera del calciatore celasse un, nemmeno troppo subliminale, messaggio fascista.

Nel 1946 gli organizzatori del Giro d’Italia istituirono lo speciale premio per l’ultimo classificato della ‘Corsa Rosa’, omaggiandolo proprio con una maglia nera. Leggenda vuole che quella speciale divisa fosse ispirata alla figura di Ticozzelli: una leggenda che, però, non è mai stata confermata storicamente. Di certo fu una trovata geniale, che diede vita a tragicomiche fughe all’indietro e gare a perdere, di cui divenne sublime interprete Luigi Malabrocca.
‘Tico’, contrariamente al sentito dire, durante la sua esperienza ciclistica non fu ultimo nemmeno per un giorno, nemmeno per qualche pedalata, risultando sportivo di razza e dalla tempra eccezionale. Tempra che dimostrò ancora una volta in guerra, quando si video obbligato a prendere parte alla spedizione in Etiopia.
Il calciatore pavese, durante la simbolica e mastodontica campagna coloniale voluta dal Duce, iniziò a perdere la vista. Una volta rientrato in Italia i suoi occhi cominciarono a spegnersi rapidamente, ma ‘Tico’ non si rassegnò e continuò a seguire le sue eterne passioni, tra partite di calcio e pedalate in bicicletta.

Durante la seconda parte della propria vita, ‘Tico’ si fece accompagnare allo stadio da fedeli amici, facendosi raccontare le partite in presa diretta, percependo il campo attraverso le loro parole.
Ai figli, invece, chiese di comprare un tandem: unico mezzo adatto per continuare a vivere sia il brivido della pedalata, sia le dolci vibrazioni dell’aria tagliata dalle gambe.
Quelle stesse gambe che, tra il lontano 30 aprile 1984 e il 3 febbraio 1962, giorno della sua morte, lo iscrissero indelebilmente negli annali del mito sportivo italiano.
Sources & Credits
29 dicembre 2020
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