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Giorgio Avola, il fioretto è cultura

Oro olimpico, studente universitario, esempio da seguire. Giorgio Avola, il ‘Conte di Modica’, è un atleta prezioso. Noi l’abbiamo intervistato

La mente di un fiorettista è qualcosa di raro, è una galassia di intuizioni e potenziali scenari, un monumentale complesso di cassetti da aprire, di soluzioni da trovare e concretizzare in un attacco istantaneo, in una stoccata invisibile, in pochi centimetri di pedana da conquistare.

È un qualcosa di nobile per definizione, bagnato dal sangue secolare di chi, nella punta elegante di quella lama, ha osservato l’ultimo bagliore della propria vita, della vita altrui. La mente di un fiorettista è un qualcosa di prezioso, di creativo. Così è la mente di Giorgio Avola.

Il 31enne schermidore potrebbe parlarci della propria maturità sportiva, della medaglia d’oro a cinque cerchi vinta a Londra, dei quattro ori mondiali e di quelli europei. Potrebbe, eppure non lo fa.

“Fino a 27 anni sono stato solo un atleta, poi ho compreso di dover sviluppare altre parti del mio essere ragazzo, uomo. Mi sono iscritto alla LUISS e ho iniziato il percorso universitario nella facoltà d’Economia. Oggi mi definisco un atleta-studente: lo studio giornaliero è diventata la mia nuova grande motivazione. Nei decenni trascorsi sulle pedane di tutto il mondo ho maturato l’idea di essere un privilegiato, ho avuto la fortuna di viaggiare, di scoprire parti del mondo misteriose per tantissimi miei coetanei: basti pensare che il mio primo Mondiale l’ho vissuto da quattordicenne in Corea del Sud. Potevo accontentarmi del presente, vivere in funzione della mia carriera, ma tutto quello che mi gravitava intorno mi ha fatto riflettere, mi ha spinto alla continua ricerca di nuovi stimoli”

Sono frasi raffinate, quelle di Giorgio Avola, frasi cementate da una corposa colata culturale. Alla luce del suo fine eloquio non pare casuale il soprannome assegnatogli dalla stampa nazionale, ‘Conte di Modica’: un appellativo nobiliare, da sangue blu nelle vene, da radici siciliane e da intelletto superiore.

“Vengo da un posto di campagna che ha una notevole ricchezza storica, la Contea di Modica era uno dei principali poli del commercio siciliano. Sono molto legato alle tradizioni della mia terra e, contemporaneamente, al taglio moderno che i miei conterranei stanno cercando d’infonderle. Non mi vergogno nel dire che, quando c’è bisogno, do ancora una mano a cogliere le olive. Modica è questo e molto altro. Sportivamente è un caso raro, dato che la comunità ruota attorno alla scherma. Mi sono avvicinato a questa disciplina nel 1995, ben 25 anni fa… È trascorso così tanto tempo che mi fa quasi strano dirlo. La scuola cittadina è un’eccellenza nazionale, dentro quelle mura ho imparato dei valori fondamentali, che nel mondo attuale risultano quasi démodé: sono il rispetto, il rigore nel comportamento, la serietà. Con il fioretto è stato amore istantaneo, mi affascinava il fatto che fosse la base necessaria per ogni schermidore, che alle spalle di quella pratica ci fossero secoli di duelli all’ultimo sangue e che, proprio per questo, la specialità prevedesse stoccate solo sulle zone del corpo coincidenti con gli organi vitali”

La fascinazione, però, da sé non basta per costruire uno dei più rinomati schermidori del presente Azzurro. Servono predisposizione naturale, consapevolezza della propria unicità e interminabili giornate trascorse dietro un’ingombrante maschera.

“Avevo un talento naturale, me ne sono reso conto molto presto. La destrezza della mano e del pensiero credo siano qualcosa d’innato: per questo ho deciso d’investire tutti miei sforzi nel fioretto. Nel tempo l’arma è diventata un prolungamento del mio corpo… E non è un modo di dire. In una tesi sperimentale di Psicologia hanno scoperto che il mio cervello identifica a tutti gli effetti il fioretto come una parte di me”

Un completamento artificiale del corpo umano, che nel passato recente e remoto italiano ha permesso a maestri schermidori di regalare emozioni uniche al Bel Paese sportivo. Da Edoardo Mangiarotti a Valentina Vezzali, da Giulio Gaudini a Giovanna Trillini. Un flusso dorato, continuato dai fendenti di Giorgio Avola e dalla scuola contemporanea. Gioie, molte, ma anche delusioni, che hanno permesso al siciliano di guardare oltre i piccoli fori della propria maschera.

“Alle Olimpiadi di Rio ho dovuto affrontare la prima grande batosta della mia vita. Ho ricevuto delle critiche e mi sono reso conto che, spesso, non si è obiettivi quando si parla di un atleta. Il mondo esterno tende ad avere uno sguardo ‘fotografico’ delle nostre carriere, relativo ad un singolo momento, un frame, e non al tempo speso per raggiungere quel momento stesso. La soddisfazione per i miei risultati era da qualche tempo decrescente, avevo preso sempre più atto che la mia vita da sportivo fosse in realtà un progetto a tempo determinato, così ho scelto d’iniziare a studiare. La verità è che grazie ai libri ho dato una nuova struttura al mio essere, ho posto le basi per il mio futuro e ho trovato una serie di nuove motivazioni per affrontare le ore di allenamento”.

Una presa di coscienza che ha permesso a Giorgio Avola di rimodulare la propria vita, di ricercare la perfezione in un ambito diametralmente opposto rispetto a quello schermistico. Una presa di coscienza che ha permesso al fuoriclasse siciliano di affrontare il rinvio delle Olimpiadi di Tokyo con una serenità e ponderatezza ben distanti dalle (seppur comprensibili) reazioni di altri atleti tricolori.

“Mi sono limitato a trasformare in opportunità un momento difficile per tutti. Ho studiato dieci ore al giorno, ho preso oltre dieci chili, mi sono votato al massimo sacrificio accademico per poter superare i quattro esami più complessi del mio percorso universitario. Mi è costato tantissimo, non lo nego, ma aver conseguito il massimo dei voti in tutte le prove mi ha appagato pienamente… E questo appagamento è stato una molla per tornare ad allenarmi più di prima, meglio di prima. Ora ho già recuperato la mia forma ideale. Stiamo ancora brancolando nel buio a livello di appuntamenti e di gare fissate, ma non sono uno che si lamenta, non sono nella posizione di farlo: la verità è che mi sento a tutti gli effetti un privilegiato. Sono legato ai Gruppi Sportivi Fiamme Gialle, ho la fortuna di essere sostenuto pienamente da quest’organo statale e ritengo un miracolo il fatto che la mia vita non sia cambiata durante questa pandemia. C’è gente che ha perso il lavoro, che passa attraverso difficoltà enormi, che non può permettersi di pianificare anche solo il domani. Ciò che posso dire è che ritengo lo sport come un qualcosa d’imprescindibile per una società sana, quindi spero non venga completamente trascurato di fronte a questo dramma mondiale”.

Imprescindibile per una società sana è anche la presenza di esempi sportivi, modelli da seguire. Giorgio Avola vuole esserlo a modo suo, schivando noncurante la tendenza alla social-omologazione, tralasciando la quantità di likes e il ritorno d’immagine, limitandosi a propagare messaggi veri e autentici.

“Vorrei che la gente non guardasse a me come a Giorgio lo schermidore, vorrei che apprezzasse il tentativo di esprimere la mia personalità senza filtri. Facendo un paragone azzardato, vorrei essere il Dennis Rodman dei buoni: vorrei mostrare l’eccesso nelle cose giuste, positive”.

Una positività che nel vissuto di Avola si riversa e prende corpo in due precise passioni, ennesime dimostrazioni di una spiccata sensibilità culturale e artistica, di un gusto poco canonico e profondamente ragionato.

“Le mie due grandi passioni sono i motori e la musica. Amo le auto e le moto vintage, provo a collezionarne il più possibile, perché so che in ogni singolo pezzo è insito un preciso racconto: scoprire da quali mani è passato, in che periodo è stato fabbricato, ogni volta equivale a un piccolo grande viaggio… Quando tocco la mia Vespa del ’55 penso a cosa devono aver vissuto i vari proprietari, penso a quando lessero il giornale la mattina dopo l’omicidio di Kennedy; quando ammiro la mia BMW mi rendo conto che è stata prodotta nella Germania Ovest durante gli anni ’70, riesco a percepire quanto vissuto abbia alle spalle. Oggi viviamo aggrappandoci disperatamente al consumismo, il nostro è un mondo usa e getta, dove gli oggetti e le idee diventano vecchie dopo un secondo: ritengo sia tutto concettualmente sbagliato. Il vintage è riflessione, è classe, come il mio fiore all’occhiello, una Porsche 911 degli anni ’80: lo stile per antonomasia, la vera macchina sportiva, capace di trasmetterti il vero piacere della guida. Riguardo la musica ho gusti alternativi, HVOB, The XX e Alt-J sono alcuni dei miei gruppi preferiti. Nelle pause tra studio e allenamento mi piace suonare la chitarra e, soprattutto, assistere a più concerti possibili”

Fedele a sé stesso, fedele alla propria, poliedrica, genuinità. Una vita a fuoco sopra e fuori la pedana. Giorgio Avola prima di tornare sui libri vuole ricordare a tutti, anche a sé stesso, che fiorettista di primissimo livello lo è ancora e lo sarà a lungo.

“Penso di poter scrivere ancora pagine importanti per il fioretto italiano. Arriverò ai prossimi appuntamenti internazionali e a Tokyo con una testa diversa rispetto a quella che potevo avere una decina d’anni fa, ma con la stessa ipercompetitività che mi spinge costantemente a migliorare in tutti gli ambiti, con quel fuoco sacro che mai mi ha abbandonato. Voglio mettermi alla prova ancora una volta”

La mente di Giorgio Avola è un qualcosa di raro, così come il suo esempio. Ora starà al ‘Conte di Modica’ conquistare centimetri in pedana, starà al fuoriclasse siciliano centrare ancora la più nobile delle medaglie a cinque cerchi.

Articolo di Gianmarco Pacione

Credits

Angelo Lanza, AF Magazine
Roberto Chivotti

Thanks to DAO Sport

20 ottobre 2020

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