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Gazza e l’estate dei sogni infranti

Nel 1990 tutta l’Italia del calcio s’innamorò di Paul Gascoigne e delle sue lacrime

John Motson, per un attimo, perde il tradizionale aplomb che lo contraddistingue: “Questo è il più grande sorriso del mondo del calcio stasera: David Platt dell’Aston Villa”. L’Inghilterra ha appena segnato, sull’ultimo gong della partita, ai tempi supplementari, il gol che la porterà  ai quarti di finale del Mondiale di Italia ’90. Con quella rete di Platt al Belgio, a Bologna, il passaggio del turno è assicurato. La sfida è stata accesa e bellissima, con occasioni di qua e di là. Singolarmente non si era schiodata dallo 0-0. C’era, ormai, aria di calci di rigore. Poi, ecco il colpo di Platt, una girata, una volée che beffa il fortissimo portiere belga, Michel Preud’homme.

Il lancio che ha permesso all’attaccante di realizzare quella decisiva magia l’aveva effettuato un ragazzo che veniva dal Nord dell’Inghilterra, nato a Gateshead, tifoso del Newcastle, e che giocava nel Tottenham Hotspur. Prima che iniziasse il Mondiale il suo nome si era diffuso in un tam-tam che ne raccontava il torrido talento abbinato all’inclinazione al vizio della bottiglia. La traiettoria che depositò sul piede destro di David Platt il pallone del trionfo, che fece esultare Motson, per tutti, affettuosamente, Motty, il telecronista della BBC, voce di tantissime partite, l’ha disegnata lui. Si chiama Paul Gascoigne ed è un formidabile genio.

Ha scritto, pochi giorni fa, Enrico Brizzi, in un lungo articolo pubblicato su “Il Foglio Sportivo”: “Due sole cose facevano sentire meglio l’adolescente Paul: mangiare barrette di cioccolato Mars e giocare a calcio. Entrambe gli riuscivano benissimo”. Il sovrappeso era da sempre un compagno di viaggio per Gascoigne, che presto divenne semplicemente Gazza. La storia della sua vita è una continua caduta. L’alcol l’ha divorato, un diavolo che l’ha scavato dentro. Anche la droga si è impossessata di lui. Tra ricoveri, cure psichiatriche, terapie riabilitative, Gascoigne si è perduto molte volte e altrettante volte si è ritrovato (o, perlomeno, ci ha provato).

Osserva Brizzi: “Risulta quasi incomprensibile, la parabola umana di Gazza, se non si è mai trascorso un weekend a Newcastle e dintorni. Si comincia presto, al pub di fiducia, buttando giù qualche pinta di bitter o di browne ale locale”. Ed essere l’eroe di quella città, e di quella in cui era venuto al mondo – dopo ogni incontro del Tottenham, Gascoigne tornava a Gateshead per stare al pub con i suoi amici -, portò a dilatare quello stile di vita che, poi, è stato, inevitabilmente, (auto)distruttivo.

Fermatevi, adesso, perché di quello che è successo dopo il 1990 a Gazza sapete se non tutto, molto. Tornate indietro e, se avete la possibilità  di ricordare quanto accadde allora in Italia, per esserci stati, o anche se ve l’hanno soltanto raccontato, inebriatevi con la sontuosa e pazza bellezza di Gascoigne. Fu l’estate di Totò Schillaci, dei rigori di Napoli, di Caniggia e Maradona. Ma fu, anche, l’estate di Gazza.

Tra pochi mesi, saranno trascorsi trent’anni. Ce ne sono voluti ventotto perché l’Inghilterra tornasse tanto in alto in un Mondiale. Nel 2018, ha raggiunto la semifinale, in Russia, venendo poi sconfitta, in una partita dalle sconfinate emozioni, dalla Croazia. Nel 1990, ci arrivò eliminando, dopo il Belgio, il Camerun, sensazionale sorpresa, trascinato da Roger Milla, rientrato in nazionale quando aveva ormai lasciato il calcio professionistico e si era ritirato a giocare nell’isola di Réunion, nell’Oceano Indiano. L’Inghilterra vinse per 3-2, di nuovo ai supplementari, ribaltando lo svantaggio per 2-1 con due rigori trasformati da Gary Lineker, il meraviglioso centravanti che con Gascoigne duettava al Tottenham. Ma proprio i rigori furono fatali nella partita con la Germania Ovest: l’1-1 al 120’ lasciò la sentenza alla crudele verità  della sfida tra chi calcia e chi para, con undici metri di vuoto in mezzo. Sbagliarono due penalties, gli inglesi, e furono fuori. Gazza scoppiò a piangere. Uno sfogo d’ansia che gli era scoccato dentro molto prima della sconfitta.

Erano passati pochi minuti da quando aveva commesso un intervento falloso su Thomas Berthold. L’arbitro, il brasiliano José Wright, lo ammonì. Era già  diffidato, avrebbe saltato la finale per la Coppa, se ce l’avessero fatta a vincere con la Germania Ovest. Fu un segnale, un messaggio del destino. Gazza, mentre i tedeschi gioivano, fu invaso da una tremenda tristezza. Le lacrime che sgorgarono dai suoi occhi, gli occhi di un figlio della working class, cresciuto tra le difficoltà , che al pub trovava il calore che gli mancava e che sul campo da calcio si trasformava in un supereroe, furono un desolato dolore, l’espressione dell’impossibilità di ribellarsi. Perché Paul John Gascoigne (sì, i due nomi, i genitori, glieli diedero proprio in omaggio a McCartney e Lennon) aveva dovuto lottare e, al tempo stesso, non riusciva a sconfiggere i demoni che lo avrebbero inseguito per sempre. Una finale, un Mondiale, giocare per vincerlo, sarebbe stato un riscatto. E, forse, qualcosa sarebbe cambiato per Gazza. Oppure no: Gascoigne è per sempre, nel bene e nel male.

L’Inghilterra aveva cominciato Italia ’90 in un girone che si sarebbe disputato tra Palermo e Cagliari. L’avevano mandata in Sardegna perché su un’isola sarebbe stato (questa era l’idea) più facile controllare l’invasione degli hooligans, in anni in cui la violenza dei tifosi era divampata. C’era stata la tragedia dell’Heysel. Nel 1989, la drammatica leggerezza con cui fu gestito l’accesso del pubblico allo stadio di Hillsborough, a Sheffield, per la semifinale di FA Cup tra Liverpool e Nottingham Forest, condusse alla morte, nel settore denominato Leppings Lane, di 96 sostenitori dei Reds. Da quegli eventi terribili derivarono gli interventi che ribaltarono il football inglese, prodromi di quanto ha condotto a renderlo il più grande scenario calcistico del pianeta, per interesse, business e strutture. Allora, però, dire Inghilterra significava un sacco di problemi. Il Mondiale contribuì a cambiare, almeno in parte, l’opinione dei più. Fu un punto di rottura contro il pensiero unico per cui gli inglesi erano degli ubriaconi, aggressivi, violenti. Degli “animali”, sosteneva qualcuno. Quella squadra, allenata da un gentleman come Bobby Robson, conquistò tanti e diede il via a un nuovo tragitto. Se fu così, è stato anche (se non soprattutto) per la celeste follia di Gazza.

In un recente pezzo uscito su “Il Fatto Quotidiano”, Stefano Arrica, delegato all’epoca per il Comitato d’Organizzazione Locale a Cagliari per Italia ’90, ha raccontato il “suo” Gascoigne. E, nelle sue parole, c’è tutto Paul: “Partivo con qualcuno dello staff e andavo alla ricerca di Gazza, lo trovavamo in qualche bar della spiaggia che beveva. A 23 anni aveva già  un problema con l’alcol. Dai Paul, non rompere le palle, gli dicevo in inglese. Ancora cinque minuti, mi rispondeva. Non era mai facile riportarlo in albergo. Nel frattempo aveva fatto amicizia col barista e fraternizzato con tutto il bar. Non era mai rissoso. Era un ragazzo tenerissimo con un cuore grande, ma completamente pazzo. Chissà se si ricorda ancora di me… Oggi sto male quando lo vedo in certe condizioni”. E se ci pensi, ti viene da dire che hanno ragione quelli che dicono che in cambio della fortuna di aver ricevuto in dono un immenso talento ci sia sempre un prezzo da pagare. Gazza non ha ancora finito di versare il tributo che gli hanno chiesto, ed è difficile credere che un giorno ci riuscirà.

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