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Gary Payton, ‘The Glove’

Il guanto che tinse l’NBA di trash talking, difesa e personalità

Stava tutta in un’espressione, la pallacanestro di Gary Payton. Il collo leggermente piegato, le sopracciglia corrucciate e irritate, la gomma ruminata a bocca spalancata.

Stava tutta in tante, tantissime parole, la pallacanestro di Gary Payton. Fiumi di sporche sillabe, un trash-talking incessante, spazzatura verbale lanciata addosso a inermi avversari, a stizziti spettatori.

Raccontava Phil Taylor sulle colonne di Sports Illustrated: “Non vi sorprenderà sapere che la prima volta in cui incontrai Gary Payton, lui stava parlando. Era il 1990 e lui stava giocando ad Oregon State. Arrivai in palestra e mi sedetti, attendendo che concludesse la sessione di tiro. Ogni rilascio era accompagnato da frasi come: “Abbassa le braccia, non puoi fermarmi”, “Troppo tardi. Prendi il bus precedente la prossima volta e arriva qui prima”, “Non girarti nemmeno, sai che questa entrerà” e via dicendo. All’epoca si era già costruito una reputazione da trash-talker. Quel giorno, però, la situazione era strana: nessuno lo stava difendendo, stava tirando da solo. Payton stava letteralmente parlando all’aria. Finita la sessione di tiro gli chiesi se fosse sua abitudine offendere avversari immaginari. Lui mi squadrò con quel suo sguardo criptico, lo stesso che poi sarebbe diventato famoso in NBA. Sembrò confuso, come se non si fosse effettivamente reso conto delle sue parole. Poi mi disse: “Semplicemente viene fuori da me. Se mi conoscessi, sapresti che io parlo sempre”.

Un’abitudine maturata nei sobborghi della zona est di Oakland, tramandata di padre in figlio. Papà Al, leggenda dei locali playground, era stato da subito chiaro e profetico: “Se ti urlano cazzate addosso, tu restituiscigliele tutte”. All’epoca il piccolo Gary aveva solo 11 anni.

Divenne una macchinetta sparaparole, l’adolescente Payton, si fece odiare da chiunque, senza farsi problemi di sorta. “Se fossi venuto a conoscenza di qualche dettaglio scabroso riguardante la madre o la sorella di qualcuno, come una patente ritirata per ubriachezza, mi sarei subito fiondato sull’argomento. Era crudele da parte mia? Sinceramente non m’interessava”. 

La sua attitudine raggiunse connotati divini nella metà campo difensiva. Lì, all’interno del feudo amico, si tramutò in ‘The Glove’, il guanto.

Quello fu più di un soprannome, fu metafora visiva di applicazione e arroganza, di tenacia e superbia. Non avere paura, viceversa, instillare la paura nell’altro.

“I ragazzi grossi sono grossi, ma i ragazzi di strada sono più duri dei ragazzi grossi”. Approdato in NBA, Payton non cambiò di un millimetro i suoi costumi, anzi, li affinò, costituendo con Shawn Kemp una connection iconica, un mix unico di stile e arroganza.

Diceva di lui ‘Reign Man’: “Era il tipo di persona che voleva dirti prima della palla a due cos’avrebbe fatto. Ti urlava “Ti farò il culo, ti segnerò 20 punti in faccia, farò 10 assist e non ci sarà una singola cosa che potrai fare per evitarlo”. Poi entrava in campo e, come annunciato, faceva 20 e 10”.

Il verde scuro e la scritta Sonics, gli alleyoop e le istrioniche messe in scena. Il circo di Seattle fu l’alternativa perdente alla dominante tirannia Bulls. Fu l’amore ideale per pazzi e rinnegati, per chi necessitava ben più del Larry O’Brien Trophy e della semplice, impressionante, grandezza.

Nelle Finals 1996 ‘The Glove’ provò addirittura a piegare le ali di ‘Sua Altezza Aerea’: fu un duello cavalleresco, un carosello di chewing-gum masticate ferocemente, parole fuori controllo e corpi incastrati come tetris viventi.

La massima grandezza contro la massima applicazione. Vinse la prima, ma a fatica.

Ebbe tempo per vincere anche GP, ci riuscì a Miami, ancora scosso dalla tragedia sportiva patita a Los Angeles, sponda Lakers. Non erano bastati gli innesti del ‘Guanto’ e del ‘Postino’, ai gialloviola, per superare i Pistons di Larry Brown.

Poco male, in Florida Payton si prese quello che a lungo aveva inseguito, punteggiandosi il petto con la medaglia cestistica cercata per un’intera carriera.

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