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L’importanza di Gaetano Scirea

32 anni fa ci lasciava un calciatore gentiluomo, un libero immenso, un uomo prezioso

“Era uno dei giocatori più forti del mondo, ma era troppo umile per dirlo o anche solo per pensarlo. Il suo essere silenzioso e riservato forse gli toglieva qualcosa in termini di visibilità, ma certamente gli faceva guadagnare la stima, il rispetto e l’amicizia di tutti, juventini e non. Questo non significa che fosse un debole o che non avesse niente da dire: al contrario, era dotato di una grande forza interiore e sapeva parlare anche con i suoi silenzi. Nel calcio d’oggi credo che si sarebbe trovato un po’ spaesato, ma solo a livello personale. Calcisticamente era uno molto competente e avrebbe saputo rendersi anche autorevole. Diciamo che personaggi con il suo carattere, al giorno d’oggi, nel mondo del calcio non ce ne sono più”

È racchiusa nelle parole di Marco Tardelli l’importanza di Gaetano Scirea. Rievocare la figura del più grande libero della storia italiana è un atto dovuto, un tributo postumo che deve essere rinnovato anno dopo anno, anniversario dopo anniversario.

Senza l’inferno di Babsk, senza le assurde taniche di benzina, senza quel rogo istantaneo e fatale.

Senza tutto questo, Gaetano Scirea avrebbe seguito il normale corso della vita, affrontandolo con l’elegante misura che mai aveva smesso di accompagnarlo. 

Pacato, avrebbe continuato a rifuggire vetrine dorate e mistificazioni eccessive.

Non era uomo da riflettori, Scirea, non si era mai sentito tale, fin dai tempi dell’hinterland milanese, quando lavorava come elettricista per redimersi da un’inaspettata bocciatura in terza media.

Per compiacere e onorare il padre, uomo tutto d’un pezzo, operaio negli stabilimenti Pirelli, ‘Gai’ si sarebbe anche diplomato a trent’anni compiuti.

Era silenzioso, Scirea. In quei silenzi esprimeva un’autorità raffinata e incisiva. Il suo eloquio era spartano e diretto, un dolce flusso di comprensione e sensibilità. Aveva il naso adunco e le sopracciglia folte, le spalle larghe e un intelletto calcistico impareggiabile.

Quando ci si riferiva a lui semplicemente come libero, si ometteva uno scenario ben più dettagliato, punteggiato da caratteristiche e intuizioni anticipatrici.

Gaetano Scirea era interprete archetipico di un calcio moderno, era un 10 nascosto nella trincea della retroguardia, un pensatore pronto a dispensare sortite offensive con i giusti tempi, i giusti tocchi.

“Da ragazzino lui sognava Suárez e Rivera, la maglia numero 10, la direzione d’orchestra. Ci è arrivato ugualmente, con la maglia numero 6: direzione della difesa e appoggio al centrocampo e all’attacco”, scriveva di lui Gianni Mura. “Un trequartista nella sua area di rigore”, lo definiva Mario Sconcerti. “Nessuno è stato grande come Gaetano, perché gli altri, compresi i sommi Beckenbauer e Baresi, erano difensori che avanzavano, lui era difensore in difesa, centrocampista vero a centrocampo, attaccante vero in attacco”, aggiungeva Luigi Garlando.

Negli scenari calcistici degli anni ’70 e ’80, battaglie sportive che spesso toccavano normali apici di violenza concessa, tra gomitate dissimulate e ruvidi interventi, Scirea fu nobile eccezione. Onesto, leale verso compagni e avversari.

In maglia bianconera vinse tutto, al fianco dell’eterno amico Dino Zoff arrivò a celebrare anche il Mondiale 1982. Un rapporto annunciato, il loro, una fratellanza delicata, signorile. Entità superiori, calciatori stellari che vivevano la propria popolarità e i propri successi con naturale umiltà.

Bevvero una bottiglia di vino insieme, dopo quella magica notte di Madrid, bicchiere dopo bicchiere, sigaretta dopo sigaretta. La gloria gustata lontano dagli eccessi, lontano da discoteche e schiamazzi incontrollati. Erano uomini per bene, erano figli di un’Italia diversa, di un’epoca distante da social network e sovraesposizione obbligata.

“Ero rimasto allo stadio più degli altri per le interviste e tornai in albergo non con le guardie del corpo, come succede oggi, ma sul furgoncino del magazziniere. Gaetano mi aspettava. Mangiammo un boccone, bevemmo un bicchiere, ci sembrava sciocco festeggiare in modo clamoroso: mica si poteva andare a ballare, sarebbe stato come sporcare il momento. Tornammo in camera e ci sdraiammo sul letto, sfiniti da troppa felicità. Però la degustammo fino all’ ultima goccia, niente come lo sport sa dare gioie pazzesche che durano un attimo, e bisogna farlo durare nel cuore. Eravamo estasiati da quella gioia, inebetiti. Gaetano torna sempre. Lo penso a ogni esagerazione di qualcuno, a ogni urlo senza senso. L’ esasperazione dei toni mi fa sentire ancora più profondamente il vuoto della perdita. Gaetano mi manca nel caos delle parole inutili, dei valori assurdi, delle menate, in questo frastuono di cose vecchie col vestito nuovo, come canta Guccini. Mi manca tanto il suo silenzio”

Lo amava l’avvocato Agnelli, amava il suo portamento, quell’essenza artistica sprigionata attraverso semplici gesti, semplici tocchi del pallone. Arte calcistica povera, concettuale. Lo amava Boniperti, amava quella forza innata di condurre alla vittoria, quella capacità di entrare al Comunale di Torino da una porta secondaria, impaurito e timoroso, e di uscirne a distanza di anni come leader e mito pulsante.

“Il mio fuoriclasse era Scirea. Parlava poco, eppure aveva carisma. Era un piacere stare con lui e in qualsiasi occasione, non soltanto sul campo, ti faceva fare bella figura. Il giorno in cui ho preso Scirea, per la prima e unica volta Achille Bortolotti mi ha detto: “Gaetano te lo porto io a Torino. Perché questo ragazzo è diverso da tutti gli altri”. Quando Gai ha smesso di giocare io volevo che diventasse un punto fermo della Juventus. Prima come osservatore, poi come allenatore, ma lo vedevo benissimo anche come uomo di pubbliche relazioni. Aveva qualità fuori dal comune e la sua splendida carriera ne era la conferma. Li riconosci subito i giocatori che hanno qualcosa in più: li vedi da come si muovono in campo e da come leggono il gioco un secondo prima degli altri; se poi sono dotati di spessore umano e pulizia morale hai davanti agli occhi un fuoriclasse anche nella vita. E Scirea lo era. Io gli volevo bene”

Boniperti non era l’unico a voler bene a Gaetano Scirea, anzi, come lui tutto il mondo del calcio e l’intero popolo italiano si legarono al 6 bianconero. Un legame valoriale, umano, spirituale.

Era ‘il’ calciatore, Scirea, lo era per la tribù juventina, ma non solo. Celebre fu l’applauso del popolo romanista dopo una sua sostituzione: un innegabile omaggio alla grandezza.

Per Maradona era un cavaliere, per Trapattoni un leader col saio, per Bearzot un angelo caduto dal cielo.

Mai come oggi l’importanza di Gaetano Scirea assurge a necessità primaria per l’universo calcistico.

Quanto inciderebbe l’uomo Scirea in questo mondo sempre più privo di fari e bandiere, sempre più carente di personalità vere e intense, sempre più corrotto da vizi ostentati, da caroselli di edonistiche autocelebrazioni? Non è dato saperlo.

Quello che è dato sapere, invece, è che la ferita inferta da una stanca macchina polacca e da alcune taniche di benzina è ancora aperta, viva in tanti di noi. Non si è mai rimarginata da quel lontano 1989. E così, in fondo, dev’essere. Perché quella ferita ci permette, ad oltre 30 anni di distanza, di ricordare un’eccellenza calcistica, umana, italiana.

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