fbpx

Fabio Turchi, la fiorentinità sul ring

Un pugile che di Firenze incarna tradizioni e identità. Intervista a Fabio Turchi, pugile per nascita e per volere della propria città

“Molti muoiono a Firenze non avendo potuto nascerci”, scriveva la vibrante penna di Ennio Flaiano. Fabio Turchi nella culla del Rinascimento ha avuto la fortuna di nascerci, una fortuna coltivata assorbendo le tradizioni del giglio e riunendo la città che fu medicea attorno ad un ring, il proprio.

La voce del 27enne peso massimo leggero lascia trapelare una radicata fiorentinità, un senso d’appartenenza pregiato, viscerale. La sua Firenze è parola e gesto, è genuinità e caparbietà.

Riccardo Bagaini

La sua Firenze è racchiusa nei pugni chiusi del padre Leonardo, campione professionista e guida spirituale a cavallo delle quattro corde; è tramandata dal colore Verde, quello dei calcianti di San Giovanni, e dal Viola dell’Artemio Franchi; è custodita nella palestra Montagnola, dove Fabio entrò quando ancora faticava a parlare, dove ancora oggi lo ‘Stone Crusher’, lo ‘Spaccapietre’, danza tra i sacchi aspirando a titoli continentali e mondiali.

“Sinceramente nemmeno ricordo quando ho iniziato ad andare in palestra. Alcuni dettagli però sono rimasti impressi nella mia mente: il parquet per terra, i cigolii delle scarpe che accompagnavano i movimenti dei pugili, i lampadari enormi che emanavano una soffusa luce gialla, alla vecchia maniera… Entrando alla Montagnola, sulla sinistra, c’era la scrivania del mio vecchio maestro, il primo maestro anche di mio padre, mi regalò dei guanti vintage in pelle nera, con i lacci, che conservo tuttora come un prezioso cimelio. Un altro fermo immagine è lo stanzino con gli attrezzi per la pesistica: gli adulti non volevano che ci entrassi, era pericoloso, quando provavo a farlo un amico del mio babbo faceva cadere per terra dei dischi di ghisa e io prendevo un colpo”

Attimi d’infanzia, attimi di ammaliante introduzione alla nobile arte. Il percorso pugilistico di Fabio inizia come quello di un predestinato, di un bambino che tra jab e schivate vede prendere forma la propria passione, il proprio futuro.

“Tra i dilettanti ho esordito presto, a 15 anni, ma avevo già un’esperienza di palestra di tanti, tanti anni alle spalle. Da bambino ho bruciato inconsapevolmente le tappe: osservavo tutti gli allenamenti degli adulti, tra quei pugili c’erano anche molti professionisti e avevo la possibilità di rubare con gli occhi i loro segreti. Quelle ore spese a bordo ring sono state fondamentali per studiare, per captare particolari molto più facili da assimilare quando sei bambino. La mia costante presenza alla Montagnola era motivo di discussione in casa, mio padre in realtà non voleva portarmi, a volte venivo obbligato ad andare ai giardini a giocare con i miei coetanei, per me era una sorta di punizione”

Una punizione che per Fabio si trasforma in scoperta quando, come ovvio che sia nella città di Giancarlo Antognoni, il 10 che guardava le stelle, in quei giardini poco amati vede rotolare il primo pallone.

“Da giovane ho giocato moltissimo a pallone nella società Firenze Ovest: mi è servito a distrarmi, diciamo così. Alternavo uno sport individuale ad uno di squadra: da una parte avevo modo di socializzare con persone molto più grandi di me, dall’altra potevo condividere lo spogliatoio con i miei coetanei. Quando penso al calcio giocato, penso ad una fase spensierata della mia vita, in cui vivevo senza pressioni la sfera sportiva. Quando penso al calcio tifato, invece, penso alla curva Fiesole e al trasporto per la Fiorentina. La passione per i colori e per il calore del tifo me l’ha trasmessa mio zio materno, fedelissimo del Lecce. Lui è pugliese, io da buon fiorentino ho iniziato a popolare le gradinate del Franchi. Il mio rapporto con il calcio è cambiato verso i 16 anni, quando ho vinto il primo campionato italiano dilettanti: mi sono ritrovato convocato in Nazionale e catapultato nel mondo degli adulti. Lì il calcio è passato in secondo piano, anche se il legame con la Viola resta ancora oggi fortissimo. I migliori anni della mia adolescenza, quelli del giro di boa della maggiore età, li ho praticamente vissuti in palestra, sacrificandomi per la boxe… Ma rifarei tutto”

Riccardo Bagaini

Sacrifici segnati dalle parole di ‘babbo’ Leonardo, padre-allenatore in grado d’insegnare molto più di semplici combinazioni o movimenti di busto, d’instillare costanza, serietà e disciplina: approcci alla battaglia mentali e caratteriali, prima che tecnici.

Sacrifici segnati dall’esempio di Giacobbe Fragomeni, mito del ring da cui Fabio ha sempre attinto. Peso massimo leggero come lui, soprattutto uomo sfuggito ai demoni personali grazie ai guantoni e giunto all’eden del titolo mondiale WBC. Un sopravvissuto a sé stesso, un superstite da ammirare.

“La sua è una storia di vita importante, fa capire come lo sport possa essere motivo di riscatto. Ho sentito circolare il suo nome in casa fin da piccolo, perché da dilettante ha fatto due match con mio padre. Ho letto il suo libro, ho provato enorme stima ed entusiasmo nel vederlo arrivare sul tetto del mondo. Pochi anni fa ho avuto anche l’onore di fare una seduta di sparring con lui: allenarsi con un idolo è un’esperienza bellissima. Peccato solo averlo incontrato nella fase calante della carriera, se fossimo saliti insieme sul ring qualche tempo prima avrei avuto la possibilità di capire molte più cose della sua boxe”

Ciò che presto comprende Fabio Turchi, a 21 anni per l’esattezza, è la personale volontà di abbandonare il porto sicuro del dilettantismo per salpare verso il burrascoso arcipelago del professionismo.

Una scelta temeraria e criticata, arrivata dopo un oro ai Giochi del Mediterraneo, un argento alle Olimpiadi giovanili e un bronzo mondiale, sempre giovanile. Una scelta ponderata, figlia della necessità di mettersi alla prova, del desiderio di cingersi non più di medaglie, ma di cinture.

“Ogni ciclo ha un inizio e una fine. Così è stato per la mia condizione da dilettante. Tanta gente preferisce la sicurezza del lavoro statale, ma io fin da piccolo avevo un sogno: fare il pugile professionista. Non avrei sopportato veder diventare la boxe un lavoro di routine, avevo bisogno di nuovi stimoli e per questo ho fatto il grande salto. Il mio percorso da dilettante l’ho sempre vissuto come una preparazione al professionismo. L’unico rammarico che mi rimane è quello di non aver combattuto alle Olimpiadi. Purtroppo, militando nella stessa categoria di peso di un fenomeno mediatico come Clemente Russo, non sono mai stato messo nelle condizioni ideali per tentare l’avvicinamento ai cinque cerchi. Quando ho deciso di fare il salto, un salto nel vuoto, pochissime persone mi sono state vicine, tanti hanno parlato, criticando con superficialità la mia scelta. Erano gli anni bui del pugilato italiano, quelli in cui ci si esibiva in seconda o terza serata, gli anni in cui DAZN era ancora un miraggio. Ho subito compreso che per sopravvivere in quel tipo di mondo il risultato non poteva essere l’unica cosa essenziale: bisognava sapersi creare un personaggio, un seguito, un mercato”

E nella terra di Brunelleschi e Donatello, artisti eterni della pietra, Fabio Turchi, lo ‘Spaccapietre’, inizia a scolpire i propri capolavori, a creare il proprio personaggio distruggendo quelli altrui.

Ko tecnici e prestazioni convincenti gli fanno raggiungere in pochi anni il titolo internazionale dei massimi leggeri WBC e IBF. La striscia verde di 18 vittorie viene interrotta da un singolo, inaspettato passo falso, quello con il britannico McCarthy.

“La cintura da professionista credo sia la massima ricompensa per un pugile. Vincere il titolo WBC a Firenze, davanti a un palazzetto gremito, è stata un’emozione che non scorderò mai. Con McCarthy ho subito una batosta mentale, ho perso la cintura per una serata storta e per una serie di vicissitudini private. Arrivavo da due vittorie prima del limite, ero lanciato e non me l’aspettavo. Poi con i vari lockdown sono rimasto lontano dal ring per un anno e ho avuto tempo per ricominciare dall’abc, per modificare i miei standard. Sono ripartito dalle basi e ho fatto un grande salto di qualità. L’ho dimostrato nell’ultimo match con Grisunins: la sconfitta mi ha fatto perdere del tempo, è vero, ma me ne ha fatto guadagnarne dell’altro. Ora ho una maggiore morbidezza delle gambe, una maggiore cura della difesa e del jab, mi reputo più completo anche nella gestione dell’incontro: posso decidere se andare allo scontro, cosa che prima facevo sempre, spinto dall’ansia da ko, o se boxare per dieci riprese”

Una maturità pugilistica che il classe ’93 dovrà dimostrare questo venerdì, quando la Milano Boxing Night lo vedrà incrociare i guantoni con il francese Dylan Bregeon, per il titolo vacante dell’Unione Europea. Uno snodo che potrebbe rivelarsi cruciale per il futuro del boxeur fiorentino.

“Da professionista ogni match è una finale, reputo il match di venerdì come l’ultimo step prima del passo verso l’altro titolo europeo e verso la rivincita con McCarthy. Nella mia preparazione non c’è alcun segreto: massima serietà e costanza, voglio vincere a tutti i costi”

Un ingrediente segreto, in realtà, mancherà all’esterno del ring: il fronte comune del popolo fiorentino, sempre presente durante i match del proprio beniamino. Un beniamino trasversale, capace di unire quartieri in lotta da secoli con il suo impegno all’interno e all’esterno delle corde.

“La mia vicinanza alla curva Fiesole sicuramente funge da traino per portare gente a palazzo, lo stesso discorso vale per il calcio storico, una manifestazione che amo. Mio padre e mio nonno sono stati dei calcianti Verdi di San Giovanni. Io ho deciso di non scendere in campo per due motivi: il primo è lo spirito di autoconservazione, si sa, a piazza Santa Croce subire una contusione è il minimo, il secondo è il desiderio di unire la gente, non di dividerla. I quattro quartieri hanno sempre dimostrato grande affetto nei miei confronti e schierarmi per un colore non sarebbe corretto. Certo, in futuro vorrei prendere parte ad un’edizione, sarebbe una ciliegina sulla torta per la mia fiorentinità… Per il momento però mi concentro solo sulla boxe e sul motivare le persone, soprattutto le nuove generazioni: ritengo sia il dovere di ogni atleta. Provo a farlo a suon di vittorie e d’iniziative positive”

Tra queste iniziative, particolarmente significativa è quella legata al morbo di Parkinson, tema da sempre delicato per la nobile arte. Fabio condivide con una sua cara amica l’organizzazione di concerti per raccogliere fondi da devolvere alla ricerca, così come si batte pubblicamente contro il bullismo e per aiutare il sostentamento dei canili fiorentini.

Sfaccettature di una fiorentinità dura solo all’apparenza, di una Firenze che è parola e gesto, dicevamo, che è genuinità e caparbietà. Di una Firenze che è riunita attorno ai potenti, artistici fendenti di un proprio enfant prodige.

Fabio Turchi
IG @fabioturchiofficial

Intervista di Gianmarco Pacione

Sources & Credits

 

 

 

 

Photos sources:
Fabio Turchi Video sources: https://www.youtube.com/watch?v=JJ8bJT_89Qw&t=1144s https://www.youtube.com/watch?v=MDI7AW3EnnQ&t=31s

14 aprile 2021

Related Posts

Subscribe To Our Newsletter

You have Successfully Subscribed!

Share This