Il rapporto tra l’inventore della fotografia sportiva e la ‘Divina’ del tennis

Ogni gioco implica il senso del limite. Oggettivamente, nello sport, limiti sono la regola e il campo. Il campo è l’isola di realtà dove valgono le regole del gioco. Il fotografo sportivo conosce bene questo tipo di demarcazione.

Relegato nella buca, al di qua del confine invalicabile dell’azione, sopporta, nascosto nell’ombra delle sue visiere e dei suoi gilet, l’impossibilità di avvalersi dell’aureo consiglio dei Robert Capa e Bruce Gilden: “Se non è buona, non eri abbastanza vicino”. L’unica vicinanza possibile per il fotografo sportivo è di tipo ottico, non fisico. È un’epica di cannoni bianchi, l’immagine dei teleobiettivi nella trincea del bordocampo.

Lartigue, che ha inventato la fotografia sportiva, sicuramente non aveva familiarità né con i confini, né con i teleobiettivi. È stato un pioniere dello scatto a mano libera, delle lenti rapide, dei primi apparecchi tascabili. La sua era una poetica della presenza, oltre che della vicinanza. Così dimostra il suo straordinario ritratto a Suzanne Lenglen, la ‘Divina’ del tennis.

Il segno nello spazio che astrattamente divide il gioco dal restante complesso di faccende relative alla vita umana, nel tennis è particolarmente marcato.La rappresentazione della linea, laterale e trasversale, ha un senso quasi escatologico. Nel finale di Match Point, l’esitazione della pallina che rimbalza sul filo della rete racchiude in sé il destino di un’intera esistenza.

Mai nessun confine ludico è stato misurato con tale ossessione tecnica come nel tennis. A cominciare dal numero di giudici presenti in campo: cinque per lato, oltre il giudice di rete – l’omino che sommessamente nasconde la testa dietro il paletto, prima che il giocatore serva, con due dita sul nastro per sentirne il minimo tocco – e il giudice di sedia che supervisiona dall’alto.

Ancora: la ritualità del controllo del segno sui campi di terra battuta, e l’occhio allo sbuffo di gesso bianco per le linee di polvere sull’erba di Wimbledon. L’introduzione della tecnologia ha amplificato gli effetti di questo tipo di gestione delle regole. Il sensore elettronico del let sostituisce il giudice di rete. L’uso della chiamata sonora, nella stagione bum bum dei Becker, Ivanisevic e Sampras, accorcia i tempi di reazione degli arbitri di linea.

Alla fine arriva il trionfo dell’Hawk-Eye, versione grafica del dilemma tra IN e OUT, esasperato a una precisione millimetrica: uno stratagemma diabolicamente rivoluzionario, che ascrive la serietà come unica prerogativa possibile dell’arbitraggio di una partita di tennis. “You Cannot Be Serious” diventa un ricordo dei nostalgici.

C’è, in questo sistema di “isolamento” del campo, una certa atmosfera del sacro. In effetti la delimitazione, antropologicamente parlando, è la primissima caratteristica di ogni azione sacra. Formalmente tale funzione di delimitazione è assolutamente una e identica per un fine sacro o per un puro gioco. Scrive Huizinga in Homo Ludens: «L’ippodromo, il campo di tennis, il pallottoliere, la scacchiera funzionalmente non si differenziano dal tempio o dal cerchio magico».

Il segno nello spazio che astrattamente divide il gioco dal restante complesso di faccende relative alla vita umana, nel tennis è particolarmente marcato.La rappresentazione della linea, laterale e trasversale, ha un senso quasi escatologico. Nel finale di Match Point, l’esitazione della pallina che rimbalza sul filo della rete racchiude in sé il destino di un’intera esistenza.

Mai nessun confine ludico è stato misurato con tale ossessione tecnica come nel tennis. A cominciare dal numero di giudici presenti in campo: cinque per lato, oltre il giudice di rete – l’omino che sommessamente nasconde la testa dietro il paletto, prima che il giocatore serva, con due dita sul nastro per sentirne il minimo tocco – e il giudice di sedia che supervisiona dall’alto.

Ancora: la ritualità del controllo del segno sui campi di terra battuta, e l’occhio allo sbuffo di gesso bianco per le linee di polvere sull’erba di Wimbledon. L’introduzione della tecnologia ha amplificato gli effetti di questo tipo di gestione delle regole. Il sensore elettronico del let sostituisce il giudice di rete. L’uso della chiamata sonora, nella stagione bum bum dei Becker, Ivanisevic e Sampras, accorcia i tempi di reazione degli arbitri di linea.

Alla fine arriva il trionfo dell’Hawk-Eye, versione grafica del dilemma tra IN e OUT, esasperato a una precisione millimetrica: uno stratagemma diabolicamente rivoluzionario, che ascrive la serietà come unica prerogativa possibile dell’arbitraggio di una partita di tennis. “You Cannot Be Serious” diventa un ricordo dei nostalgici.

C’è, in questo sistema di “isolamento” del campo, una certa atmosfera del sacro. In effetti la delimitazione, antropologicamente parlando, è la primissima caratteristica di ogni azione sacra. Formalmente tale funzione di delimitazione è assolutamente una e identica per un fine sacro o per un puro gioco. Scrive Huizinga in Homo Ludens: «L’ippodromo, il campo di tennis, il pallottoliere, la scacchiera funzionalmente non si differenziano dal tempio o dal cerchio magico».

Il qui e l’adesso, l’hic et nunc, è la chiave dell’opera di Lartigue. Attraverso questa dedizione assoluta, traduce dal passato, fino ad oggi, nella sua intatta purezza, la divina essenza atletica di Suzanne Lenglen.

Leggermente spostata a destra della linea centrale del rettangolo di battuta, Lenglen sta giocando la sua volata di rovescio, ad almeno un metro da terra, il corpo interamente proteso in avanti, la racchetta in netto anticipo che cerca la giusta posizione per il controllo dell’impatto. Ma non è certo la plasticità il messaggio di questa fotografia. Almeno, non solo. Lartigue è dentro il campo. La focale normale descrive un’ambientazione privata, con la palizzata sullo sfondo che chiaramente ci situa su un campo di allenamento. Lartigue assiste quasi con un piede sulla linea esterna del corridoio, come un compagno di doppio. Ha una prospettiva appena abbassata. Forse è seduto.

Come spiegano bene i podcast di Denis Curti sulla recente retrospettiva alla Casa dei tre Oci a Venezia, Lartigue soltanto in tarda età ha cominciato a lavorare su commissione, almeno dopo la sua mostra al MoMA del 1963, curata da Richard Avedon. La sua produzione è stata invece interamente destinata a 126 album di famiglia, divisi per annualità, dal 1900 al 1986, oggi donati al Ministero della Cultura francese e pubblicati gratuitamente online.

Lartigue è, a sua volta, uno sportivo. Come ogni sportivo, sa bene che, se il limite oggettivo del suo gioco sono il campo e la regola, il limite soggettivo sono il corpo e l’attrezzo. Non è possibile paragonare Laver a Federer, da un punto di vista della performance sportiva, per la differenza tecnica delle rispettive attrezzature. Il valore assoluto di un atleta non può dipendere dallo strumento che le contingenze temporali gli consentono di utilizzare. Il messaggio di un atleta che scavalca il tempo, la sua opera migliore, per dirla in termini artistici, è l’uso che fa del suo corpo.

La fotografia della volata di Lenglen racconta il combattimento dell’atleta con i limiti del suo corpo, e del corpo con i limiti dell’attrezzatura che la tecnologia della sua epoca gli fornisce. Sentiamo epidermicamente, attraverso la sensibilità di Lartigue, il genere di costrizione di una pesante gonna di stoffa sopra un paio di calze bianche.

Per capire meglio, la British Pathé dedica un film a Lenglen, intitolato ‘How I play Tennis – by Mlle. Suzanne Lenglen’. Un’analisi in movimento della sua tecnica di gioco. Nella sequenza di immagini al rallentatore, Suzanne danza. Il film è muto, ma sembra di sentire ugualmente il frullare delle suole sul terreno, come in un video di Federer, o di Laver.

Lenglen non è mai ferma. Si solleva sulle punte dei piedi. Molleggia sulle ginocchia. Carica incessantemente la propria forza dinamica, come un elastico, per colpire in anticipo la palla, dice correttamente la didascalia del film Pathé. Per liberarsi dei limiti della sua racchetta, dei suoi abiti, del suo corpo, dice la fotografia di Lartigue.

La cultura sportiva della Belle Epoque francese, in Pierre de Coubertin rinnova lo spirito della tradizione agonistica classica, attraverso la scoperta archeologica delle rovine di Olimpia, e in Georges Hébert trova l’attuatore tecnico del moderno concetto di educazione fisica civile, come strumento di emancipazione femminile.

È la generazione che prepara le basi della rivoluzione intima della liberazione del corpo, così come la celebra nei suoi romanzi Henri-Pierre Roché, da cui Truffaut trarrà il suo capolavoro ‘Jules e Jim’. Immersa in tutta la sua eleganza in questo fervido humus culturale, Suzanne Lenglen disegna per sé i suoi abiti. Accorcia le sue gonne, inventa lo stile del futuro.

Lartigue che la fotografa, ha capito che non sta volando per sé stessa, ma per ogni donna prima e dopo di lei. La sua è una metafora del volo, il suo mito, come il volo della crisalide fuori dal suo involucro protettivo. È questo che la rende divina. Un uomo come Lartigue non può che renderle omaggio, con il suo personale bouquet di fiori.

Ernesto Tedeschi