Don Haskins, coach rivoluzionario

L’Orso delle panchine che piegò il razzismo e cambiò per sempre la pallacanestro
“Ricordo maree d’insulti. Ma qualunque cosa venisse urlata, era urlata a orecchie sorde”
Sembrò un’impresa impossibile, quella di coach Don Haskins. Un salto nel vuoto, un viaggio senza ritorno nel lato oscuro della pallacanestro americana.
Era bianco, Don Haskins, un bianco 35enne che della palla a spicchi aveva fatto la propria ragione di vita. Voleva allenare una squadra di Division I, voleva irrompere nel panorama del grande basket collegiale dopo aver osservato a lungo, troppo a lungo, giovani ragazze liceali danzare incerte sul parquet.
Per farlo, decise di scegliere un nutrito gruppo di giovani afroamericani, 7 per l’esattezza, contravvenendo alla più ferrea delle leggi non scritte.
Perché in quel basket, nel basket di metà anni ’60, i giocatori di colore erano rare, sparute presenze; perché in quel basket, nel basket di metà anni ’60, il credo comune voleva gli afroamericani alla stregua di fiere selvagge, impossibili da ammansire: circensi senza cervello, senza disciplina, adatti solamente allo screpolato asfalto dei playground.

“La gente diceva che non potevi mettere 5 giocatori neri in campo. Quando tu chiedevi il perché, loro rispondevano: perché sono neri. La gente diceva che non potevi mettere 5 giocatori neri in campo e pensare che uno di loro potesse guidarli da leader. Quando tu chiedevi il perché, loro rispondevano: perché sono neri. La gente diceva che non potevi mettere 5 giocatori neri in campo, quando la partita sarebbe arrivata al momento decisivo loro avrebbero mollato. Quando tu chiedevi il perché, loro rispondevano: perché sono neri”
Coach Haskins era finito a El Paso, in Texas, nel profondo e bollente Sud. Lì dove i cactus si alternano alla sabbia, lì dove la presenza messicana è profondamente tangibile, con Ciudad Juárez a poco più di un confine e un’occhiata di distanza.
Per compensare lo scarso appeal del programma di UTEP, il giovane allenatore decise di partire, insieme al fidato assistente, verso l’ignoto. Un vento rivoluzionario lo condusse di ghetto in ghetto, di campetto in campetto.
Sfrontato e anticonformista, Haskins iniziò una campagna di reclutamento nelle zone meno battute del Paese: piccole oasi a spicchi nelle più degradate aree metropolitane, palchi d’asfalto in cui, ad esibirsi, erano snobbate stelle dalla pelle sbagliata.
Harry Flournoy, Orsten Artis, Nevil Shed, Willie Cager, Willie Worsley, ‘Big Daddy’ David Lattin e il trascinatore Bobby Joe Hill. Dalle viscere dell’America più discriminata, Don Haskins estrasse un collettivo destinato a passare alla storia.
Ragazzi di Chicago, Detroit, New York e Houston vennero catapultati nell’arida El Paso, accompagnati dai due indigeni Palacio e Railey, e dai tre coetanei bianchi Myers, Boudin e Armstrong.

“Si tratta di cuore. Si tratta solamente di chi può uscire là fuori e giocare duro, più duro degli altri”
Le indicazioni dell’Orso delle panchine, ‘The Bear’, così soprannominato per la durezza delle sedute d’allenamento, furono subito chiare. I ’Miners’ dovevano forgiare il proprio gioco sull’intensità: una continua, inusitata, intensità.
In un’epoca segnata da difese a zona geometriche, da tele di passaggi statici e presenze fisiche limitate, Haskins convogliò l’estro e l’iperattività atletica dei suoi ‘selvaggi’ in un codificato inferno da parquet.

Guidati dal miglior marcatore della nazione Bobby Joe Hill, i ‘Miners’ di El Paso entrarono immediatamente in striscia, arrivando ad inanellare 23 gare vinte consecutivamente. Fu uno shock, fu una scalata inaccettabile non solo per il grande pubblico, ma anche per tanti addetti ai lavori.
Nelle calde palestre dell’America meridionale si ricrearono veri e propri scenari da guerra civile. Sui ‘negri’ di UTEP iniziarono a riversarsi ingiurie, sputi, intimidazioni. I ‘Miners’ vennero aggrediti fisicamente, vennero vessati moralmente, trovarono camere d’albergo imbrattate di sangue, lettere minaccianti morti atroci: la loro marcia cestistica si tramutò in una tanto dura, quanto sempre più significativa, lotta sociale.

“Una persona aveva il mio stesso colore del sangue, ma veniva trattata in modo diverso. Per lo stesso motivo, invece, per me è stato facile trattare tutti i giocatori allo stesso modo, indipendentemente da come apparivano”
Il 19 marzo 1966, al termine di una straripante cavalcata, i rinnegati di UTEP si ritrovarono catapultati nel più scintillante scenario della pallacanestro collegiale, con una finalissima NCAA da giocare contro i ‘Wildcats’ di Kentucky.
Sembrò il perfetto finale di una sceneggiatura cinematografica, quello andato in scena al Cole Fields House di College Park, nel Maryland.
Da una parte Haskins e la sua irrazionale banda di talentuosi afroamericani, dall’altra Adolph Rupp, generale di ferro legato ad una pallacanestro ‘pura’, bianca, e i suoi studenti modello dai capelli brillantinati.
Nell’insonne notte prepartita, coach Haskins prese l’ennesima decisione rivoluzionaria della sua giovane vita.
Ripensando ai costanti affronti subiti dai suoi giovani atleti afroamericani, stabilì che avrebbero giocato solo loro quella partita: solo quei ragazzi ritenuti poco più che animali, solo quei ragazzi, a detta dei più, incapaci di reggere la pressione, di maneggiare il lato mentale del Gioco.
Vinsero in 7, quei 7. Vinsero con 20 punti di Bobby Joe Hill, il playmaker che qualche mese prima aveva pensato di abbandonare la pallacanestro. Vinsero contro preconcetti e razzismo.
“Io non feci nulla di strano: schierai semplicemente i migliori giocatori della squadra. E risultò che erano tutti neri”
Fino alla sua morte, avvenuta a proprio a El Paso nel 2008, l’Orso delle panchine mantenne un atteggiamento umile, quasi distaccato, verso quanto avvenuto con i ‘Miners’ in quella storica stagione. Un pragmatismo che lo accompagnò per tutti i 38 anni vissuti da capo allenatore di UTEP.
È innegabile, però, che dopo quella notte del marzo ’66 coach Don Haskins divenne istantaneamente un simbolo.
Simbolo di un universo aperto e democratico, di universo destinato ad abbracciare grandezza, talento e merito, indipendentemente dalla razza.
Gianmarco Pacione
Sources & Credits
Photos sources: https://www.latimes.com/sports/la-me-haskins8-2008sep08-story.html https://www.deseret.com/2008/9/8/20273725/legendary-coach-haskins-dies https://stmuhistorymedia.org/don-haskins-and-his-1966-mighty-miners/ https://kisselpaso.com/utep-celebrates-the-50th-anniversary-of-the-1966-ncaa-championship-event-schedule/ http://www.espn.com/mens-college-basketball/photos/gallery/_/id/15059501/image/7/1966-texas-western-vs-kentucky-national-championship-game Video sources: https://www.youtube.com/watch?v=T3CDmd_5jjQ
https://www.youtube.com/watch?v=R9vqNL4dXBY
13 aprile 2021
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