Dire no alla guerra è un diritto di ogni atleta olimpico, e di ogni essere umano

L’ucraino Heraskevyč ha dimostrato l’enorme potenza dei messaggi olimpici e le incongruenze delle regole a cinque cerchi
“NO WAR IN UKRAINE”. Un foglio stampato, inserito in una banale busta di plastica. I colori ucraini usati per il font, la scritta posizionata tra un campo di grano e un cielo limpido.
Il grido di Vladyslav Heraskevyč è stato questione di un attimo, pochi secondi di semplicità per appellarsi all’umanità altrui, per lanciare un messaggio tanto silenzioso, quanto rumoroso.
Studente di Fisica, nato a Kiev nel 1999, Heraskevyč è il primo skeletonista nella storia sportiva del suo Paese, soprattutto è il primo atleta degli attuali Giochi Olimpici Invernali di Pechino a prendere apertamente posizione sulla situazione ucraino-russa.
Il suo gesto è arrivato nella notte di venerdì sul ghiaccio dello Yanqing National Sliding Centre, destando immediatamente le più disparate reazioni. L’aumentare delle condivisioni social e della risonanza globale è coinciso difatti con lo stridente atteggiamento del CIO, il Comitato Internazionale Olimpico.

I vertici a capo dei cinque cerchi hanno ammonito l’atleta ucraino, evitando la sua squalifica, ma lanciando segnali quantomeno ambigui, come testimoniato dalla conferenza stampa del portavoce Mark Adams: “Abbiamo subito parlato con l’equipe dell’atleta. Lui ha capito e nell’ultima discesa non ha ripetuto il gesto. Tutti noi vogliamo la pace, ma gli atleti stessi hanno concordato sul fatto che il podio e i momenti della gara non siano il luogo per lanciare certi messaggi, perché abbiamo bisogno di rimanere politicamente neutrali. Così il fatto di Heraskevyč non si è ripetuto, e ora andiamo avanti”.
Andiamo avanti. Suonano ciniche e vuote le parole di Adams, sicuramente antitetiche rispetto a quelle dello skeletonista ucraino, che pochi istanti dopo il proprio gesto si era detto speranzoso di trovare un appoggio nel gotha dirigenziale olimpico e che, invece, ha visto accettare con molte riserve e tacciare di slogan politico l’innocua richiesta di pace.
“È la mia posizione ed è la posizione di una qualsiasi persona normale che non vuole la guerra. Voglio la pace nel mio Paese e voglio la pace nel mondo. È la mia posizione, ripeto, e combatto per essa. Combatto per la pace”, ha commentato Heraskevyč, aggiungendo che “In Ucraina c’è grande nervosismo. Arrivano tante notizie riguardo armi e soldati nei pressi del Paese. Non va bene. Non nel ventunesimo secolo. Per questo ho deciso di rendere nota la mia posizione al mondo”.
Una posizione che è però risultata estremamente scomoda, archiviata rapidamente dal CIO con annessa richiesta, indirizzata alla delegazione ucraina, di non ripetere atti similari. Il messaggio di Heraskevyč cozzerebbe difatti con la Regola 50 della Carta Olimpica, secondo cui “alle atlete e agli atleti non è consentita la messa in atto in qualsiasi sito, sede o altre aree olimpiche, di nessun tipo di dimostrazione o propaganda politica, religiosa o razziale“.

Una regola controversa, per certi versi miope. In primis perché è impensabile ritenere lo sport un compartimento stagno, un universo incontaminato da fattori esterni, e le Olimpiadi, vetrina sportiva per eccellenza, sono da sempre un megafono potentissimo per battaglie e rivendicazioni sociali: dinamiche di cui Tommie Smith e John Carlos a Città del Messico ’68 restano manifesto eterno. In secondo luogo perché è altrettanto impensabile imbavagliare la libertà d’espressione di chi è essere umano, prima che atleta, a maggior ragione in un periodo storico-culturale che non vede più i professionisti dello sport come semplici macchine da sforzo, ma come figure pensanti a tutto tondo, a cui deve essere permessa la formulazione e la divulgazione di opinioni personali. Ma le incongruenze di questa regola non si limitano a questo, anzi, vengono evidenziate dall’Olimpiade pechinese attualmente in corso.
Suona quantomeno strano, difatti, che un atleta venga ammonito per una richiesta di pace e che, contemporaneamente, al governo cinese venga permesso (come riportato da Associated Press) di minacciare gli stessi atleti, imponendo loro di non fare menzione del sistematico abuso statale sul popolo Uyghurs, dei bollenti scenari di Tibet e Hong Kong, o dello spinoso caso della tennista Peng Shuai, misteriosamente scomparsa e riapparsa dopo le accuse di violenza sessuale rivolte all’ex vice ministro del Partito Comunista Zhang Gaoli. Suona quantomeno strano che si alzi un polverone su un ventenne skeletonista-studente-idealista, o che, meglio, si stenda un cupissimo velo sulle sue parole, quando Vladimir Putin sfrutta l’inaugurazione olimpica per stringere pubblici accordi con Xi Jinping, per lanciare chiarissimi segnali diplomatici durante quelli che da molti analisti sono stati bollati come i ‘Giochi della geopolitica’.
Incongruenze che deflagrano di fronte ad un foglio, ad una busta di plastica, alla semplice scritta “NO WAR IN UKRAINE”. Mentre migliaia di truppe russe si ammassano sul confine ucraino, Vladyslav Heraskevyč ha dimostrato che dire no alla guerra è un diritto di ogni atleta olimpico, così come di ogni essere umano; ha dimostrato che dire no alla guerra rappresenta ben più di un messaggio politico da bannare o silenziare in nome di un fallace regolamento. Ha dimostrato che non deve esistere bavaglio alla volontà di pace, nello sport così come nella società contemporanea.
Testo di Gianmarco Pacione
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