Daryl Homer, oltre la pedana

“Le vere icone sono persone come Muhammad Ali, John Carlos e Peter Westbrook. Cosa sceglierei tra la mia medaglia olimpica e la condizione di essere umano e la possibilità d’ispirare gli altri? Sceglierei sempre il secondo scenario. Da giovane, probabilmente, avrei detto il contrario, ma la scherma mi ha cambiato. Mi ha permesso di viaggiare in tutto il mondo, cosa che per un ragazzo del Bronx era inimmaginabile, mi ha fatto scoprire zone della mia personalità che sarebbero rimaste inesplorate, mi ha fornito una visione complessiva molto più ricca e ampia: soprattutto mi ha fatto riflettere su cosa avrei potuto fare per essere una persona migliore e avere un impatto positivo sulle vite altrui”


La pedana di Daryl Homer non è fatta solo di attacchi e stoccate, di lavoro di piedi e linee vorticose, di medaglie olimpiche e internazionali. Nelle mani di questo nativo delle Isole Vergini cresciuto a New York, la sciabola lungo gli anni si è trasformata in uno strumento ben più potente di una semplice arma sportiva, divenendo una chiave d’accesso. Differenze culturali, leggi di marketing, estetica visuale e impegno sociale sono solo alcune delle porte che l’affilato passepartout di questo schermidore è riuscito ad aprire, o meglio, a toccare con le proprie stoccate. Stoccate che non valgono podi sportivi, ma podi umani. Stoccate che Daryl ha imparato a riconoscere presto, a 11 anni per l’esattezza, quando ha cominciato ad ascoltare e assorbire le virtuose parole del maestro Peter Westbrook, storico bronzo a Los Angeles 1984 e icona afroamericana (primo schermidore nero a raggiungere questo risultato).


“Un giorno ho visto una pubblicità dedicata alle potenziali Olimpiadi di New York del 2004: uno dei protagonisti era uno schermidore di colore, Peter Westbrook, in posizione di guardia. La sua figura mi ha affascinato immediatamente, così ho chiesto a mia madre dove potessi praticare quello sport. Dapprima lei era dubbiosa, non pensava che ad Harlem ci potesse essere un academy di scherma, ma dopo aver consultato le Pagine Gialle ha scoperto che proprio Peter Westbrook aveva deciso di aprire un club nel quartiere. La settimana successiva ho iniziato. Peter è diventato immediatamente un mentore per me e vincere una medaglia a Rio 2016, come primo afroamericano dopo di lui, è stato il coronamento del nostro rapporto umano: è stata un’esperienza che ha sublimato la nostra connessione. Oggi insieme a Peter provo ad essere un mentore per i tanti giovani della sua Fondazione, provo a insegnare loro come si può essere sia atleti, che esseri umani a cinque cerchi. Condividiamo tutto con questi ragazzi e dimostriamo loro che la scherma non è uno sport limitato alle classi più agiate della società. Ecco perché ho deciso di continuare a vivere ad Harlem, per restare vicino alla mia comunità, per unirla, per essere un esempio quotidiano. Questa nobile arte sportiva, ricca di storia e bellezza, deve essere resa accessibile a tutti”

Il cambiamento, però, necessita di role model. E i role model necessitano di piattaforme efficaci. Daryl è riuscito a costruire la propria piattaforma grazie al palmares, certo, ma anche grazie all’attenta e raffinata costruzione del branding personale. Dopo una laurea in Advertising Communication conseguita a St. John’s University, lo schermidore di Harlem ha deciso d’intervallare gli allenamenti con l’apprendimento del marketing contemporaneo, provando addirittura un’esperienza all’interno di una company specializzata nel settore. Grazie a questa sensibilità, Daryl ha penetrato l’universo della moda, diventando testimonial per svariati brand e aziende, costruendo una fruttuosa carriera parallela.
“Ho sempre apprezzato lo storytelling. Penso che il terreno comune tra atleta, azienda, prodotto e community sia estremamente fertile e l’ho voluto esplorare con consapevolezza. Quando ero a scuola, avevo un compagno di stanza e di squadra che era vicino all’ambito del marketing: suo padre dirigeva un’agenzia a Madrid. Insieme guardavamo la serie tv Mad Men, all’epoca era molto famosa, e quel programma mi ha ispirato a proseguire su questo percorso. Ho iniziato ad informarmi, a riflettere su come volessi mostrarmi ed essere percepito, sia da un punto di vista visuale che artistico. Una delle grandi differenze tra il sistema sportivo americano e quello, per esempio, europeo, è che gli atleti olimpici USA non percepiscono sussidi economici e non possono impegnarsi full time nel raggiungere podi e medaglie olimpiche. Anche per questo motivo ho deciso di lavorare per un periodo della mia vita. Mi allenavo la mattina e la sera, era difficile, ma sapevo d’imparare cose importantissime che oggi mi permettono di vivere una bella vita e di collaborare con brand come Toyota, Lululemon, Nike e Polo Ralph Lauren”

Il background di Daryl oggi si sviluppa nella connessione con big companies mondiali, ma anche in una curiosità perpetua, dimostrata dalla voglia di catturare istanti on the road con la sua Fujifilm x100v, dall’amore per l’arte e dall’apprendimento della lingua francese. Frammenti che Daryl colleziona e sviluppa insieme al costante impegno sociale riflesso tanto sul quartiere di Harlem, quanto sul continente africano. Tutte diramazioni di un commitment eterogeneo e virtuoso che, però, mai smette di essere focalizzato sul risultato primario: la conferma e l’eventuale miglioramento dell’eccezionale argento olimpico conquistato sulle pedane di Rio 2016.
“Sono curioso, amo espandere la mente, esplorare me stesso e ciò che mi circonda. Cerco di estrapolare il più possibile dai professionisti che incrocio. Da Anthony Geathers (protagonista di un nostro Behind the Lights), per esempio, ho imparato l’importanza di avere un proprio punto di vista e di essere autentico. Figure come Anthony mi mostrano la via per raggiungere il massimo, per spingermi sempre oltre. Ora il mio obiettivo principale è performare al meglio nelle olimpiadi parigine del 2024, certo, ma anche molto altro, come espandere le mie piattaforme e raccontare meglio il mio viaggio. Poi voglio avere un impatto sulle persone. Negli ultimi anni mi è capitato di collaborare con l’ONU, ma ho anche dato molta importanza all’Africa. Ho insegnato scherma in Senegal e Zambia, in generale sfrutto ogni possibilità di andare oltreoceano, specialmente nei Paesi della diaspora africana. È fantastico aiutare quei bambini, così come i bambini newyorchesi. E questo vale molto più di una medaglia”
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