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Dall’Italrugby alle ambulanze, Maxime Mbandà

L’intervista al rugbista Azzurro impegnato in prima linea nella lotta al coronavirus

La voce di Maxime Mbandà è quella di un uomo, di un ragazzo pienamente consapevole di fare la cosa giusta. Ci risponde da Parma, fiero e ancora elettrizzato dalle responsabilità derivanti da oltre dieci ore di turno. La sua è una testimonianza forte, assolutamente non convenzionale, soprattutto ispiratrice.

Maxime ha deciso di combattere l’emergenza coronavirus scendendo in campo, anzi, sarebbe più consono dire buttandosi nella mischia. Una scelta coraggiosa, quella del 26enne flanker delle Zebre e della Nazionale italiana, un’enorme dichiarazione di responsabilità civile e di umanità.

Ci siamo fatti raccontare la genesi e l’evoluzione di questa forte presa di posizione, abbiamo ragionato su come, oggi, si possa essere eroi partendo dalle azioni più semplici: piccoli grandi aiuti, piccole grandi scintille di generosità, fondamentali per superare questo momento buio e tragico.

Com’è nata l’idea di salire su un’ambulanza?

Ero in ritiro con la Nazionale a Roma, dove stavamo preparando la partita del Sei Nazioni contro l’Inghilterra. Quando è arrivata la comunicazione della sospensione delle attività, mi sono subito messo a riflettere: ho pensato a tutti gli anziani costretti a restare a casa, mi sono domandato chi pensasse a loro, chi provvedesse alle loro necessità.

Così ho chiamato la SEIRS, Croce Gialla di Parma, proponendomi per dare una mano. Sai, la mia idea era quella di mettere al servizio di tutti la mia forza fisica, la mia energia, potevo essere una risorsa importante nel trasporto di sacchi pesanti.

Già dal secondo giorno di servizio è cambiato tutto, mi hanno detto di vestirmi, di bardarmi adeguatamente e mi hanno spostato sulle ambulanze adibite al trasporto di persone. Dai beni di prima necessità, quindi, sono passato a prendermi cura dei pazienti: per le barelle bisogna sforzarsi ancora di più fisicamente, soprattutto nella parte vecchia di Parma, dove in pratica non ci sono ascensori.

Come si struttura adesso la tua giornata?

Da più di due settimane sono impegnato in 12-13 ore di servizio giornaliero. I nostri servizi si concentrano sul dimettere persone che possono continuare la quarantena a casa e sul trasferimento, tra i vari ospedali, di pazienti colpiti dal virus. Nella provincia di Parma ci sono tre strutture ricettive, il nostro lavoro è quello di garantire un “equilibrio” interno a questi poli, evitare che uno si riempia eccessivamente e che un’altro, magari, abbia degli spazi vuoti.

Principalmente desideriamo dare tranquillità ai medici, evitare di vederli affrontare un numero eccessivo di casi. Loro stanno facendo qualcosa di straordinario, difficile da comprendere per chi non può vederli, sono costantemente sotto pressione, costantemente sopra ritmo: degli eroi.

Come affronti la paura in un contesto così assurdo, così surreale?

La paura credo sia una normale compagna di viaggio in questo momento. Giornalmente ci si scontra con un nemico invisibile: siamo quasi sempre costretti a entrare nel reparto di malattie infettive, in quel contesto sai che il virus potrebbe essere ovunque, in qualche modo lo percepisci.

Detto questo, a mitigare le paure ci pensano il buonsenso, la consapevolezza di fare del bene e l’obiettivo di aiutare il più efficacemente possibile. Noi, poi, siamo tutelati, abbiamo tutte le protezioni di sorta, siamo difesi.

Durante queste giornate piene e provanti, trovi anche uno spazio per poterti allenare?

Assolutamente sì, sono uno sportivo professionista, è il mio lavoro e non lo posso dimenticare. La mattina presto e la sera tardi, prima e dopo il turno, svolgo tutti i compiti che i preparatori atletici e gli allenatori ci hanno assegnato per questo periodo di quarantena. Mi alterno tra circuiti condizionanti, che faccio nel mio garage, e visione di filmati delle vecchie partite.

A volte sono stanco, è fisiologico, ma non posso lasciarmi alle spalle la componente sportiva, lo devo a tutte quelle persone che hanno capito e appoggiato la mia attuale scelta di vita. Società e staff sono sempre stati al mio fianco, sostenendomi pienamente nonostante i pericoli che avrei corso. Hanno capito che il mio desiderio di aiutare era intenso: era qualcosa che dovevo fare.

Come potrebbero impegnarsi socialmente gli altri sportivi di grande livello in questo momento?

Basta che esplorino tutte le vie della sensibilizzazione: che sia trovare nuovi fondi per gli ospedali, per la ricerca, che siano semplici video che stimolino le persone a casa, anche solo per aiutarle a dimenticare le costrizioni di questo periodo.

In generale, però, consiglio vivamente a tutti i giovani di fare un passo avanti, anche a chi nutre timore. Ci sono tanti modi per dare una mano alle varie Croci e alla Protezione Civile, contattate questi enti, con un piccolo gesto potrete diminuire considerevolmente l’enorme mole di lavoro di questi mesi.

Che speranze nutri per il prossimo futuro?

Ovviamente spero di ritornare alla normalità, di ricominciare il campionato: lo spero per un solo motivo, perché vorrà dire che questo incubo sarà definitivamente finito.

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