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Il talento sprecato di Claudio Borghi

Platini lo definì il ‘Picasso del calcio’, lui in Italia fallì. La storia del re della rabona

Quel giorno, a Tokio, Claudio Borghi sembrava camminare sulle acque. Era la finale di Coppa Intercontinentale. Con l’Argentinos Juniors affrontava la Juventus di Michel Platini. Dopo la partita, le Roi di lui disse che era il Picasso del calcio. Eppure aveva perso, Borghi, la sua squadra era stata sconfitta ai rigori dai bianconeri. Alla fine dei tempi supplementari, la partita si era chiusa sul 2-2. Era l’8 dicembre del 1985.

Claudio, el Bichi, aveva incantato. Erano tempi in cui la globalizzazione era lontana, figuriamoci la rivoluzione web che porta in un attimo all’attenzione del mondo fatti e personaggi. Per questo, chi vide Borghi in Giappone sbalordì. Certo, si era sentito parlare di lui, di questo ragazzo che giocava con finezza sublime, che vedeva autostrade dove per altri c’erano soltanto sentieri. Deliziava il pubblico a suon di rabone, crossando con il piede destro che ruotava dietro il sinistro, che non sapeva usare. Veniva da una famiglia umile, era mormone osservante. In campo, non c’era nulla che non gli riuscisse. In avanti, da punta pura, da regista offensivo, da trequartista, trovava sempre il colpo di magia.

La finale con la Juventus fu trasmessa in Italia e commentata, come spalla tecnica di Giuseppe Albertini, storico telecronista, da Roberto Bettega, che di Madama era stato un simbolo. A ogni giocata di Borghi, Bettega usava parole di incredula ammirazione. La gara andò in onda su Canale 5, il cui proprietario, vedendo Claudio, decise che l’avrebbe voluto nella squadra per cui tifava. Pochi mesi dopo Argentinos Juniors-Juve, Silvio Berlusconi comprò il Milan e ripensò a quanto aveva visto fare a Borghi a Tokio, sull’emittente di punta del suo gruppo editoriale. Decise che non poteva non portarlo in rossonero. E fu quello che accadde nell’estate del 1987.

Stava arrivando la rivoluzione. Il calcio italiano non sarebbe più stato quello di prima. Quell’uomo minuto, calvo, che Berlusconi aveva voluto alla guida del Milan, ingaggiandolo dal Parma, che allora navigava a metà classifica in Serie B, aveva delle idee visionarie. Veniva da Fusignano, un paese in provincia di Ravenna. L’accento romagnolo infilato nelle frasi che scivolavano via puntuali quanto gli schemi che richiedeva venissero applicati dai giocatori che dirigeva con precisione scientifica. Essere trenta centimetri più in là rispetto alla zona in cui ti dovevi collocare non era tollerabile. Ogni movimento era un meccanismo, non esisteva lo spazio per l’improvvisazione. Era Arrigo Sacchi, quello spartachista con pochi capelli e tante ferree convinzioni. Troppe, per Claudio Borghi.

Il suo estro non poteva essere inscatolato in un metro quadro. Aveva bisogno di esprimersi senza l’obbligo di fare. Essere, non dover essere. Prima di Sacchi, aveva dimostrato di poterci riuscire anche in Europa. Il Mundialito del 1987, kermesse organizzata alla fine di giugno, girone all’italiana con il Milan, l’Inter, il Porto, il Barcellona e il Paris Saint-Germain. Una scampagnata di fine stagione, per molti. Per qualcuno, uno spettacolo da gustare. Di sicuro, un appuntamento televisivo, ovviamente acquistato, prodotto e trasmesso da Canale 5. Borghi sarebbe stato una delle attrattive principali: messo sotto contratto dal Milan, sarebbe stato girato in prestito al Como. Così aveva deciso Berlusconi, benché ci fosse stato anche l’interessamento della Sampdoria. Che, però, era considerata, a ragion veduta, una concorrente nella fascia alta del successivo campionato di Serie A. Quello in cui avrebbe giocato Borghi, in attesa di tornare in rossonero.

Vinse il premio di miglior calciatore del torneo, Claudio. Un gol fatto, contro il Porto, assist, numeri, tanta classe per far sognare il pubblico di San Siro, lo stadio che ospitò per intero la manifestazione. Il Milan vinse tre partite su quattro, pareggiando il derby con l’Inter. Poteva essere un inizio, invece fu una fine. A Como non funzionò nulla per Borghi. La squadra era in lotta per la salvezza e non c’era spazio per troppi colpi d’estro. Per restare in A occorreva senso pratico. Niente fronzoli. Per questo, el Bichi si ritrovò presto ai margini, poco o nulla impiegato dai due tecnici che si avvicendarono in panchina, Aldo Agroppi e Tarcisio Burgnich.

Borghi sarebbe rientrato dalla porta secondaria al Milan, lanciato verso la clamorosa rimonta sul Napoli di Diego Armando Maradona che l’avrebbe condotto allo scudetto. Fu il trionfo di Sacchi, che aveva già messo da parte Claudio, troppo scostante rispetto al tenore e all’impronta degli allenamenti. Certo, poi c’era Berlusconi, che non ne voleva sapere di vedersi sfuggire quel talento che gli aveva preso lo sguardo nella partita di Tokio e che sarebbe stato, nei suoi programmi, il fiore all’occhiello di un nuovo Milan, fantasioso, sempre all’attacco, geniale. La risposta naturale a Maradona. Ma Berlusconi aveva anche salvato Sacchi dall’esonero, dopo un avvio titubante in campionato e l’eliminazione subita in Coppa Uefa con l’Español. In tanti reclamavano la testa dell’allenatore, il patron gli disse di andare avanti. E Sacchi, poi, aveva già deciso chi sarebbe stato il terzo straniero da aggiungere alla rosa, nel campionato seguente. Già contava su due fuoriclasse olandesi, Ruud Gullit e Marco Van Basten. Ne voleva un terzo: Franklin Rijkaard. Non gli interessava Borghi, che era poco più di un gingillo nel suo calcio atletico, basato su un pressing a ritmi furiosi. Se il Milan avesse vinto lo scudetto, Sacchi sarebbe stato accontentato.

L’1 maggio del 1988 il Milan batté in trasferta il Napoli per 3-2. Fu una partita sontuosa, che segnò il sorpasso in classifica. Il titolo giunse due settimane più tardi. Borghi capì: era ora di andare. Sacchi ottenne l’ingaggio di Rijkaard e diede il via a un ciclo leggendario, conquistando tutto quel che c’era in ambito internazionale e aprendo una scuola tattica che ribaltò il mondo del pallone.

Claudio, dopo il parcheggio in Svizzera, al Neuchâtel Xamax, riprese il volo per il Sudamerica, dove girovagò a lungo, tra la sua Argentina, il Brasile e il Cile. Il suo estro si era appannato. Rispuntò nel passaggio al Colo Colo, per stagioni fugaci. Il lascito di Sacchi aveva già invaso il pianeta pallonaro. Borghi, che non aveva mai fatto mistero della propria avversione ai metodi del santone di Fusignano, al punto da chiedergli, durante un allenamento a Milanello, perché si dovesse correre per 5000 metri se un campo da calcio è di 100, divenne pure lui un allenatore. E non mancò di avere successo, in particolare proprio al Colo Colo. Gli addetti ai lavori cileni lo accostarono, per il modo in cui faceva giocare la squadra, indovinate un po’ a chi? Sì, ad Arrigo Sacchi.

A distanza di anni, Borghi ha riconosciuto che le ragioni, nel suo transito al Milan, erano del tecnico, e non sue. Il calcio, e non solo, è pieno di storie di talenti sprecati. Eppure la colpa del Bichi, più semplicemente, è stata quella di trovarsi al posto giusto nel momento sbagliato.

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