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C’era una volta il Dream Team

È lontano, seppure vivido, il ricordo del Dream Team, la leggendaria squadra di basket americana che ha ispirato un’intera generazione. Oggi il peso del business sembra aver preso il sopravvento sulla magia del gioco.
Sarà forse questo il motivo per cui Lebron James, James Harden e altri fuoriclasse d’oltreoceano hanno rifiutato di far parte del roster per i Mondiali in Cina?

Il Dream Team non esiste più. E non tanto (né solo) perché gli Stati Uniti abbiano perso la loro prima partita dopo tredici anni, sconfitti nel test pre-mondiale di Melbourne con l’Australia. Semplicemente, il fascino di qualcosa che ha segnato la storia dello sport è lontano, come il ricordo di una bellissima serie tv degli anni ’90, di quelle che incollavano grandi e piccoli davanti allo schermo, prima di Netflix e tutta la grazia di oggi. Né è una questione di campioni in senso stretto. Certo, pensare a quel che fu la nazionale USA a Barcellona ’92 – e, in forma diversa, in quanto non inedita, ad Atlanta ’96 – fa venire i lacrimoni, ma non è che adesso sia divenuto impossibile riempire il roster di grandi nomi. LeBron James, Kawhi Leonard, Steph Curry, ma anche James Harden e Anthony Davis sono, nell’immaginario della nuova voga del basket NBA, quel che furono Michael Jordan, Larry Bird, Scottie Pippen, Magic Johnson e tutti gli altri. Paragone improponibile, diranno gli scettici, e non c’è dubbio che il Dream Team per eccellenza sia stato, è e sarà un altro. Considerate, però, il passare del tempo e le mutazioni del gioco nella Lega dei professionisti. D’accordo, mai come allora, ma adesso LBJ o il Barba neanche ci pensano ad entrare nel Team USA. I motivi? Forse è finita la poesia. Forse, come d’abitudine d’America, business took it all.

Per capirci, serve elencare i nomi di chi parteciperà al Mondiale cinese: Harrison Barnes, Jaylen Brown, Joe Harris, Brook Lopez, Khris Middleton, Donovan Mitchell, Mason Plumlee, Marcus Smart, Jayson Tatum, Myles Turner, Kemba Walker, e Derrick White. Bene, ma non benissimo. Dopo il tonfo al Marvel Stadium con l’Australia, Davide Chinellato ha scritto su “La Gazzetta dello Sport”: “Pop per la sua prima avventura da c.t. si aspettava una risposta diversa dalle star NBA (…). SI ritrova con Kemba Walker come unico All-NBA nel roster. E con Harrison Barnes unico reduce dalla spedizione d’oro ai Giochi di Rio 2016”. Le stelle, volendo citare il titolo del più celebre libro di A.J. Cronin, stanno a guardare. Il fatto è che il Dream Team è nato (anche) come straordinario veicolo commerciale per la NBA, che non era quella di oggi, vista ovunque a tutte le ore, proposta sui canali tematici di ogni continente, internazionalizzata, emblema dello sport globale, sempre connessa attraverso molteplici canali social. Non che fosse una nicchia, all’epoca di Barcellona, perché il Be like Mike” targato Gatorade era già nato, le Air Jordan erano il sogno per nulla recondito degli adolescenti, Bird e Magic erano delle icone riconosciute, Pippen, Barkley, Ewing e Robinson rappresentavano dei modelli d’ispirazione. Gli strumenti di marketing erano in fase di espansione, ma un confronto con la nostra età cibernetica non si pone neppure. Il Dream Team serviva alla NBA (che, per promuoversi, già alla fine degli anni ’80 aveva ideato il McDonald’s Open, torneo che si disputava in Europa, in pre-season, con la partecipazione di una franchigia: in Italia, arrivò per la prima volta nel 1989, al PalaEur di Roma, con i Denver Nuggets che vinsero, tra più di qualche difficoltà, con la mitica Jugoplastika Spalato di Toni Kukoc e Dino Radja) per diffonderne il richiamo, attrarre sempre più sponsor, estendere la macchina dei dollari fino a renderla in funzione ininterrottamente. La Squadra da Sogno, quella composta dai più noti, spettacolari e amati fuoriclasse della NBA, era il brand cui nessuno poteva dire di no. Al contrario di quanto accade oggi.

Per questo diventa stucchevole persino parlare di Dream Team. Sia chiaro: gli USA sono pur sempre un gruppo formidabile, ma molti dei big che illustrano la National Basketball Association, adesso, vengono da altri Paesi, che potranno competere con legittime ambizioni per togliere l’oro cinese alla squadra di Popovich (il cui staff, composto da Steve Kerr, Lloyd Pierce e Jay Wright, sì che è stellare). La Grecia di Giannis Antetokounmpo, il Lestrigone che si è preso Milwaukee, condotta nell’ultima stagione alle Finals di East Conference, perse con i Toronto Raptors che in seguito hanno strappato l’anello a Golden State, vanta pieno credito per essere l’anti-USA. Attenzione, perché l’ultima sconfitta degli Stati Uniti, prima di quella incassata a Melbourne, fu proprio con i greci, al Mondiale del 2006, in Giappone: 101-95, nella gran giornata di Vassilis Spanoulis, 22 punti per cancellare le Stars and Stripes, in semifinale, prima di perdere, senza mai vedere palla, all’ultimo atto, con la Spagna dei fratelli Gasol e di Jorge Garbajosa, idolo di una grande – e non ancora crepuscolare – Benetton Treviso. Ancor di più, di certezze, ne ha la Serbia di Sale Djordjevic: Bogdan Bogdanovic, Nikola Jokic e Nemanja Bjelica sono i piatti pregiati del menù, ma la lista dei campioni a disposizione del coach (anche) della Virtus Bologna è ampia qualificata, benché Milos Teodosic e Dragan Milosavljevic si siano fermati a causa degli infortuni. Se hai gente come Stefan Jovic, Boban Marjanovic, Nikola Milutinov, Vasilije Milic, tutti capaci di rendere irresistibile ogni rotazione sia programmata, non puoi temere gli States. La Spagna di Sergio Scariolo, assistente di Nick Nurse nel trionfo dei Raptors, ha sempre Marc Gasol (non Pau), e dopo Ricky Rubio e il resto di una compagnia di giro che ha perso il test match con gli USA per 90-81, ma ha confermato di essere più di una semplice outsider. Il lavoro da fare per vincere, per Popovich, non sarà un letto di rose o una crociera di piacere. Il Team è rimasto, il Dream se n’è andato.

Matteo Fontana

Sources & Credits

20 agosto 2019

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