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Carl Lewis, il figlio del vento

Los Angeles, 1984. Lewis conquista 4 ori e un posto nella leggenda

Il vero 1984 era diverso da quello distopico narrato da George Orwell, eppure in qualcosa gli somigliava. Fu lo sport il campo in cui si espressero le contraddizioni dell’epoca. Era l’anno delle Olimpiadi, che si sarebbero tenute a Los Angeles.

Tempi di blocchi contrapposti, USA contro URSS, la guerra fredda così lontana e così vicina. Nel 1980 i Giochi si erano svolti a Mosca e gli Stati Uniti li boicottarono, in contrasto per l’invasione sovietica dell’Afghanistan. L’edizione successiva, su suolo americano, vide la “rappresaglia” del Cremlino: nessun Paese del Comecon vi avrebbe partecipato.

Delle nazioni cosiddette “d’oltre cortina”, in California si presentò soltanto la Romania, isolazionista e comandata dal tirannico Nicolae Ceausescu. Nonostante il quadro fosco che le anticiparono, quelle di L.A. furono delle Olimpiadi emozionanti e piene di grandi imprese, rimaste scritte nei libri di storia.

La più imponente la firmò un ragazzo venuto dall’Alabama. Lui, nero nato e cresciuto in uno stato segregazionista, avrebbe ripetuto quanto fatto a Berlino, nella Germania hitleriana, da un altro campione dell’Alabama, Jesse Owens. Frederick Carlton, più semplicemente Carl, Lewis, vinse quattro medaglie d’oro olimpiche: questa è la storia del “figlio del vento”.

Lo aspettavano tutti. Nei giorni (anzi, nei mesi) che anticiparono la rassegna losangelina, la stampa e gli esperti di atletica avevano già  lanciato una sorta di “OPA” sul record di Owens. Lewis avrebbe replicato i formidabili successi ottenuti nel 1936 dal suo conterraneo. Era un segno del destino, sollecitato da quanto fatto da Carl ai Mondiali di Helsinki del 1983. Allora, ventiduenne, aveva conquistato tre ori: 100 metri, 4×100 e salto in lungo. Fu in quel momento che il pianeta scoprì questo meraviglioso fuoriclasse, un’eterea scultura che rinviava gli almanacchisti a Owens.

Avrebbe dovuto partecipare, un Lewis teenager, all’Olimpiade di Mosca. Il boicottaggio gliel’aveva impedito. In Finlandia in tanti poterono toccare con mano e vedere con i propri occhi quel miracolo della meccanica muscolare, con la falcata folgorante, il balzo felino e rapace, il talento naturale trasmesso nel genoma da papà  William e mamma Evelyn, entrambi atleti, in Alabama. Carl prese confidenza con lo sport fin da piccolo. I genitori non potevano permettersi la baby-sitter, così lo portavano con sé nel Club che gestivano. Un club in cui, ça va sans dire, la specialità  insegnata era l’atletica leggera. Così, mentre William ed Evelyn allenavano, il piccolo Carl faceva i primi atterraggi nella fossa sabbiosa del salto in lungo. C’è sempre un senso di predestinazione, nella grandezza di un campione. 

L’Olimpiade di Los Angeles, nonostante l’assenza dell’Unione Sovietica e dei suoi alleati, si rivelerà  un trionfo per seguito e interesse. Nel 1984, il Grande Fratello orwelliano ha le sembianze della televisione, che nel pieno di anni di espansione economica è lo strumento che fa da precursore al globalismo, di là  da venire sul piano delle connessioni commerciali e di consumo (il muro di Berlino è saldamente al proprio posto e ci resterà  fino al 1989) ma già  più prossimo di quanto si possa immaginare in termini di costumi. Le immagini diffuse via satellite dalla California hanno un impatto fortissimo.

Carl Lewis, di quei Giochi, è il re, un sovrano che non si fa schiacciare dall’enorme pressione che grava su di lui, bensì sprigiona tutta la portentosa potenza di cui è capace. Vince i 100 metri in 9″99′, il 4 agosto e i 200 in 19″80′ (nuovo record olimpico) l’8. Il 6 agosto si è preso l’oro del lungo, saltando 8 metri e 54 centimetri, con un chiaro margine di distacco sul secondo piazzato, l’australiano Gary Honey, che arriva a 8 e 24. Resta un’ultima medaglia da cogliere per eguagliare Owens: quella della 4×100, la staffetta che è in programma il 10 agosto con le eliminatorie e il giorno dopo con la finale. L’attesa è un fiume in piena, incentrata su Lewis. Gli Stati Uniti sono favoritissimi. Della batteria USA, con Carl, fanno parte Sam Graddy, Ron Brown e Calvin Smith, che correranno in quest’ordine le frazioni. A chiudere sarà Lewis che, quando riceve il testimone da Smith, è un proiettile sparato sul tartan del Memorial Coliseum, lo stadio che ospita le gare di atletica a Los Angeles. Calvin, nel preciso momento in cui gli passa la consegna, con Carl che è già  schizzato in avanti a velocità  impetuosa, indica in avanti, accenna con la mano la linea del traguardo. Lewis scava un solco di molti metri sul primo inseguitore, il giamaicano Ray Stewart. Il tempo finale per gli statunitensi è pari a 37″83′: è il record del mondo. Se si cercava un happy ending ad effetto, nulla poteva essere più adatto al caso.

Mentre Carl e suoi compagni festeggiano la vittoria, mentre tutta la stampa presente già  distribuisce a ritmo battente le proprie corrispondenze video, radio e scritte, a gioire per il bronzo è la batteria canadese. Ad aprirla è Ben Johnson, nato in Giamaica e poi trasferitosi con i genitori in Nord America. Un velocista dalla detonante muscolarità, diversa per non dire opposta a quella di Lewis. Johnson è di una vigoria da truppe d’assalto, mentre Carl è il disegno di un artista neoclassico. Presto il loro confronto diventerà una sfida che, per Johnson, sarà senza regole. Questa, però, è un’altra vicenda.

Intanto, siamo ancora a Los Angeles, è l’11 agosto del 1984. Dall’altra parte del mondo si registrano duri scontri in Irlanda del Nord, con le sei contee che bruciano tra barricate e bombe incendiarie, nel pieno delle lotte per l’indipendenza dell’Ulster dal Regno Unito. Per l’esodo vacanziero di Ferragosto, si stima che gli italiani spenderanno circa 400 miliardi. Il gelo tra Washington e Mosca continua, al di là  del boicottaggio olimpico, con il leader sovietico Konstantin Cernienko che scrive al premio Nobel per la pace Sean McBride per denunciare la mancanza di volontà  dell’amministrazione USA, con il presidente Ronald Reagan, di negoziare per il disarmo. Le Borse sono euforiche per l’ascesa del valore dell’oro, favorita dalla ripresa della Guerra del Golfo tra Iran e Iraq che ha condotto all’aumento del prezzo del petrolio, mentre i tassi d’interesse sono in ribasso, il costo del denaro è calato e il dollaro è in poderosa crescita. Ma tutto questo non c’entra niente con Carl Lewis, o forse sì, ma è bello che sia così, anche se trentacinque anni sono passati troppo in fretta.

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