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Sii come l’acqua. Sii come Bruce Lee

Il filosofo della violenza che, con le sue mosse, cambiò le arti marziali, il cinema e la società intera

“Se cerchi di ricordare, perderai. Svuota la mente. Sii senza forma, senza limiti, come l’acqua, metti l’acqua in un bicchiere, diventa bicchiere, mettila in una bottiglia, diventa bottiglia, metti l’acqua in una teiera, diventa teiera, l’acqua può scorrere a fiumi o a rigagnoli, gocciolare o precipitare. Sii acqua amico mio”

Aveva solo 17 anni, Bruce Lee, quando comprese la più trascendentale e materiale delle verità. Aveva 17 anni e sfiorava le calme acque di un solitario giunco portuale. Si trovava abbandonato ad una flebile corrente, a poche remate da Victoria, fulcro governativo della densa Hong Kong.

Colpiva l’acqua e rifletteva. Negli irregolari cerchi creati dalle sue mani vedeva rispecchiarsi un volto che avrebbe segnato la storia delle arti marziali, del cinema, della cultura popolare. Ma questo, il ‘Piccolo Drago’ poteva solo intuirlo, fantasticarlo.

Nella morbida planata di un uccello, invece, assisteva alla materializzazione della propria epifania intellettiva e sensoriale. Vedeva la Natura prendere forma, una Natura intesa nel suo significato più ampio e filosofico. Vedeva palesarsi nell’ispirazione dell’istante il secolare concetto di Tao: l’unità che si fonde con il vuoto, il circolo che non può esaurire la propria continuità, la calma e utopica ‘Madre di tutte le cose’.

Bruce Lee comprese in quel momento la propria verità, una verità che dalle violente risse sui tetti di Hong Kong l’avrebbe condotto a Kareem Abdul-Jabbar e Chuck Norris, al grande schermo e all’accettazione etnica, all’inspiegabile morte e alla fama postuma.

ENFANT PRODIGE DEL CINEMA E DEL KUNG FU

Le origini di Bruce Lee, nato Lee Jun Fan il 27 novembre 1940 a San Francisco, attecchiscono nella sfera borghese, in una famiglia di buon rango che vide nascere il quinto dei sei figli ad uno sguardo di distanza dalle più conosciute tra le colline californiane, nel mezzo di una tappa lavorativa del padre-attore.

Lee Hoi-chuen recitava, lo faceva nell’opera cantonese, e non era nuovo a tappe nelle Chinatown statunitensi. Dopo appena tre mesi dal parto, la famiglia Lee percorse in senso opposto le correnti oceaniche, tornando ad Hong Kong. Nello scrigno sovrappopolato definito ‘porto profumato’ dai britannici, il ramo materno dei Lee vantava stretti legami con i vertici governativi. In particolare il prozio Hotung poteva disporre di capitali immensi, accumulati grazie agli intrecci intessuti con figure prominenti dell’Impero Britannico e dell’élite nazionale.

Il ‘Piccolo Drago’, chiamato così per coincidenza dei natali con l’ora e l’anno cinese della creatura mitologica, crebbe in un contesto facoltoso. La sua fu un’infanzia di agi e riflettori. Poco dopo il rientro ad Hong Kong, ancora neonato, Lee Jun Fan entrò nei cinema come attore, ‘recitando’ nel film Golden Gate Girl.

Pellicola dopo pellicola, un Lee bambino prima, adolescente poi, crebbe sui set di 16 produzioni cinematografiche. Un giovane prodigio dall’innato talento e dal carattere focoso, sfociato spesso in risse di strada.

“Iniziai a imparare il kung fu solo quando iniziai a sentirmi insicuro”

Fu l’insicurezza fisica e caratteriale a spingere Lee Jun Fan nelle mani Yip Man, rinomato maestro di Wing Chun. Per cinque anni Lee apprese la forma di Kung Fu tipica della Cina Meridionale, una pratica leggendaria, le cui origini si disperdono tra i monasteri Shaolin del XVII secolo.

Le parole e i gesti di Yip Man plasmarono l’impeto di Lee, lo incanalarono nell’arte della riflessione attiva, del cosiddetto ‘Canto di Primavera’. Il ‘Piccolo Drago’, però, comprese presto che il solo Wing Chun non potesse bastare ai fini della propria ricerca. Lee iniziò a cimentarsi nello studio e nella pratica di svariate discipline occidentali, come la scherma e il pugilato.

Il suo corpo divenne così tempio di una commistione d’arti sportive,  divenne l’arma manifesto del Jeet Kun Du, ‘la via del pugno che intercetta’: il non ortodosso combattimento essenziale, la “meditazione in movimento” che lo rese leggenda. Filosofia marziale che Lee avrebbe completato e perfezionato negli Stati Uniti.

BACK TO THE FOG, IL RITORNO A SAN FRANCISCO

Nonostante l’immersione nelle profonde acque della filosofia marziale, Lee non abbandonò le schermaglie di quartiere, episodi che misero ripetutamente in difficoltà l’intera famiglia. Sfiancato dalle segnalazioni delle autorità e da uno scarso rendimento scolastico, Hoi-chuen si vide costretto a far salpare il figlio verso la terra a stelle e strisce.

“Come gran parte dei ragazzi cinesi, appena scesi dalla nave il mio primo lavoro fu servire ai tavoli e lavare i piatti”

Tornato nella natia San Francisco, Bruce Lee smise i panni di giovane star, vestendo quelli di ragazzo comune, mischiato alla quotidiana liturgia lavorativa della città della nebbia. Lavò i piatti come il più comune dei mortali, iniziò a vestirsi seguendo la moda del periodo, strinse amicizie con molti coetanei afroamericani, scoprendo il significato di emarginazione.

Tra uno spostamento geografico, una serata di cha-cha-cha, ballo di cui fu sublime interprete, e una lezione di filosofia nell’ateneo di Washington, facoltà a cui si iscrisse dopo essersi diplomato all’Edison Technical School di Seattle, Bruce Lee promise a sé stesso di non essere uno stereotipo.

Fu un voto, il suo. Un voto morale e sociale. Nei primi tempi americani Lee difatti soffrì un’idea, un’immagine, quella dello stereotipato asiatico, insita nella società americana. Decise di cambiarla radicalmente, di enfatizzare la propria provenienza, i propri lineamenti.

Decise di onorare quelle caratteristiche estetico-culturali da sempre dipinte come puro folklore da schernire, da disprezzare gratuitamente, da relegare ai margini del panorama cinematografico hollywoodiano.

Decise di rendersi protagonista. Per farlo si riconsegnò alle macchine da presa, cominciando una tanto ostacolata, quanto vertiginosa scalata verso il gotha della cinematografia.

LA NASCITA DEL CALABRONE VERDE

Nei primi anni ’60 Bruce Lee conobbe e sposò Linda Emery. Dal matrimonio nacquero Brandon Lee, tristemente famoso per la prematura e inspiegabile morte legata alle riprese del film ‘Il Corvo’, e Shannon Lee. Con la novella sposa, un poco più che ventenne Bruce migrò nuovamente in California, ad Oakland, dove cominciò a spargere il verbo del suo Jeet Kun Du tra i locali.

“Guardavo ore ed ore di filmati di boxe. Studiavo il lavoro di gambe di Jack Johnson, la catena cinetica di Jack Dempsey, il loro allineamento del corpo”

Il pugilato divenne una sorta di ossessione per Bruce Lee, la moglie narrò di averlo visto per ore, giorni, intento ad osservare gli incontri di Muhammad Ali. Incontri visti anche al contrario, all’indietro, affinché coincidessero con la propria guardia (opposta rispetto a quella del ‘The Greatest’). Boxe e scherma vennero presto implementate dal bodybuilding e da una metodica pratica dello stretching.

Un atipica unione di concetti e discipline sportive, che Bruce Lee condivise con i propri adepti, attirandosi l’ira di molti Maestri asiatici presenti in California. Da questi scontri ideologici nacquero duri confronti che, leggenda vuole, furono risolti in molteplici incontri faccia a faccia. In questi segreti duelli tra scuole di Kung Fu, Bruce Lee prevalse sempre, come prevalse in vari tornei ufficiali a cui prese parte.

Fu proprio in occasione di uno di questi eventi, a Long Beach, che venne notato e selezionato per il primo ruolo d’attore sul suolo americano. A proporgli una parte televisiva fu William Dozier, produttore di Batman, che venne affascinato dalla sfrontatezza e dalla abbacinante gestualità di Lee: ben definita dal ‘pugno a pollice’.

Lee venne scritturato per la serie tv ‘Il Calabrone Verde’, dove fece il suo esordio a 26 anni nella parte di Kato, assistente del ‘Green Hornet’ Van Williams, giustiziere impegnato a sgominare traffici illeciti e malviventi di stampo mafioso. Dopo fugaci apparizioni in altre serie come Ironside, Longstreet e Blondie, Lee, e dopo quasi dieci anni dall’ultimo film girato, tornò anche sul grande schermo nel film ‘L’investigatore Marlow’, dove funse da sgherro ricattatore.

Contemporaneamente, si vide circondare dalle più svariate celebrità, giunte a frotte al suo capezzale, affascinate dal sempre più famoso eco del Jeet Kun Du. Tra i tanti volti noti che divennero allievi e amici, vanno citati Steve McQueen, James Coburn, Chuck Norris, Kareem Abdul-Jabbar e Roman Polanski. Alcuni di questi trovarono spazio anche nelle pellicole che lo stesso Lee avrebbe in seguito prodotto.

Disse a proposito del loro rapporto Jabbar, ‘Re del gancio-cielo’ e delle aree pitturate NBA: “Se ho avuto una carriera così lunga e priva di grossi infortuni, il merito è anche di quello che ho imparato da lui. Mi ha insegnato la disciplina e la spiritualità delle arti marziali: è uno dei motivi principali per cui sono riuscito a giocare al massimo livello in Nba senza subire infortuni gravi. Le arti marziali mi hanno permesso di capire meglio cosa voleva dire essere preparati per fare le cose. Non puoi essere competitivo in uno sport e limitarti a quello. Le arti marziali mi hanno aperto la mente e fatto capire che potevo essere bravo in altre cose”.

Era lo stesso Bruce Lee, d’altronde, a tratteggiare le arti marziali come un’onnicomprensiva palestra di vita, di umanità, di cultura: “Le arti marziali hanno un significato molto profondo. Qualunque tipo di conoscenza fondamentalmente è conoscenza di sé: come attore, come artista marziale, come essere umano. Dalle arti marziali ho imparato tutto”, e ancora “Fare arti marziali significa esprimere sé stessi onestamente”.

E la massima espressione artistica Bruce Lee la trovò attraversando nuovamente l’Oceano Pacifico, per fare ritorno in quella Hong Kong che aveva abbandonato da ribelle bambino prodigio e che ora, a inizio anni ’70 riassaporava da attore frustrato, costretto a sottostare ad anonimi ruoli di secondo piano. Mai scelta fu più saggia: Hong Kong era difatti pronta a lanciare Bruce Lee tra gli astri dello spettacolo mondiale.

IL FURORE CINESE, UN FURORE DA PROTAGONISTA

Tra il 1971 e il 1972, un Lee ormai trentenne potè finalmente assaporare il ruolo di protagonista in due film prodotti dallo sé stesso e diretti dal famigerato Lo Wei: da questo binomio presero vita ‘The Big Boss’, tradotto in ‘Il furore della Cina colpisce ancora’, e ‘Fist of Fury’, ‘Dalla Cina con furore’.

Pellicole cult, che fecero esplodere i botteghini asiatici e internazionali. Film in cui per la prima volta si attestava una stella asiatica, un atipico eroe cavalleresco, simbolico portatore dei profondi valori della Cina antica. Una Cina troppo a lungo derisa e maltrattata dall’establishment occidentale, una Cina che vedeva incarnata la propria grandezza spirituale, filosofica, fisica, nelle parole e nei movimenti del ‘Piccolo Drago’ del Kung Fu.

L’enorme cassa di risonanza ottenuta grazie a queste due pellicole spinse Bruce Lee a fondare una propria casa di produzione, la Concord Production Inc., in società con Raymond Chow della Golden Harvest, e a produrre ‘L’Urlo di Chen terrorizza anche l’Occidente’.

Un film ambientato a Roma, intriso di orientalismo e astio verso i malevoli occhi d’Occidente, verso la presunzione dello straniero. Un film che incorniciò il combattimento più celebre della storia dei film d’azione: il duello all’ultimo pugno tra Bruce Lee e Chuck Norris, ambientato in un solenne e silenzioso Colosseo.

Ultimo film girato ad Hong Kong fu ‘Enter the Dragon’, ‘I 3 dell’Operazione Drago’, definitiva consacrazione di Bruce Lee come stella del cinema mondiale. Un Lee che durante le riprese venne ferito da cocci di vetro e morso da un cobra (deprivato delle ghiandole velenifere): sinistri presagi di un destino prossimo, un destino che non avrebbe fatto assistere il ‘Piccolo Drago’ alla prima assoluta di questa produzione, proiettata dopo la sua morte al Graumann’s Chinese Theatre di Los Angeles.

IL SUCCESSO È SEMPLICEMENTE UN’ILLUSIONE, COME LA MORTE

“La definizione di superstar non mi piace per niente, perché si tratta solamente di un’illusione”

Improvvisamente divenuto volto globale, il maestro del Jeet Kun Du non si piegò alla popolarità. Il ‘Piccolo Drago’ mantenne fede alla propria filosofia, al proprio pensiero, a quelle parole figlie legittime di anni di preparazione sui libri, di poesie e testi appuntati in fogli sparsi per casa.

Citando alcuni passi: “Non bisogna fare lo sbaglio di cercare una personalità di successo da copiare”, “Per me è facile recitare e fare lo sbruffone, farmi vedere pervaso da quell’aria da spavaldo, fare la parte del duro, eccetera… Potrei fare finta di essere qualunque cosa, potrei accecarvi o mostrarvi dei movimenti misteriosi, ma esprimere sé stessi onestamente, senza mentire a sé stessi, esprimere me stesso onestamente, questa è la cosa più complessa da fare”.

Bruce Lee tornò in pompa magna negli USA per completare il doppiaggio de ‘I 3 dell’Operazione Drago’. Durante una sessione pomeridiana, si palesò un primo sinistro segnale, un primo rintocco funereo: vomito, febbre alta e convulsioni portarono allo scoperto un edema cerebrale.

La morte venne solo rimandata di qualche mese e sopraggiunse ad Hong Kong. Il 20 luglio 1973, ad appena 32 anni, Lee chiese all’amica attrice Betty Ting Pei di sdraiarsi per riprendersi da un forte mal di testa. Si addormentò senza più svegliarsi.

La causa della morte non venne mai chiarita del tutto, lasciando spazio a un ciclone di leggende e accuse. Si parlò di una reazione allergica all’Equagesic, farmaco assunto per diminuire l’emicrania; si parlò di una reazione corporea ad un colpo subito inconsapevolmente durante le riprese di ‘Game of Death’, ‘L’Ultimo Combattimento di Chen’, ultimo capitolo cinematografico di Lee; si parlò addirittura di un colpo segreto infertogli da uno dei tanti Maestri di Kung Fu contrari alle sue pratiche rivoluzionare.

Ad essere certe furono solo le strane circostanze del decesso e della comunicazione del casus mortis. Insieme ad esse, anche le tempistiche nella gestione del primo soccorso e nell’analisi forense risultarono sospette. Dettagli oscuri, che fecero scendere in piazza l’intero popolo di Hong Kong assetato di verità.

LA CHIAVE DELL’IMMORTALITÀ

La salma del ‘Piccolo Drago’ venne seppellita presso il Lake View Cemetery di Seattle, Washington. A condurre Bruce nella sua ultima dimora furono Brandon Lee, che a distanza di pochi anni avrebbe trovato tragicamente posto di fianco a suo padre, Steve McQueen, James Coburn, Dan Inosanto, Chuck Norris e il fratello Robert.

“La chiave dell’immortalitá è innanzitutto vivere una vita degna di essere ricordata”

E la vita di Bruce Lee divenne immediatamente materiale per agiografie cinematografiche e documentaristiche. Se ‘L’Ultimo Combattimento di Chen’ venne concluso e pubblicato postumo nel 1978 (il cast del film prevedeva anche la magnifica presenza del discepolo di lunga data Kareem Abdul-Jabbar), già nel 1974 cominciò a sgorgare un flusso incessante di produzioni dedicate alla vita del nativo di San Francisco.

Bruce Lee Story’ di Sze Diang, ‘Good Bye Bruce Lee’ di Lin Ping, ‘Io… Bruce Lee’ di Mar Lo, i più recenti ‘Dragon – La Storia di Bruce Lee’ di Bruce Cohen e ‘Bruce Lee – La Leggenda’ di John Little sono solo alcuni delle centina di tributi riservati al maestro del Jeet Kun Du. Tributi che ancora oggi prendono forma con film Netflix, serie Amazon Prime Video, documentari Espn (ultimo lo straordinario ‘Be Water’), che vengono narrati da testi come quelli stesi da Mitoshi Uyehara. Materiale atto a sollevare un velo nostalgico e mitologico impossibile da abbandonare all’oblio della storia.

È un richiamo costante, quello di Bruce Lee, anche a livello sportivo, soprattutto in un nuovo millennio che ha assistito alla crescita esponenziale delle MMA (Mixed Martial Arts). Dana White, patron della UFC ha più volte sottolineato l’importanza fondamentale del ‘Piccolo Drago’ nello sviluppo delle nuove arti marziali miste.

Valori e gesti, quelli professati da Lee, che hanno formato tutti i più grandi combattenti moderni, ben rappresentati dalle devote parole del pluricampione mondiale Jon Jones: “I movimenti di Bruce Lee davano un senso di bellezza, passione, arte, erano l’opposto della rabbia, riguardandoli è come se stesse dipingendo un quadro a mani nude…”.

Un quadro senza forma e senza limiti, un flusso d’acqua che resiste instancabilmente al tempo, al cinema e alla modernità.

Perché, come diceva il ‘Piccolo Drago’ che divenne gigante, “Essere un artista marziale significa anche essere un artista di vita”. Un artista della propria vita. Un artista delle vite altrui.

Gianmarco Pacione

Sources & Credits

 

 

Photos sources:
https://www.latimes.com/entertainment-arts/movies/story/2020-06-07/bruce-lee-be-water-documentary
https://asiatimes.com/2020/02/trump-era-hollywood-versus-bruce-lee/
https://www.nytimes.com/2017/01/25/movies/bruce-lee-movies.html
https://www.craftsmanclothing.com/blogs/news/the-dominating-style-of-bruce-lee
https://artsandculture.google.com/exhibit/bruce-lee-a-voice-for-the-marginalized/ZgKi4phCRrQcIQ
https://screenrant.com/ip-man-bruce-lee-true-story-real-explained

Video sources:
https://www.youtube.com/watch?v=8ic2k2P_FG0&t=213s
https://www.youtube.com/watch?v=f-q5FLtlUOI

7 dicembre 2020

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