Behind the Lights – Alessandro Simonetti

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La fotografia come catalogazione del genere umano, come viaggio tra culture e controculture
La galleria fotografica di Alessandro Simonetti è un’opera magna di ricerca sociale, è una catalogazione del genere umano, come citava una sua tesi accademica, che nell’elemento sportivo ha trovato una musa e una tela ideale. Dai playground newyorchesi al surf giamaicano, dal calcio migrante di Fuerteventura al leggendario wrestling senegalese, il raffinato occhio di ‘Zuek’ riesce a conciliare estetica e contenuto grazie ad un senso dell’istante e del contesto. Tutto parte dal desiderio e dall’urgenza di raccontare l’essenza dell’essere umano e le diversità di un mondo che resiste all’omologazione, fa subito comprendere Simonetti, parlandoci di una ricerca iniziata nel nordest italiano e proseguita nel vortice della Grande Mela.


“Ho cominciato a fotografare a circa 16 anni. È stato un processo naturale e osmotico. Bassano del Grappa, la città dove sono cresciuto, non era esposta ad enormi input, ma era insolitamente ricca a livello culturale. Skate, graffiti e musica formavano uno scenario trasversale, che ha funto da preludio per la mia ricerca artistica. Sono stato allevato da concerti hardcore, hip hop, punk e reggae, frequentavo centri sociali e in questo tipo di ambienti ho capito quanto fosse importante stare tra la gente. La mia fotografia si fonda su questo ideale sociale, sulla necessità di osservare e parlare di chi mi circonda. ‘Fuck you all’ di Glen Friedman è stata la mia bibbia, perché incarnava l’eclettismo di quegli anni ’90 ed evidenziava le infinite connessioni tra le diverse scene underground. Ma anche il cinema mi ha dato tanto. ‘L’Odio’ e ‘Do the Right Thing’ hanno fatto scattare un meccanismo estetico nella mia mente, così come ‘Wild Style’ e ‘Style Wars’, due produzioni dedicate all’universo del writing. Lo sport mi ha dato meno, in casa avevo due donne e non ho mai visto una Gazzetta o un GP di Formula 1 in televisione. Gli unici contatti con questo mondo erano le schedine che mio padre, ex pugile e figlio di un pugile, compilava al bar, oltre alle attese di mio nonno per eventi come il Giro d’Italia o il Palio di Siena… Ho giocato con reale passione e continuità solo a baseball, probabilmente sono stato attratto dall’esotismo di questo sport e sono stato interbase dei Crows, la squadra del mio paese, per anni. In generale sono cresciuto in un ambiente decisamente più artistico, ho anche frequentato l’Accademia delle Belle Arti di Venezia, dove ho avuto modo di spaziare dall’approccio classico a quello più sperimentale. Quando ho incontrato la fotografia, però, ho immediatamente capito che mi avrebbe accompagnato per tutta la vita”



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E la fotografia ha determinato scelte enormi nella vita di ‘Zuek’, come il trasferimento oltreoceano, dove, poco più che ventenne, ha ricevuto una chiamata umana e artistica impossibile da ignorare. Nel turbinio della New York a cavallo tra due millenni, Simonetti ha trovato la propria Eldorado, superando un monumentale clash culturale e entrando a far parte di un ispirato circolo popolato da pionieri delle sottoculture urbane e artisti destinati alla leggenda. Nella città dove tutto parla di movimento e contaminazione, la ricerca estetica e culturale del fotoreporter italiano si è affinata, costituendo un riconoscibile e strutturato paradigma stilistico.
“Per me è stato un viaggio alla mecca. Non parlavo un buon inglese, ma sentivo il bisogno di chiudere un cerchio culturale e di esplorare la città che mi più mi aveva ispirato. Quella città poi è diventata la mia casa per quasi vent’anni. New York è un pozzo infinito di risorse, soggetti e storie. Per quattro anni ho fotografato ‘The Cage’, il celebre playground di West 4th, uno dei luoghi cestistici e sportivi più iconici al mondo. Credo che quel contesto sia il manifesto del potenziale narrativo di New York e delle sue logiche sociali. Le prime settimane è capitato che i giocatori mi chiamassero ‘fakeass cameraman’ e mi urlassero di andare via. Ero l’unico fotografo bianco, ed ero europeo. A distanza di qualche tempo, però, sono riuscito a farmi accettare, uno dei personaggi di spicco della community è perfino arrivato a definirmi ‘official photographer’. Ha usato un tono scherzoso, ma ha fatto comprendere a tutti che il mio status era cambiato. Ecco, possiamo dire che la serie sul West 4th riassuma a pieno il mio modo di fotografare oggi”


Ma lo streetball è solo una nota del flow sportivo che intreccia ripetutamente la galleria fotografica di Simonetti. Viaggi, culture e, soprattutto, controculture hanno permesso a ‘Zuek’ di entrare in contatto con microcosmi atipici, dove lo sforzo atletico si trasforma in un fondamentale strumento per la conoscenza complessiva di ogni soggetto e della rispettiva dimensione esistenziale. Tecnicità e curiosità sono i capisaldi che definiscono una produzione magmatica, eppure lineare, divisa tra ritratti iconici e realtà senza filtri: un’indagine documentaristica che mai smette di mettere in relazione superficie e profondità.
“Le culture di strada hanno segnato il distacco completo dalla mia breve esperienza negli sport organizzati. Negli anni ’90 le Counter Cultures erano agli antipodi rispetto al tifo organizzato dello stadio o la passione per i motori. Lo skate e lo snowboard, invece, mi attraevano per l’assenza di regole e uniformi seriali. Le origini di questi due sport non erano lontane, potevo facilmente arrivare alla fonte dei pionieri ed entrare in contatto con loro. In un certo senso durante e dopo l’adolescenza sentivo di essere parte di qualcosa di nuovo, che era legato fortemente alla musica, a culture trasversali e ad un differente concetto di ‘uniforme’. Per questo mi ha sempre attirato l’aspetto culturale di una determinata situazione sportiva, non m’interessa l’aspetto numerico o statistico. Al Mondiale di calcio preferisco un ragazzino che gioca per strada, per intenderci. Lo sport, poi, è ovunque. In Giamaica, per esempio, è impossibile non imbattersi nell’elemento atletico e nelle sue più disparate sfaccettature. In quel Paese ho fotografato Usain Bolt, ma anche fantini, surfisti, skater e pugili sconosciuti. Ad Haiti, poco dopo il terremoto, mi è capitato di soffermarmi su una piccola squadra di calcio. A Fuerteventura ho trovato dei migranti che giocavano tra le dune del deserto, mentre in Senegal ho documentato il wrestling tradizionale. Nella mia visione la cornice storico-antropologica è più importante dell’aspetto estetico, dà allo scatto un valore e un peso differente, gli regala concretezza. In passato mi hanno ispirato tanti ritratti fatti a celebrities come Tyson o Ali. Le loro fotografie sul ring sono sicuramente evocative, ma se devo pensare ad uno scatto iconico, che sopravviverà nel tempo, non penso ad un jab di Tyson, penso alla sua foto in ciabatte e vestaglia, accompagnato dalla tigre personale… È un discorso di energia e di forza narrativa”

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Energia e forza narrativa hanno plasmato anche la produzione ‘commerciale’ di Simonetti, che nella terra promessa americana ha avuto modo di osservare e cristallizzare con la propria lente anche il panorama fashion. Anche in questo caso un’evoluzione figlia di un lungo processo di assimilazione, cominciato nelle serate adolescenziali, tra streetwear e workwear, e proseguito oltreoceano contaminandosi con le necessità di comunicazione di brands commerciali e fashion. Oggi il viaggio di ‘Zuek’ prosegue però dove tutto è iniziato, nel Bel Paese, dove la sua lente ha deciso di fare ritorno alla ricerca di nuovi, vecchi stimoli.
“Quando ho preso la Reflex in mano per la prima volta, l’abbigliamento coincideva con il concetto di divisa, era un’epoca ‘militante’. C’era il tema di appartenenza ad una determinata scena, e quest’appartenenza veniva definita da quello che indossavi. Se vedevo qualcuno con le Puma Clyde o Suede, per esempio, sapevo era connesso all’universo hip hop. Agli inizi degli anni ’90 ho collaborato con uno dei primi brand streetwear italiani, Broke, ricordo ancora uno shooting con un SUV gigante insieme al gruppo rap Colle der Fomento, per l’epoca era stato qualcosa di inusuale. Sono passati tanti anni da quel tipo di estetica e mi rendo conto di quanto recentemente abbia invaso anche l’high fashion… Sono passati tanti anni anche dal mio trasferimento a New York e ho deciso da poco di fare ritorno in Italia. Il mio occhio si era ormai abituato, non sentivo più la stessa spinta interiore, avevo bisogno di una sfida eccitante e di un nuovo capitolo della mia vita. E, dopo tutto quello che ho assimilato oltreoceano, sarà interessante tornare ad indagare soggetti italiani. Ho voglia di questa interessante e paradossale sfida visiva. Il nostro Paese è anche una base eccellente per viaggiare in Africa o in Asia, dove sicuramente produrrò reportage in futuro, ritagliando sempre dello spazio all’elemento sportivo”
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