Andrea Maranelli: la bici ha un’anima freestyle

Atleta, non influencer. Intervista all’eclettico trentino che ha reso le due ruote un mezzo d’intrattenimento globale
Unire il gesto sportivo al puro spettacolo, all’intrattenimento; utilizzare le due ruote come forma d’espressione, come mezzo per incollare allo schermo migliaia, milioni di occhi meravigliati.
Andrea Maranelli ha interpretato in maniera personale il concetto di Trial, di bici spinte al loro estremo nell’affrontare salti e gravità. Ha evoluto la propria carriera atletica, abbandonando coppe e riconoscimenti per diventare produttore di contenuti, seminatore di creatività.
“Ho messo da parte il lato competitivo del trial per focalizzarmi sulla produzione creativa. Da qualche anno la mia attività si basa sulla partecipazione ad eventi e sulla creazione di video per i vari canali social. Mi definisco ancora atleta, non mi sento un influencer, perché il lato sportivo resta preponderante nelle mie performance. Ora però il mio interesse primario sta nel divertirmi creando contenuti che possano intrattenere. Rispetto ai tempi delle gare si sono rimodulate le priorità: il mio lavoro è incentrato molto di più sull’impressionare, sulla ricerca della reazione del pubblico, rispetto alla canonica cura del gesto tecnico. Non nego che, se dovessi rimettermi in competizione con atleti che hanno continuato a gareggiare lungo questi anni, sotto tanti aspetti risulterebbero più forti di me”

Più forte degli altri Andrea lo era stato prima di questo Front Flip esistenziale, quando, appena ventenne, aveva conquistato il titolo nazionale di Bike Trial.
Una passione, quella per il superamento degli ostacoli danzando sulle due ruote, che il classe ’94 ha maturato sulla moto prima, sulla bici poi, spinto dall’influente passione paterna.
“Da piccolo mio padre mi ha regalato la prima moto Trial, era un Natale, lui è sempre stato un grande appassionato e mi ha contagiato, instradandomi in questo mondo. Presto ho iniziato a gareggiare a livello nazionale, con tutti i problemi di sorta: per uno sport del genere è difatti necessario un enorme supporto logistico-economico, molti potevano vantare team solidi alle spalle, io avevo mio padre che spesso era imbrigliato da impegni lavorativi. Un paio d’anni dopo i miei esordi ho incontrato le prime bici Trial, le utilizzavano i miei avversari per allenarsi prima delle gare. Fino a quel momento avevo fatto istintivamente dei numeri con la mia mountain bike, ma non ero a conoscenza di quello strumento. Così, sotto forma di un altro regalo di Natale, mio padre mi fece trovare una di queste speciali biciclette”


Con lo scorrere del tempo per Andrea matura un amore monopolizzante, contaminato da figure leggendarie del calibro di Benito Ros e Danny MacAskill. Dal funambolo spagnolo carpisce movimenti e pulizia tecnica, analizza l’importanza della ripetizione del gesto, del centimetro in più nell’atterraggio; dal fenomeno scozzese, invece, comprende come questa disciplina possa evadere da podi e punteggi razionali, divenendo una forma d’arte urbana dall’altissimo potenziale visivo.
“Ho iniziato a competere nel Trial puro, senza sella. Mi sono immerso a capofitto nella ricerca del titolo italiano, che ho raggiunto dopo due bronzi e un argento. Una volta giunto sul gradino più alto del podio ho detto basta. In fondo tutti i sacrifici fatti si fermavano lì, ad una coppa da esporre in casa: nessuno al di fuori di quella ristretta cerchia di appassionati dava il giusto risalto a ciò che facevo. Così è iniziata la mia transizione, plasmata dall’esempio di MacAskill: un atleta che ha cambiato tutto, mescolando il Trial al freestyle, e viceversa. Grazie alla sua influenza ho iniziato ad uscire in jeans per la città con la mia bicicletta: non era più necessaria la tuta da gara, potevo finalmente liberare la mia anima freestyle, provare trick che non avevo mai avuto tempo e modo di fare, tratteggiare linee semplici e istintive, figlie di un flusso creativo… Potevo esprimere me stesso”
Un passo oltre il velo di Maya dell’esasperata perfezione, dell’estenuante ricerca del risultato. Un salto, più o meno figurato, all’esterno di circuiti regolamentati e canonici.


È lecito immaginarsi un ventenne Maranelli impegnato nel baciare, con le proprie gomme, l’asfalto e l’architettura di una grande metropoli, di una Milano, per esempio, fulcro italiano di quel microcosmo di sport urbani che, dagli iconici anni ’90, mai ha smesso di pulsare nelle nuove generazioni.
È lecito, ma non è corretto, perché Andrea è obbligato a creare il proprio stile nella piccola Rovereto, quell’Atene del Trentino che poco è abituata ad eccessi e stranezze: scheggia abitativa dove tutto scorre tranquillo, dove in pochi potevano anche solo immaginare un concittadino sospeso nel vuoto, intento a percorrere l’arco di un ponte in equilibrio sulle due ruote.
“Rovereto ha i suoi pro e i suoi contro. Offre pochissime possibilità a livello di strutture rispetto a una città come Milano. Questa cosa mi ha sicuramente penalizzato, così come mi ha penalizzato non avere una figura che mi trainasse: ho dovuto trainare io altri giovani, facendo loro scoprire questa disciplina. Essendo una piccola cittadina, però, ci sono tante realtà che ti possono sostenere, che possono aiutare il tuo progetto con gesti significativi. Un altro fattore positivo sta nelle poche distrazioni: piuttosto che passare il sabato sera sempre nello stesso bar, preferivo andare a letto presto per allenarmi la mattina seguente”
Andrea parla di Rovereto al passato, da tempo difatti si è stabilito ad Innsbruck per proseguire il percorso accademico e lavorativo. Nonostante la fama acquisita tra social ed eventi in giro per lo Stivale, difatti, l’artista della bicicletta non ha mai perso di vista il mondo reale, le priorità di una vita che non può fare affidamento solo su manual e impennate.
“Mi sono laureato in Gestione Aziendale a Trento, poi mi sono trasferito a Innsbruck per il ciclo magistrale. A dire il vero non mi sono mai dedicato a tempo pieno alla bicicletta e questo un po’ mi dispiace. Anche appena finita la laurea triennale, nell’unico periodo di potenziale tranquillità, mi sono subito trovato a lavorare all’interno dell’azienda di famiglia. Nella mia testa non mi sono mai limitato ad essere un rider. Ho sempre lasciato spazio per un piano b, per un eventuale scenario negativo, pensando che realisticamente non riuscirò a fare questo per tutta la vita. Certo, ho affrontato momenti estremamente stressanti e sono stato obbligato a ridurre i rapporti sociali, ma questi sacrifici mi hanno portato a raggiungere soddisfazioni e palcoscenici, come San Siro o il grande schermo, che mi fanno ancora venire i brividi”
Concerti e film, Rai e Youtube. Cavalcando le due ruote Andrea arriva ad esibirsi davanti ad un San Siro gremito per il concerto di Fedez e J-Ax, a comparire in Zoolander 2, a riempire piazze.

Un’esplosione tout court, alimentata dalle visualizzazioni web, dove le sue gesta raggiungono milioni di persone sparse in tutto il mondo. Un’esplosione che obbliga il ciclista trentino a reinventarsi, divenendo a tutti gli effetti content creator, oltre che rider.
“Negli ultimi anni è entrata sempre più in gioco la creatività: è un lato che si sviluppa con il tempo, seguendo il classico processo ‘learn by doing’. Da poco tempo posso ammettere che questo sia diventato a tutti gli effetti il mio lavoro. È un ambito particolare, in cui si accentua spesso l’ansia da prestazione: la competizione è a livello globale ed è necessario mantenere sempre alta l’asticella. Questo tipo di sovraesposizione porta tante soddisfazioni, è vero, ma anche tante insoddisfazioni, legate a contenuti che ritieni ottimi ma che non funzionano. Ora mi sto concentrando principalmente su Youtube, dove posso creare produzioni lunghe e studiate, destinate a rimanere nel tempo. Purtroppo a causa della pandemia ho dovuto abbandonare gli eventi nelle piazze. In quei contesti devi stare attento a tutto, devi essere regista, pensare all’impianto audio, alle luci, riunire un team e uno speaker, costruire un’interazione credibile tra i vari membri del gruppo, tra rider e pubblico”
Il percepito altrui. Pare essere questo il sacro Graal ricercato da Andrea Maranelli. Un percepito da raggiungere attraverso l’espressione di sé stesso, del proprio corpo, del proprio raro talento.
Oggi, all’apice di un’inconsueta parabola sportiva, Andrea ha deciso di evolversi ancora una volta, da un lato tornando indietro nel tempo, dall’altro spingendosi verso un nuovo palcoscenico imprenditoriale.
“Ora mi sto focalizzando sul fare trial con una mountain bike. È un viaggio a ritroso nel mio vissuto, una pratica particolare, che ha un ragguardevole riscontro sulla gente. La bici Trial credo sia vista più come uno strumento, con una bici normale, invece, tutti riescono a legare un gesto alla sua effettiva difficoltà. Ho anche fondato recentemente una startup di cui sono amministratore delegato: abbiamo un grande progetto ciclistico in ballo, di cui ancora non posso dire nulla. È un qualcosa che mi porta via un sacco di energia, ma il bello è che posso scegliere come e quando lavorarci. Ad oggi mi sento principalmente un atleta professionista, perché finalmente ho le risorse sufficienti per poter pensare alla bicicletta come a un lavoro. E dopo tanti anni è sicuramente una sensazione piacevole”



Andrea Maranelli
IG andrea_maranelli
Intervista di Gianmarco Pacione
Credits
Ph Enrico Andreis
IG @enrikui
enricoandreis.com
Ph Tommaso Prugnola
Video Youtube
18 marzo 2021
Related Posts

Hassan Azim, la boxe è un dono da condividere
Legami di sangue e religione, gaming e solidarietà, ‘Hitman’ è il nuovo volto virtuoso dei ring britannici

Behind the Lights – Brazo de Hierro
Dalle strade di Barcellona alle vette delle Alpi, l’eterogenea lente ciclistica di Albert Gallego

Daryl Homer, oltre la pedana
Greatness is more than an Olympic silver medal in saber, greatness is becoming a role model

Kristina Schou Madsen, l’extreme running è un viaggio mentale e sensoriale
Dal Kilimangiaro alla foresta amazzonica, dai record alla filosofia, l’atleta danese che nella corsa trova la vita

Jeremy Okai Davis, l’arte come espansione individuale e collettiva
Il pittore ed ex cestista che, attraverso la serie ‘A Good Sport’, vuole riscoprire e condividere la cultura afroamericana

Edoardo Cartoni, Genova è la mia California
Le onde sono attesa, condivisione e introspezione, ci spiega questo artista del longboard

Yannick Noah, di tennis, musica e libertà
Dal Roland Garros ’83 al microfono. Grazie a Le Coq Sportif siamo entrati nel magico mondo di un mito del tennis divenuto cantante di successo

Carla Calero, lo skate come arte terapeutica
La skater spagnola che vive la tavola come forma di espressione collettiva e di equilibrio personale

Miko Lim, piccole storie per raccontare grandi mondi
Il regista e fotografo americano che sta segnando l’immaginario sportivo contemporaneo

Paul Guschlbauer, volare per ispirare
Il paraglider austriaco che con le sue imprese vuole meravigliare gli occhi e smuovere il coraggio altrui