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Adriano Panatta, d’estetica e talento

Indolente, ribelle, bellissimo. Fu il figlio di un custode a fare innamorare del tennis l’Italia intera

“Il tennis è un’altra cosa”, ripete ciclicamente Adriano Panatta. Non è materia da rozzi energumeni muscolari, da servizi supersonici e 15 messi a segno per sfinimento. Il tennis è un’altra cosa, è estetica e talento puro, è un ciuffo lungo lungo che si adagia su un viso scolpito dall’eterna Roma, è una ‘Veronica’ giocata spavaldamente nel mezzo di un tie-break, è un tuffo a rete che cristallizza il tempo.

Il tennis è quello di Adriano Panatta, gli fanno eco i nostalgici, è quello dell’unico italiano capace di trionfare nella stessa stagione agli Internazionali d’Italia e al Roland Garros, è quello dell’unico essere umano in grado di scalfire la nordica corazza di Bjorn Börg, è quello del poeta della racchetta che consegnò al popolo tricolore una Coppa Davis e, con essa, uno sport fino ad allora elitario, facendolo entrare nelle case e nei sogni di un intero Paese.

adriano panatta

‘ASCENZIETTO’, IL FIGLIO DEL CUSTODE

Adriano non era un figlio della borghesia, suo padre, Ascenzio Panatta, lavorava come custode all’interno del complesso del Tennis Club Parioli. Nacque il 9 luglio 1950 e crebbe sui campi rossi, il giovane Panatta, venne allattato dal suono di dritti e rovesci, dalle imprecazioni dei colletti bianchi della Roma bene e dalle loro volée maleducate.

I primi scambi li ebbe con il muro di casa. L’ingegno paterno gli mise a disposizione una facciata intera su cui scaricare i primi desideri di grandezza, i primi rozzi passanti. Fu una genesi casalinga, una formazione fai da te: Ascenzio tracciò una riga bianca sull’intonaco, prese una vecchia racchetta e le tranciò il manico, trafugò qualche ammaccata sfera gialla e consegnò tutto al figlio.

I membri del circolo cominciarono ad osservare i rintocchi scanditi del piccolo Panatta, lo soprannominarono bonariamente ‘Ascenzietto’, intravedendo qualcosa di magico in quel corpo che cominciava già ad essere così longilineo, così elegante.

“Il tennis l’ha inventato il diavolo”, avrebbe confidato a distanza di anni lo stesso Adriano Panatta. Eppure in quel modesto cortile, incastonato nel mezzo di una suggestiva distesa di prati rossi, era un angelo ad addomesticare le palline respinte dall’imponente e silenzioso rivale.

Delineò così il proprio spartito tennistico Adriano Panatta. Una volta pronto, venne dirottato sui campi veri, lì ‘Ascenzietto’ cominciò a sporcarsi le scarpe di terra, ad esplorare quella che sarebbe diventata una geometrica seconda casa. I maestri cercarono d’incanalare i suoi primordiali istinti nel codificato canovaccio del tennis istituzionale: ci riuscirono solo in piccola parte, rendendosi conto di quanto fosse difficile razionalizzare il talento.

Trasferitosi all’EUR con la famiglia nei primi anni ’60, Adriano decise di rincorrere la racchetta con il sacrificio. Venti chilometri al giorno, coperti d’estate in bicicletta, d’inverno sperando nelle coincidenze di quattro autobus.

Ai Parioli si diplomò nell’arte dello scambio, poi conseguì la laurea a continenti di distanza, quando appena maggiorenne salpò per l’Australia. Nel Commonwealth oceanico entrò in contatto con professori e luminari della materia: da Rod Laver e soci apprese traiettorie e importanza del servizio, ne contemplò la magnificenza, tornando nella sua Roma con una nuova consapevolezza.

adriano panatta

LA BELLEZZA DI UNA ‘VERONICA’, IL TENNIS COME OPERA D’ARTE

“Saper giocare bene a tennis è diverso da saper vincere”, può essere racchiuso in queste parole il manifesto del Panatta giocatore. L’estetica prima del risultato, o meglio, il risultato che diventa quasi accessorio di fronte alla performance artistica.

In una fase storico-sportiva di transizione, Panatta fu paladino di un tennis cantato a cappella, fondato su estro e intuito. Con lui John McEnroe e Ilie Năstase, contro di lui Björn Borg e Guillermo Vilas prima, Mats Wilander e Ivan Lendl poi: adepti, questi ultimi, del controllato tennis moderno, di un filone di atleti devoti all’esercizio fisico, al perfezionamento del gesto tecnico, all’allenamento maniacale.

In uno sport sempre più ibrido e tendente al futuro, Adriano Panatta fu ispirato rimatore e criticato indolente, fu mago nel “rompere gli schemi”, come amava ripetere Rino Tommasi. Proprio la voce del giornalista veronese conferì il nome al colpo simbolo dell’incanto panettiano: quella ‘Veronica’ che il bel romano amava esibire a mezz’aria, dando le spalle alla rete, architettando uno smash di rovescio privo di punti di riferimento, con le sole sensazioni a guidare la racchetta.

‘Veronica’, un nome femminile per la più grande creazione dell’Ascenzietto uscito dall’EUR. Una strana coincidenza quella sfumatura rosa a farle da sfondo. Perché per comprendere appieno l’impatto socio-culturale del fenomeno Panatta bisogna inevitabilmente scivolare tra le prime pagine dei giornali scandalistici dell’epoca, dove quel rosa prendeva piede vorticosamente, chiacchiera dopo chiacchiera.

Con le sue improvvisazioni sotto rete a ritmo di blues rock, genere che tanto amava ascoltare, la figura di Adriano Panatta influenzò milioni d’italiani e, soprattutto, italiane.

Il corpo statuario, la parlata fluente e colta, il capello tipico di un’epoca ribelle per definizione… Ogni addendo raccontava una somma a cui era impossibile restare indifferenti.

Il talento romano venne amato da tante, da tantissime. Con Loredana Bertè diede vita ad una liaison da romanzo, scritta a sei mani insieme all’istrionica e ingombrante presenza di Renato Zero. Una storia che fu cantata dalla Bertè stessa in ‘Sei bellissima’: pezzo cult dedicato proprio a quella relazione.

adriano panatta

SCALATA AL PARADISO, L’INDIMENTICABILE 1976

Panatta era nato per giocare a tennis, lo ripeteva spesso il venerabile Nicola Pietrangeli, che si vide improvvisamente travolgere dall’esuberanza stilistica del giovane rivale. Lo comprese perfettamente nel settembre 1970, quando un ventenne Panatta arrivò in finale e conquistò per la prima volta i Campionati italiani assoluti. A partire da quella vittoria, l’egemonia panattiana sul suolo nazionale durò per sei stagioni filate, successi che gli permisero di scalzare dal trono la pesante e illustre presenza di Pietrangeli stesso.

Il nuovo astro del tennis Azzurro, dopo aver assaporato il primo titolo ATP in carriera arrivato a Senigallia nel 1971, cominciò a farsi largo anche nel panorama internazionale. I quarti di finale del Roland Garros e le finali di Amburgo e Gstaad del 1972, la vittoria di Bournemouth contro Ilie Năstase nel 1973, quella di Firenze nel derby con Paolo Bertolucci del 1974, la doppietta di Kitzbühel e Stoccolma del 1975 ai danni di Jan Kodeš e Jimmy Connors: tutti questi successi, uniti alle svariate semifinali raggiunte sulla terra rossa parigina, prepararono Panatta al 1976, il memorabile anno d’oro del tennista italiano.

Il 1976 di ‘Ascenzietto’ fu una marcia trionfale cominciata nel più originale dei modi, con gli 11 match-point annullati a Kim Warwick nel surreale primo turno degli Internazionali d’Italia. Nessuno nell’era Open era riuscito in un’impresa simile. Davanti a un estasiato Foro Italico, Panatta vinse il suo secondo e ultimo Masters 1000 (dopo quello di Stoccolma), regolando nella finalissima l’argentino Guillermo Vilas e le sue parabole mancine. Il primo tennista italiano a riuscire in un’impresa simile dopo di lui sarebbe stato, a 43 anni di distanza, Fabio Fognini in quel di Montecarlo.

Un’impresa che Panatta accrebbe oltralpe solo a distanza di una settimana, scrivendo la storia sul rosso parigino. Al Roland Garros sembrò ripetersi l’inimmaginabile copione romano, con un primo turno ostico e una palla-match annullata a Pavel Hutka che fece gridare al capolavoro.

Servirono una ‘Veronica’ e un tuffo ad Adriano Panatta per piegare la resistenza del tennista ceco: un piano sequenza di lucido genio e calcolata incoscienza, durato pochi battiti di ciglia, una meraviglia che indirizzò il quinto set nelle mani del poeta Azzurro.

Ai quarti di finale si concretizzò l’impresa di una vita. Di fronte a sé Panatta trovò una montagna di meccanismi perfetti, un killer glaciale, “un fenomeno paranormale, un matto calmo”, come amava definirlo in prima persona il bel romano. Dall’altro lato della rete prese posto Bjorn Börg, l’antitesi tennistica del Michelangelo del serve and volley, l’uomo del nord che dell’etica lavorativa aveva fatto la propria religione.

“La sua era una pazzia ben mascherata. Stava tutto il giorno a registrare la tensione delle corde delle racchette. Un giorno o l’altro schioppi, gli dicevo, ti esplode il cervello”. Fu una strana amicizia quella tra Panatta e Borg, rimasta intatta ancora oggi. Tanto diversi nell’approccio sportivo, quanto vicini nella quotidianità, leggenda vuole che Panatta accompagnasse Börg a comprare vestiti, che gli consigliasse cosa indossare per apparire meno trasandato al mondo esterno, che scambiasse opinioni su società, politica, ed esistenza davanti a grossi boccali di birra.

I due si volevano bene, ma questo dettaglio, sulla sadica terra parigina, non aveva valore. Panatta sapeva di fronteggiare un robot imbattuto da 18 partite sul suolo francese; Börg era consapevole di sfidare un animale raro, ultimo esemplare di una specie in estinzione, un pittore della racchetta impossibile da leggere tatticamente, da inquadrare in spartiti predefiniti.

Nelle giornate più ispirate Panatta era un incubo per lo svedese, un grattacapo impossibile da risolvere. Tale fu in quel soleggiato pomeriggio di giugno. Panatta dominò in quattro set lo svedese e spiccò il volo annichilendo Eddie Dibbs in semifinale.

La finale venne introdotta da uno sfacciato duello psicologico. Panatta fece eruttare tutta la propria romanità negli spogliatoi, a pochi istanti dalla discesa nel Court Centrale, prese sottobraccio Harold Solomon e lo mise al suo fianco davanti allo specchio.

“Guardati. Come fai a vincere?”, disse, con il più burino dei sorrisi, al tennista chiamato ‘Sorcio’ per la limitata presenza scenica. Finì 3-1 per l’attore prestato al tennis italiano, finì con l’invasione di campo degli appassionati parigini, incantati dal trionfo dell’estetica sulla disarmonia.

Dopo gli exploit italo-francesi, Panatta si stabilì al quarto posto della classifica ATP: posizione mai raggiunta da un Azzurro prima e dopo di lui. Superati un Wimbledon e uno US Open incolori, intervallati da una finale persa a Gstaad, Adriano Panatta scrisse l’ultimo capitolo del proprio annus mirabilis. All’Estadio Nacional di Santiago del Chile prese forma un evento dai connotati più politici, che sportivi. L’Italia di Coppa Davis capitanata da Nicola Pietrangeli arrivò in Sudamerica dopo un intenso periodo di preparazione, costellato dalle insistenti polemiche.

Per molti italiani quella finale non si sarebbe dovuta giocare, non nell’epicentro della dittatura del generale Augusto Pinochet. Era stato versato troppo sangue nella capitale cilena per poter dar vita ad un semplice evento sportivo, questo era il pensiero che accomunava tanti critici nostrani uniti dallo slogan “Panatta milionario, Pinochet sanguinario”.

“Fu Ignazio Pirastu, al tempo responsabile della Commissione Sport del Pci, a farci arrivare l’inattesa notizia: per Berlinguer dovevamo andare in Cile. E voleva lo sapessimo. Per il segretario del Pci non sarebbe stato giusto che la Coppa finisse nelle mani del Cile del regime-Pinochet piuttosto che nelle nostre. Da lì in poi la strada verso la partenza si fece in discesa. Fu come un liberatutti. Il governo Andreotti disse che lasciava libero il Coni di decidere, quest’ultimo lasciò libera la Federazione e di fatto ci ritrovammo a Santiago, liberi di vincere. Grazie a Berlinguer”, fu grazie a questa cascata di semafori verdi che gli Azzurri decisero di attraversare l’Atlantico.

Nel Paese fresco di golpe, Corrado Barazzutti e Panatta misero i primi tre sigilli sui singolari, seguiti dal quarto punto centrato dall’oliato doppio formato da ‘Ascenzietto’ e Paolo Bertolucci. Arrivò in questo incontro l’inaspettata presa di posizine politica della coppia Azzurra.

“Paolo, oggi ci mettiamo le magliette rosse”, annunciò Panatta al suo compagno. “Ma sei matto, qui ci arrestano o ci fucilano”, rispose preoccupato Bertolucci. Davanti alle autorità cilene i due scesero in campo con delle magliette rosso fuoco griffate Fila.

Polo rosse che spazientirono Pinochet e soci, costretti ad inviare una lettera di protesta al governo tricolore. Polo rosse che a distanza di anni sono state ricordate da varie produzioni artistiche, come il documentario ‘Magliette Rosse’ diretto nel 2009 da Mimmo Calopresti e l’omonima canzone prodotta dai Modena City Ramblers.

Per il regime cileno al danno cromatico si aggiunse la beffa della vittoria Azzurra, sporcata dall’unica sconfitta patita da Tonino Zugarelli nell’ultimo match in programma. La delegazione guidata da Pietrangeli tornò così in Italia con la prima e unica Coppa Davis della storia nazionale: perfetta conclusione dicembrina per il 1976 panattiano.

LA VITA DOPO IL TENNIS, IL TENNIS COME PARTE DELLA VITA

Dopo la sbornia del 1976 Adriano Panatta ebbe tempo per giocare e vincere ancora, almeno fino al 1983. Prima del ritiro dominò a Houston il ‘Leone’ lituano Vitas Gerulaitis, a Tokyo e a Firenze Raúl Ramírez, perse un mai digerito quarto di finale a Wimbledon con Dupré e una finale a Roma contro l’eterna amico-rivale Börg, inanellò grandi risultati nel doppio alternando gli aiuti di Bertolucci a quelli di Năstase (non più fedele al patto d’acciaio stretto con il connazionale Ion Tiriac).

“Il tennis non è mai stato una monomania per me. Anche quando ero all’apice mi piaceva leggere, mi tenevo informato”. E il tennis non è stato monomania anche dopo l’addio ai campi. Perché Panatta negli anni ’80 e ’90 è stato sì capitano non giocatore della squadra italiana di Coppa Davis, ma anche molto altro.

Per esempio ha ottenuto ottimi risultati in acqua, dedicandosi alla motonautica e, in particolare, all’offshore, stabilendo il primato mondiale nella categoria entrobordo e laureandosi campione del mondo nella classe Evolution con il team capitolino Thuraya. E ancora, è stato consigliere comunale a Roma nella giunta Rutelli: una scelta ideologica, influenzata dal pensiero di stampo socialista trasmessogli dal padre Ascenzio. Un’avventura presto abbandonata davanti alla lordura degli oscuri giochi di potere capitolini.

Ha avuto tempo per coltivare le amicizie, le numerose amicizie sbocciate negli anni di frequentazione del jet set nazionale. Paolo Villaggio, Ugo Tognazzi e Franco Zeffirelli sono solo alcuni dei personaggi famosi legatisi a Panatta tra un Roland Garros e l’altro. Ha avuto tempo per coltivare gli amori: quelli iniziati precocemente con Mita Medici, Novella Caligaris e Loredana Bertè si sono evoluti nel matrimonio con Rosaria Luconi, finito nel 2014 e oggi sostituito dalle fresche nozze con Anna Bonamigo, avvocatessa trevigiana.

Treviso che da qualche tempo è diventata la nuova casa dell’ormai settantenne ‘Ascenzietto’. 70 anni che, com’era ovvio che fosse, riflessi sulla presenza scenica di Panatta sembrano un mero dato numerico. Il suo ciuffo occupa e irradia quasi quotidianamente i programmi televisivi del Paese: da La7 a ‘Quelli che il Calcio’, da ‘Meglio tardi che mai’ al grande schermo, dove il suo cameo nel film ‘La profezia dell’armadillo’ ha preso la forma di un sentito lascito testamentale.

“Sai qual è il problema di voi giovani? Non vi divertite, non volete sognare, pensate solo a portare a casa il risultato”, afferma Panatta in una scena della pellicola, “Avete perso il senso del bel gioco, dell’armonia, fate dei colpi brutti e senza senso. (…) Ricorda: armonia, il rumore, la musica…”.

Quell’armonia di cui Panatta narra ancora in prima persona sui campi da tennis e nei suoi libri, su tutti ‘Più dritti che rovesci. Incontri, sogni e successi dentro e fuori dal campo’, ‘Il tennis è musica’ e ‘Il tennis l’ha inventato il diavolo’. Quell’armonia di cui Panatta è ancora alla disperata ricerca quando funge da opinionista e analista: una musica preziosa e sempre più rara, trovata nel tennis contemporaneo solo nella maestria di Roger Federer e, forse, nell’acerbo splendore di Jannik Sinner.

“Oggi trovi energumeni che impugnano l’attrezzo. Il tennis è un’altra cosa”, continua a ripetere imperterrito l’ultimo grande poeta del tennis italiano. Chissà se prima o poi qualcuno raccoglierà le parole dell’artista che democratizzò la racchetta, donandola a tutto il Bel Paese.

adriano panatta

Gianmarco Pacione

Sources & Credits

 

 

Photos sources:
http://www.basicpress.com/contenuti/media/resultMedia.asp?ID=125091&hilight=Lanzera; http://moliseweb.it/info.php?id=27135&catid=33&cat2id=59&cat3id=&tit=Accadde-Oggi-9-luglio---; https://www.google.com/url?sa=i&url=https%3A%2F%2Fwww.walesonline.co.uk%2Fsport%2Fother-sport%2Ftennis%2Fgallery%2Fplayers-ilie-nastases-era-7340761&psig=AOvVaw3oxi6juDw9p-AG96RSU5N3&ust=1604412748498000&source=images&cd=vfe&ved=0CAIQjRxqFwoTCICInbSF5OwCFQAAAAAdAAAAABAc; https://it.wikipedia.org/wiki/Adriano_Panatta#/media/File:Adriano_Panatta_1970.jpg 

Video source: https://www.youtube.com/watch?v=9LUyeB1OE60https://www.youtube.com/watch?v=JLu_PCzE7Do

3 novembre 2020

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